LETTURE / MUSEO LABORATORIO DELLA MENTE


a cura di UOS Centro Studi e Ricerche ASL Roma, Studio Azzurro / Silvana Editore, Milano, 2010 / pagine 143, € 20,00


Una questione di luoghi e di soggetti,
di alterne verità e di potere

di Livio Santoro


La definizione del patologico, come ha sostenuto prima di tutti Charles Canguilhem (1998), deriva spesso, in prima battuta, dalla fissazione di una norma a cui il patologico stesso, inteso come vettore di sottrazione, deve riferirsi. Come questa norma venga fissata, abbiamo imparato con Michel Foucault, è opera dell’ordine discorsivo (il discorso), ovvero di quell’opaco sistema di strategie che anonimamente (2005, pp. 66, 83) - seppure con una peculiare libertà di azione da parte del soggetto singolo - seguendo percorsi spesso sotterranei, decide di fissare come verità un determinato stato assunto dalle cose, dai fenomeni e, non in ultimo, dai soggetti (Foucault, 2001a). Così giocano le strategie del potere, attraverso l’onnipresenza del discorso (Foucault, 2009, p. 82), fissando le regole di veridicità, ponendo le modalità di formazione di tali regole, e determinando la legittimità delle voci che, all’interno di questo gioco, hanno un ruolo principale. Come dire che la verità non sempre è vera (cioè non sempre è uguale a se stessa, durante il susseguirsi delle epoche) e che coloro che stabiliscono di volta in volta quale sia la verità attuale devono essere legittimati, nel farlo, da un complesso sistema di relazioni di potere. Ci si ricordi, a questo punto, che la storia dell’uomo è molto lunga, dunque che diverse epoche si sono susseguite tra loro, e si provi a leggere brevemente un piccolo racconto: quello della follia e della sua verità.

Non sempre la follia è appartenuta all’alveo delle patologie (al modo di Canguilhem), né sempre è stata tanto chiara nella sua oggettività da diventare verità (al modo di Foucault). Prima della follia, infatti, e parliamo grossomodo dell’Europa dei secoli XVII e XVIII, per non andare troppo indietro, c’erano altre fattispecie esistenziali a metà strada tra il morboso e il demoniaco che, in un modo o nell’altro, testimoniavano della natura profondamente corrotta del soggetto che le esibiva. La possessione, per esempio, manifesto della disposizione sulfurea di un’anima scesa a patti col demonio; o le malattie veneree, evidenza intima e putrescente della dissolutezza dei costumi. Naturalmente, coloro che trasportavano con sé queste tare del corpo o dello spirito dovevano essere quanto più possibile allontanati dal centro cittadino, dagli incroci delle strade dove la gente s’incontrava, dai banchi dei mercati dove ci si approvvigionava e dalle panche delle chiese in cui s’andava a chiedere conforto, indulgenza o salvazione. Così, sfruttando quei grossi edifici al margine dell’abitato, i vecchi lazzaretti e lebbrosari, ricordi di un recente passato epidemico lasciati vacanti dai precedenti inquilini, cominciò a formalizzarsi la prima pesante immagine di un nuovo stigma: l’immagine del folle (Foucault, 2001b). Dentro questi antesignani manicomi si potevano trovare diversi generi di umanità corrotta: a partire dalle donne irrequiete per arrivare fino ai libertini passando per gli onanisti, i sifilitici e gli agitati. Ad accomunare tutti questi caratteri in un’unica galleria degli orrori c’erano due elementi specifici: in prima battuta la sottrazione dalla linea definita della norma (norma della decenza, della morale, dell’ordine fisico, eccetera); in seconda battuta la conseguente definizione di uno stigma, che una volta fissato si autoalimentava accrescendo (quantitativamente) il numero e (qualitativamente) la natura delle caratteristiche patologiche (di sottrazione dalla norma) di coloro a cui si riferiva. Ecco, fissando i termini del patologico in determinati caratteri, la comunità più ampia dei normali, dei sani, dei moralmente integerrimi, cacciava dalle mura cittadine un indistinto numero di individui che si potrebbero definire, semplicemente, Anormali (Foucault, 2009). La cacciata di questi individui dalla comunità, in quei secoli ancora bui, aveva lo scopo di tenere lontane le perversioni e i liquami cancerosi affinché non contagiassero lo spirito e il corpo dei buoni cristiani e dei buoni sudditi (che nel frattempo stavano per diventare cittadini). In questo modo, col passare del tempo, si è formalizzata un’ampia categoria di persone, gli esclusi, in cui una sorta di coalescenza dell’indesiderabile avvicinava tra loro, fondendoli, numerosi vettori di sottrazione dall’ordine normale, fino a disegnare un profilo unitario che proprio in questa sottrazione trovava la coerenza dei suoi tratti. Ecco, è in questo modo che nasce il folle, individuo dal profilo imprecisato per il quale l’allontanamento negativo dall’ordine della norma definisce non solo uno stato patologico, quanto soprattutto una sottrazione ulteriore: una sottrazione di soggettività.

 

Nell’ordine socio-economico che stava strutturandosi all’interno di quell’ampio periodo in cui ha cominciato a formalizzarsi la figura del folle, infatti, la definizione del soggetto giuridico prendeva a fondarsi esattamente sull’attribuzione di diritti (sociali, economici e successivamente politici), attribuzione che definiva un ordine di soggettività: attribuzione a cui il folle, insieme al mendicante, al proletario, al bambino e al criminale non poté, in principio, accedere (Castel, 1980, p. 27). E di conseguenza chi di soggettività era carente, non possedendo alcuna batteria di diritti positivi, e avendo per di più la capacità di scatenare il contagio della sua assenza di soggettività, doveva essere cacciato, come il più becero dei capri espiatori (Szasz, 1972; 2003) dalla comunità dei soggetti propriamente intesi.

D’altronde, a sentire quanto dice Erving Goffman, l’uomo ha sempre affidato un particolare stigma ad un particolare tipo di individui: “è [infatti] la società a stabilire quali strumenti debbano essere usati per dividere le persone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali nel definire l’appartenenza a una di quelle categorie” (Goffman, 2003a, p. 12). Una volta fissate le categorie, in questo modo, si opera da sempre la cacciata del capro oltre le porte della comunità. Tutto qui. Il luogo emblematico di questa cacciata, lo abbiamo già detto, è quell’edificio che si trova al margine della città, quell’edificio che deve in un sol colpo rendere visibile l’esclusione e rendere invisibili gli esclusi (Castel, 1980, p. 180). A questo, grossomodo, servivano le mura dei manicomi: come monito, oltre che come protezione. Così, in aggiunta ai desueti lebbrosari, si presero a utilizzare altri edifici esistenti, e altri ancora se ne costruirono, nel tempo. E i manicomi divennero né più né meno di uno scenario conosciuto, familiare, almeno dal di fuori. Dentro, invece, si susseguivano gli internamenti, i tentativi di amministrare, prima, e di trattare, poi, la follia. Ovverosia: in un primo momento gli esclusi venivano rinchiusi in quanto portatori di un morbo, in un secondo momento ci si chiedeva come poter trattare questo morbo, ma non esattamente per una guarigione del soggetto, quanto invece per una normalizzazione del suo stato, delle sue proprietà morbose.

Tali trattamenti, talvolta, assumevano la meccanica ingegnosa di qualche strumentazione presa a prestito dalla fantasia di qualche bruno inventore, talaltra, invece, assumevano la forma di bizzarre pratiche sperimentali. Ecco che si utilizzavano, per calmare gli agitati, marchingegni come la macchina rotatoria, come la camera oscura (Canosa, 1979, pp. 38-39) e come la borsa di Horn (Cutting, 1981, p. 25), oppure si utilizzavano, per stimolare gli abulici, pratiche come l’urticazione (Canosa, 1979, p. 38). Il progetto, chiaro, era esattamente quello della normalizzazione: il duplice progetto preventivo di calmare gli ipertrofici e scuotere, al contrario, gli ipotrofici. In una sola, secca parola, normalizzare. Cioè sottrarre il soggetto, con le sue peculiarità (volontà, arbitrio eccetera) al suo involucro corporeo. Col tempo, naturalmente, le strategie d’intervento si fecero più sottili, anche in ragione del fatto che in tutta Europa, nei conciliaboli di psichiatria e di neurologia (che nel frattempo erano diventate scienze a tutti gli effetti) si discuteva finalmente circa la natura di ciò che stava dentro a quelle anime imbecilli, abuliche, agitate e dissolute di coloro che s’erano chiamati folli. Si presero due diverse vie: una che ricercava la causa del morbo in una marcita disposizione dell’anima (alienismo), l’altra che sosteneva la corruzione fisica dei tessuti molli del cervello (organicismo). Alla lunga la spuntò la seconda fazione e in tal modo la follia poté finalmente diventare, nel suo tragitto inesorabile verso la sua completa ma momentanea medicalizzazione, malattia mentale. Fu così che all’inizio dell’Ottocento alcuni, come lo psichiatra Cabanis dissero che, come lo stomaco digerisce gli alimenti, così il cervello digerisce i pensieri (1973); altri, come Greisinger, sentenziarono, nella lingua eletta dall’organicismo a suo idioma ufficiale, “Geisteskrahkheiten sind Gehirnkrankheiten” [le malattie mentali sono malattie del cervello] (1845, p. 4).

 

Individuare il luogo del morbo nei tessuti, nella materia cedevole degli apparati organici, fece sì che si potesse promuovere un nuovo attore all’interno del trattamento della follia, che oramai stava trasformandosi definitivamente in malattia mentale. Questo attore è il corpo, principale oggetto del disciplinamento, dell’amministrazione, del trattamento. Tutto in un unico contenitore, nascosto all’interno di un luogo sicuro: il corpo del malato all’interno dell’ospedale psichiatrico, del manicomio. Si riassuma allora in poche parole quanto detto fino a questo punto, perché la storia è lunga e le parole qui a disposizione sono poche: la psichiatria, diventata nel tempo scienza, all’interno di una società in cui la necessità è quella della normalizzazione, promuove lo stato esistenziale del folle a morbo del corpo, ispeziona questo stesso corpo e lo tratta come tale rinchiudendolo in luoghi sempre più violenti e medicalizzati per adempiere all’imperativo espiatorio di un’intera società. Come sostiene Salvatore Natoli, dunque, “la disciplina dei corpi è speculare al corpus disciplinare. Se si comprende questa relazione, si comprende il rapporto, del tutto peculiare, che intercorre fra sapere e potere” (2005, p. 87). Ecco: è una questione di potere, e una questione di luoghi in cui questo potere ha più libertà di esprimersi a suo piacimento, luoghi in cui avviene una condensazione plurale delle diverse istanze della normalizzazione, in cui questa condensazione può esprimersi con tutta la sua forza di definizione. Da tutto questo, in buona sostanza, nasce e si consolida l’essenza stessa del manicomio. Durante tutta la seconda metà dell’Ottocento, fino all’inizio del Novecento, il paradigma organicista, che trovava nella piattaforma corporea il mondo all’interno del quale si insinuava il tarlo del morbo, per puntellare la sua forza, e il suo attributo di potere, non ha fatto altro che medicalizzare quanto più possibile l’iter del trattamento di tutti quei corpi imbecilli e infelici, riproponendo il modello ospedaliero per quelli che da folli erano oramai diventati malati di mente. E ha fatto tutto questo con una serie di strumentazioni di cui quelle sopra descritte non sono che i primi rudimentali esempi. Poi è venuto l’utilizzo incondizionato della contenzione, delle cinghie, delle camicie di forza, delle lobotomie chirurgiche e dell’elettroconvulsione, invenzione futurista di due italiani illuminati seguaci dell’elettrico, apostoli della modernità (Cerletti, 1940, in R. Passione, 2006). In ultimo, poco prima che il paradigma organicista cominciasse a farsi da parte nella definizione delle linee d’intervento della psichiatria, vennero le ondate massicce delle farmacoterapie a scompaginare ancora una volta le carte in tavola. Con le farmacoterapie, infatti, cominciò a rendersi possibile una nuova evidenza, quella di calmare lo stato d’agitazione evitando la furia della contenzione e lasciando all’individuo malato parte della sua disposizione soggettiva: un modo più gentile e un po’ diverso di dare quiete agli agitati, un modo, bene o male, per renderli più sopportabili allo sguardo.

Da quel momento in poi è cominciato un certo tragitto per cui, come dice ancora una volta Foucault, “la follia scioglie la sua parentela, antica o recente secondo la scala che si sceglie, con la malattia mentale. Quest’ultima, non c’è dubbio, sta per entrare in uno spazio tecnico sempre più controllato: negli ospedali la farmacologia ha già trasformato le sale di agitati in grandi acquari tiepidi” (2004, p. 109). Come a dire che la follia, dopo essere diventata malattia mentale grazie alla furia della medicalizzazione, torna a essere follia anche grazie all’estremizzazione di questa stessa furia. Ma tutto questo soprattutto in ragione di una sottile innovazione (o meglio della riscoperta della cosa più antica che esista) che è riuscita ad innestarsi nel solco di questo cambiamento, che è riuscita a sfruttare con la disposizione garantita dall’ascolto, le possibilità offerte dalla innovazioni farmacologiche.

 

Così, accanto ad alcuni farmaci gentili (non tutti i farmaci sono stati gentili, al contrario), e forse anche prima di essi, un certo numero di psichiatri, dalla prima metà del Novecento, ha cominciato, a partire dall’Europa centrale, a restituire una dignità d’esistenza, dunque una soggettività, a quei corpi medicalizzati e svuotati da un potere psichiatrico votato alla normalizzazione. Si faccia di passaggio l’esempio di Ludwig Binswanger, il padre della psichiatria ad indirizzo fenomenologico, per il quale quella cosa che alcuni hanno chiamato follia e altri malattia mentale, non è altro che una delle legittime possibilità che l’esistenza ha di darsi (2001). Il folle (o il malato di mente) comincia in questo modo a reintegrarsi all’interno della comunità che l’aveva cacciato, almeno nelle discussioni di una certa psichiatria che cercava di restituire parte del suo potere, quello sottratto ai corpi di cui nel tempo s’era sempre occupata, ai soggetti che di quei corpi stessi si stavano a poco a poco riappropriando. Questa nuova psichiatria, quella di Binswanger ma anche quella di Eugène Minkowski, per dire solo un altro nome, non ha utilizzato strumentazioni fantasiose nella promozione delle sue modalità di trattamento. Non ha nemmeno inventato strane teorie per le quali c’era da eccitare coloro che sembrava non volessero farlo. In poche parole non ha imposto nulla, da parte sua. Ha semplicemente provato ad ascoltare quanto questi corpi sottratti di soggettività avevano da dire, partendo dal presupposto che bloccando la parola all’interno del corpo, questa resta dentro a marcire e, marcendo, incancrenisce anche l’anima. Allo stesso modo, altra cosa importante, questa nuova psichiatria ha ridato ai corpi un nome.

Ma adesso si restringa il campo, e si rimanga in Italia, perché proprio qui, questa cosa di lasciar parlare i folli, e di ridar loro un nome, ha creato una svolta ben forte all’interno del tragitto del potere della psichiatria e, di conseguenza, nel trattamento del morbo a cui la psichiatria si riferisce. In Italia, infatti, nel 1930 (grossomodo mentre Cerletti provava le sue macchine da elettroshock sugli uomini dopo aver avuto l’ispirazione dai maiali), un altro giovane psichiatra, Enrico Morselli (1995), diede alle stampe un testo in cui si dava ampio spazio alle parole di una donna affetta da malattia mentale, tralasciando l’approfondimento di quelli che fino ad allora erano considerati i sintomi oggettivi, secondo la classificazione di Karl Jaspers (2004, p. 27), scaturiti da un problema di ordine organico. Morselli fece semplicemente parlare una sua paziente, ricordata come Elena, e ne registrò le parole. Questa cosa (naturalmente non da sola) come sottolinea tra gli altri Valeria Babini (2009), ha fatto sì che in Italia si cominciasse a prendere seriamente in considerazione l’idea che i folli potessero avere qualche cosa da dire, nonostante tutto. I folli, gli insensati, probabilmente potevano anche parlare, potevano tematizzare il loro stato. Non fu una gran scoperta, se ci si pensa oggi, ma ad ogni modo segnò un passaggio fondamentale nello sviluppo della psichiatria italiana e del trattamento della follia (o della malattia mentale che dir si voglia: per quanto abbiamo detto, qui si potrebbe evitare di utilizzare sia l’uno che l’altro termine).

Dopo Morselli vennero altri psichiatri, restando in Italia, che presero a pensare che questa cosa di ascoltare le parole dei folli poteva essere d’aiuto sia nel trattamento del loro stato, sia nella restituzione di quei diritti di soggettività che in tutto il tempo precedente erano loro stati sottratti. Una delle cose che pensarono successivamente, questi giovani e nuovi psichiatri, era che il modo principale per ridare definitivamente la parola ai folli, e quindi per farli guarire da quella che era ancora chiamata malattia, poteva inizialmente essere l’abolizione del luogo all’interno del quale il trattamento e l’amministrazione dei loro corpi era fino a quel momento stato portato avanti e promosso. Il manicomio, in sostanza, aveva oramai reso palese la sua funzione principale: non già un luogo di cura in cui da uno stato patologico si passava ad uno stato di normalità, bensì un luogo di normalizzazione chiuso, in cui diversi generi di storture, abbrutimenti, ossessioni e nefandezze si sedimentavano tra loro invadendo chiunque vi entrasse. Ovvero quella che Russell Barton (1966) ha chiamato institutional neurosis: l’ospedale psichiatrico, rinchiudendo esseri umani all’interno delle sue mura, e trattandoli come individui a cui deve essere sottratta la soggettività, con continue vessazioni e con continuo annichilimento della volontà, ha avuto naturalmente l’opposto effetto della guarigione di questi stessi soggetti (Goffman, 2003b). Altra cosa molto semplice, si direbbe.

 

Ma per reintegrare i soggetti stigmatizzati nella società non sarebbe bastato aprire i cancelli dei manicomi per far pascolare i folli nelle strade cittadine. Perché sradicare uno stigma che giustifica una sottrazione tanto forte come quella della soggettività, è cosa di estrema difficoltà, proprio perché bisogna intervenire all’interno di quelle maglie tanto strette che fanno la trama del tessuto del potere. Solo dopo si sarebbe intervenuto nelle maglie della rappresentazione comune, nell’uomo della strada, insomma, dell’opinione pubblica. Per questo motivo, in un modo o nell’altro, il paradigma organicista, con la sua tensione verso l’ospedalizzazione, la contenzione, l’elettroconvulsione e l’esclusione, continuò a dettare le proprie leggi anche dopo le parole di Elena. Fino a quando fu il potere stesso, quello psichiatrico, a mettersi in discussione.

Questa messa in discussione avvenne proprio su diversi piani programmatici: innanzitutto l’abolizione del manicomio, istituzione dello scandalo; poi la restituzione dei diritti soggettivi a quelli che nel manicomio erano segregati; e in ultimo la ridefinizione del ruolo della psichiatria e degli psichiatri. In una sola parola questo programma definiva la de-istituzionalizzazione non solo dei soggetti passivi che erano folli o malati e del luogo all’interno del quale questa segregazione avveniva ma anche de-istituzionalizzazione della stessa psichiatria, e della sua struttura di potere, al fine di una sua particolare riconfigurazione. Negare l’istituzione, seguendo un adagio di Franco Basaglia (Basaglia, 1973). Il manicomio, con le sue corsie anodine ma lerce, con la sua indistinta eco terribile, con la sua angoscia stagnante, doveva essere abolito. Ma prima di essere abolito, doveva essere reso visibile, e non solo più al suo esterno, bensì al suo interno. Ecco, aprire il manicomio agli abitanti della comunità, prima di aprire la comunità agli abitanti del manicomio. E aprire la sua organizzazione alla comunità stessa, attraverso una serie di assemblee in cui i pazienti, gli psichiatri, gli infermieri e gli abitanti del quartiere si confrontassero tra loro. Tutta questa storia, il cui preludio è ambientato a Gorizia, Trieste, Salerno e Perugia, per dire solo alcuni esempi virtuosi, si espanse in tutta Italia, dando vita a quella riforma legislativa che proprio da Basaglia prese il nome. Era il 1978, la legge italiana sanciva che mai più, in ogni caso, si sarebbe potuto ricostruire un manicomio, posto che, a poco a poco, bisognava far sparire pure quelli già esistenti. Si legga quanto a proposito del caso di Trieste raccontano Franco Rotelli e Chiara Strutti i quali affermano che proprio grazie a quell’esperienza “in pochi anni l’ospedale [psichiatrico] cambia completamente: non è più un luogo chiuso” (in UOS e Studio Azzurro, 2010, a cura di, p. 114), e la riforma del sistema psichiatrico poté concretamente basarsi su un esperienza già reale. Naturalmente furono molte altre le nuove discipline che la riforma introdusse in materia di assistenza psichiatrica, ma quella più forte, quella maggiormente simbolica, fu proprio quella che sanciva la definitiva abolizione dell’istituzione totale (Goffman, 2003b) per eccellenza.

 

In tutte queste strategie ebbe buon gioco anche l’introduzione di una specifica tattica di destrutturazione dello stigma: l’incremento della dotazione di soggettività attraverso lo sfruttamento delle possibilità offerte dall’arte. Lungi dal rappresentare lo Spirito Assoluto, l’espressione soggettiva di alcuni folli venne così promossa alla concretezza dell’espressione artistica, e dove prima funzionava la pervasività dello stigma, cominciarono a insinuarsi le parole dei folli sotto la forma dell’arte. L’arte fu foriera di un grosso impatto simbolico, come nel caso della costruzione di Marco Cavallo a Trieste (Rotelli e Strutti, in UOS e Studio Azzurro, a cura di, 2010, p. 115), nel 1973, ma fu anche, e soprattutto, testimone della reale dotazione di soggettività che gli ex internati nei manicomi, in ogni caso, avevano tenacemente conservato. L’arte (anche l’arte) definì le linee della soggettività e rese concreta la sofferenza esistenziale di coloro che avevano vissuto all’interno del manicomio, come altrove succedeva con Antonin Artaud con le sue glossolalie (1988). Perché dentro le mura manicomiali persone come Alda Merini, come Oreste Fernando Nannetti, come Gino Sandri, provavano a superare l’alienazione (o a darsi a quella stessa alienazione) anche attraverso la forza poietica, la forza soggettiva dell’atre. Ed erano artisti, oltre che internati. Artisti anche prima di entrare in manicomio, non solo artisti perché malati, ma artisti anche in quanto sofferenti. E avevano un nome. Ecco, ancora una volta, superare lo stigma ridando un nome e una soggettività ad ogni folle, promuovendo la sofferenza e la bizzarria a legittime forme d’esistenza, estendendo il margine della verità e frastagliandolo confusamente all’interno della linea di demarcazione tra normale e patologico. Di Alda Merini si conosce naturalmente già molto, e pure su queste pagine l’abbiamo salutata nei giorni successivi alla sua morte (https://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero24/bussole/q24_b06.htm).

Degli altri due, Gino Sandri e Oreste Fernando Nannetti, forse si sa un po’ meno. Del primo ci racconta Bianca Tosatti (in UOS e Studio Azzurro, a cura di, 2010, p. 61-70), presentando il pittore che ha dipinto le facce degl’internati dando loro quell’espressione che una ritrattistica di gusto lombrosiano aveva già da tempo eliminato. Gino Sandri, un pittore che anche grazie alla malattia e alla sofferenza, seppe ridefinire gli stilemi del tratto del suo pennello: “si deve convenire che è proprio la malattia che gli affina lo sguardo inducendolo a quel disegno intimo e delicato, a quelle notazioni sottili e sensibilissime che oggi costituiscono uno dei più preziosi documenti poetico-visivi sulla sofferenza mentale” (ibidem, p. 64). Il secondo dei due, Oreste Fernando Nannetti, è senza dubbio uno dei più incredibili esseri che abbia calpestato questa terra. Un uomo in contatto diretto con le stelle, capace di rendere in un graffito rupestre, sul muro di cinta del manicomio criminale di Volterra, dov’era ricoverato, la lingua sconosciuta degli abitanti degli astri. Una storia bizzarra, quella di Nannetti, per cui si rimanda al numero che vi abbiamo dedicato (https://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero6/indexsf.htm) e ai successivi interventi (Pastor 2009, Dagnino, 2009).

La storia di un uomo completamente assorto nel suo obbligo anonimo di mettere nel mondo quanto il mondo non conosce, non necessariamente di comunicarlo. Semplicemente di sistemarlo lì, in balia di quelle stesse intemperie che hanno distrutto gran parte della sua opera, del suo grande graffito. Non un artista come gli altri, e forse in nessun modo un artista, inconsapevole strumento delle sue cose di dentro. Che poi si sia deciso che la sua produzione potesse diventare arte, questa è una storia che riguarda chi ha provato ad ascoltarlo e a trarre dalle sue parole fatte di incisioni sulla pietra un senso ben preciso. Nannetti “non appartiene né all’arte né alla pura patologia, non si limita alla creatività quotidiana e certo non fa parte, nelle sue intenzioni, del mondo comunicativo” (Rosa, in UOS e Studio Azzurro, a cura di, 2010, p. 80). Ma è una storia esemplare quella di Nannetti, da osservare in sospensione (come direbbero i fenomenologi) e da ripensare a occhi chiusi. La storia di Nannetti, come quella di Sandri e quella degli altri artisti folli, come volano per ridefinire lo statuto della follia attraverso l’arte, attraverso le modalità comunicative che rendono per il solo loro esistere la misura della soggettività.

È questa, grossomodo, una delle strategie comunicative che il Museo Laboratorio della Mente ha messo in piedi nei locali dell’ex manicomio di Santa Maria della Pietà in Roma, di cui si legge nel testo qui più volte citato. Una strategia che ha incluso anche la ricostruzione di quel muro inciso da Nannetti rendendolo un pannello trasparente, oltre il quale si vede anche il resto del mondo. Perché lo stigma, seppure mitigato, ancora sopravvive, ai giorni nostri pure. Una strategia espositiva ancora necessaria a trent’anni dalla chiusura legislativa di ogni manicomio: invitare gli abitanti della comunità a entrare dentro a una struttura che un tempo era un fortino di esclusione, raccontando, attraverso la cifra dell’arte, le storie dei suoi abitanti nascosti pronunciandone il nome, palesandone la produzione artistica e non solo quella. Esporre, in poche parole, percorsi di soggettivazione all’interno dei luoghi dell’assoggettamento, del potere, per recuperare il lessico foucaultiano. Con una rinnovata etica della psichiatria, colpevole del suo passato e ricostruitasi a partire dalle parole delle sue vecchie vittime, e non dai loro cadaveri (corpi putrefatti) come invece accedeva nel passato. Perché la riforma psichiatrica italiana, che tra l’altro viene citata d’esempio anche da organismi internazionali (WHO, 2001), nasce da una presa di posizione etica del potere, o di parte di esso, che ritratta sulle proprie vecchie verità, offrendosi come luogo a cui appartengono soggetti seppur diversi, con diversi nomi e diversi stati esistenziali. Tutto qui. Perché, come avrebbe detto Minkowski: “L’azione etica non è possibile se non dove c’è una comunità, e questo ancora una volta non perché le mie azioni possono essere utili o nocive ad altri, ma perché nella ricerca dell’azione etica si ritrova l’idea di una fusione intima proprio con dei «simili», se non quali essi sono, almeno quali potrebbero e dovrebbero essere” (2004, p. 122).

 


LETTURE

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× Barton R., Institutional Neurosis, Wright and Sons, Bristol, 1966.

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× Quaderni d’Altri Tempi, Speciale: NANnetti Oreste Fernando, l'Uomo che cadde sulla Terra, https://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero6/indexsf.htm.

× Santoro L., Alda Merini, Non soltanto il poeta è solo, in https://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero24/bussole/q24_b06.htm.

× Szasz T., The Manufacture of Madness: a Comparative Study of the Inquisition and the Mental Health Movement, 1970, trad. it. I manipolatori della pazzia. Studio comparato dell’Inquisizione e del movimento per la salute mentale in America, Feltrinelli, Milano, 1972.

× Szasz T., The Myth of Mental Illness, 1974, trad. it. Il mito della malattia mentale, Spirali, Milano, 2003.

× World Health Organization, The world health report 2001 – Mental Health: New Understanding, New Hope, 2001.