LETTURE / RACCONTI E PROSE BREVI
di Samuel Beckett / Einaudi, Torino, 2010 / pagine 278, € 21,00
Ben tradotto, mal tradotto,
non tradotto
di Antonio Iannotta
Luogo di non ritorno, da cui affacciarsi nel vasto corpus beckettiano, è un episodio segnalato esattamente all’inizio del primo romanzo della cosiddetta
Trilogia, Molloy (1951, scritto nel 1947-48), una falsa partenza che rimanda allo sfondo indistinto dalla figura che costituisce l’autobiografia di ogni scrittore: “Sono nella camera di mia madre. Sono io a viverci ora. Non so come ci sono arrivato”.
1945. Beckett (1906-1989) soggiorna a Foxrock dalla madre. È in quel momento, come ricorda la biografa Deirdre Bair, che “Molloy e gli altri vennero da me”. Si tratta del famoso episodio della cosiddetta rivelazione e segna il “giorno che divenni consapevole della mia stessa follia [bêtise]. Solo allora cominciai a scrivere davvero le cose che sentivo”. In Krapp’s Last Tape, anni dopo (1958), Beckett parodierà l’episodio: “Spiritualmente un anno di profondo squallore e indigenza fino a quella memorabile notte di marzo, in fondo al molo, nel vento che urlava, non la scorderò mai, quando all’improvviso tutto mi è stato chiaro”. Molloy capisce di aver iniziato male il suo resoconto (“Avevo iniziato dall’inizio, figuratevi, come un vecchio coglione”) e prende consapevolezza del suo macroscopico errore: non è inconsueto che un luogotenente dello scrittore irlandese si metta a “raccontare” la propria “storia” in malo modo, poiché, in fin dei conti, come sottolineava nel 1988 Gabriele Frasca – che sarebbe diventato col tempo il maggiore traduttore e studioso beckettiano – “la pena degli eroi beckettiani è sempre una riverbalizzazione sbagliata”. Perché, per parlare di questi Racconti e prose brevi di recente pubblicazione einaudiana, che raccolgono quasi tutte le narrazioni brevi in prosa dell’autore dublinese, s’è deciso di partire da questo aneddoto biografico? Semplice, per non commettere l’errore di Molloy, e cominciare, come un “coglione”, dall’inizio. Perché se si dovesse cominciare dall’inizio, si dovrebbe partire dal breve e giovanile Assumption (Assunzione) del 1929 (versione di Massimo Bocchiola, di recente tradotto anche da Francesco Cappellini per le edizioni Via del vento), e quindi dal suo incipit, “He could have shouted and could not” (“Avrebbe potuto gridare e non poteva”) per finire, nientemeno, con l’intraducibile, almeno nel titolo, Stirrings Still del 1988 (risolto da Frasca con l’assai beckettiano Fremiti fermi), e con le sue estreme parole: “No matter how no matter where. Time and grief and self so-called. Oh all to end” (“Non importa come non importa quando. Tempo e afflizione a sé sedicenti. Oh tutto finire”). L’impresa sarebbe ardua e, soprattutto, vana. Si può leggere l’opera breve in prosa beckettiana come un unico percorso teleologico che da Assumption porta a Neither (Né l’uno né l’altro, testo tardo e brevissimo tradotto da Frasca) e Stirrings Still? Per chi scrive e per chi vuole comprendere la dichiarazione sopra-riportata (“Solo allora – ovvero già all’altezza del 1945 – cominciai a scrivere davvero le cose che sentivo”), assolutamente no.
La guerra, insieme alle vicende strettamente biografiche, apre un vulnus che fa da inevitabile spartiacque tra una produzione pre-bellica e una post-bellica. “Se scoppierà una guerra, come purtroppo temo accadrà presto”, scriveva da Parigi a un amico il 18 aprile del 1939, come riporta il suo maggiore biografo, James Knowlson, “mi metterò a disposizione di questo paese”. E così avvenne. Beckett non esitò mai – per quanto magari troppo spesso si tende a dimenticare –, e partecipò attivamente alla lotta al nazifascismo, nella cellula della Resistenza francese, mettendo a disposizione, guarda un po’, le sue competenze linguistiche per tradurre i documenti da inviare a Londra. Tutto questo fino all’agosto del 1942, quando quasi tutti i membri della cellula furono arrestati. Beckett allora fuggì con la sua compagna e dopo varie peripezie riuscì a raggiungere un paesino nelle Alpi (Roussillon) in cui trascorse, nascosto, il resto del conflitto. Di ritorno dalla guerra, Beckett cominciò a scrivere in maniera furibonda, teatro e prosa, in particolare. E lo fece in francese (lingua che ben conosceva, essendosi trasferito definitivamente a Parigi nel 1938, ma dove risiedeva saltuariamente dal 1928, e sulla quale si era esercitato nel comporre poesie, e tradurre proprio una gran mole di documenti durante la guerra). Da quel momento in poi, dunque, francese e inglese saranno opzioni linguistiche che il nostro prenderà in considerazione di volta in volta nelle fasi di prima stesura di ogni sua opera, per poi cominciare a tradursi anche nella lingua compagna. Eccolo in azione, l’equilinguismo beckettiano. Non c’è mai mera ripetizione quando l’autore si traduce: ogni volta Beckett riscrive, con le specifiche differenze fonetiche e morfo-sintattiche ora del francese, ora dell’inglese, ciò che ha prima composto in una lingua, o in un’altra. Non mere copie, insomma, ma differenti esecuzioni dello stesso testo. I testi qui raccolti sono, non a caso, quasi equamente distribuiti nelle due lingue d’elezione dello scrittore dublinese.
C’è qualcosa di ostinatamente perverso nella politica di Einaudi e, quindi, dal 1994 di Mondadori, e cioè del primo gruppo editoriale italiano, nel proporre in maniera schizofrenica al lettore l’opera di Samuel Beckett, uno degli autori indiscutibili, ma forse, insieme a James Joyce, meno letti, e meno autenticamente discussi, del Novecento. La gestione del catalogo beckettiano da parte di Einaudi è difficilmente giustificabile, e se è vero che tutti noi, appassionati lettori di una delle rare opere che può dirsi davvero maestra, non possiamo non essere istintivamente felici nel trovare in libreria una ricca raccolta di racconti in buona parte introvabili da decenni, non possiamo nasconderci dietro a questa iniziale gioia, e tacere. L’operazione nasce dalla pubblicazione, curata svariati anni fa dallo studioso beckettiano Stanley E. Gontarski, di The Complete Short Prose of Samuel Beckett per Grove Press. Ma se la scelta è di per sé opinabile, nei paesi anglo-americani la pubblicazione e ripubblicazione continua dell’opera omnia di Beckett è da decenni all’ordine del giorno. Allo stesso modo, se entrate in una qualsiasi libreria francese o tedesca difficilmente non troverete a portata di mano, e di portafoglio, l’opera del nostro. Perché in Italia no? Perché, addirittura, manca da anni la riedizione della Trilogia, opera fondante del secondo Novecento e indispensabile per capire davvero che cosa possa dirsi oggi un “romanzo”? Pur ritradotta da uno dei primi studiosi dell’opera beckettiana, Aldo Tagliaferri, la Trilogia, uscita per Einaudi nel 1996, scomparve immediatamente. Nel 2005, cioè ben nove anni dopo, il citato Molloy fu il solo a fare capolino. E Malone muore e L’Innominabile, che fine hanno fatto? La stessa fine fatta dai vari Murphy (1938) e Watt (1953, ma scritto durante la guerra), romanzi straordinari, entrambi tradotti e curati da Frasca, che andrebbero letti a chiusura della prima parte di questi Racconti e prose brevi (curati da Paolo Bertinetti), diciamo da Assumption a La fin (La fine, 1955, scritto nel 1946). Già i successivi Textes pour rien (1950-52, pubblicati nel 1955), per non parlare delle prose successive, si sono così abbondantemente abbeverati alla fonte del Beckett equilingue post-guerra, che non si capiscono se non si mettono in risonanza con il processo, coinvolgente e risucchiante, dello “stream of perceptions” (ancora Frasca, 1988) messo in funzione definitivamente grazie alla Trilogia e capace di andare anche al di là dello stream of consciousness di matrice joyciana. Un crepaccio separa il Beckett di questa prima parte della sua produzione da quella successiva. Un abisso perché, oltre a tutto ciò, a partire dall’inizio degli anni Sessanta, Beckett comincia a lavorare per la radio, concepisce, scrive (1963) e gira con Alan Schneider il cortometraggio cinematografico Film (del 1965 è la prima proiezione) con Buster Keaton, lavora per la televisione tedesca e inglese, non abbandonando mai né la scrittura né la regia teatrale, né tantomeno la prosa o la poesia. Ha ragione, allora, il filosofo Alain Badiou: “Né esistenzialismo né barocco moderno. La lezione di Beckett è una lezione di misura, di esattezza e di coraggio. [...] È per questo motivo che occorre partire dalla bellezza della sua prosa”. Partire dalla sua prosa per capire la messa a punto di un unico arcimedia nel quale indistinguere, insieme alla lingue, anche i media e i linguaggi che di volta in volta Beckett utilizzava per chiamare in causa il proprio fruitore, smuovendolo dalla comoda posizione nella quale lo si vorrebbe sempre docile e silenzioso.
Ma torniamo alla raccolta. Tra le scelte inevitabili, e condivisibili, nel volume ci sono la riproposizione di Dante and the Lobster (Dante e l’aragosta), tradotto da Bertinetti, pubblicato autonomamente su rivista e poi confluito nella raccolta More Pricks than Kicks (la raccolta in italiano intitolata Più pene che pane, ormai introvabile, e che ci si augura venga anch’essa ritradotta in toto) mentre mancano Heard In The Dark I e II perché confluiti nel tessuto del romanzo Company (Compagnia); c’è, invece, L’image (L’immagine), che ha avuto una vita editoriale autonoma, anche se in effetti costituisce una parte di uno dei capitoli del romanzo Comment c’est (Com’è). Per quanto riguarda le traduzioni, c’è una poco comprensibile miscela di vecchio e nuovo. Valerio Fantinel ha rimesso mano, per esempio, alla sua vecchia traduzione di From an Abandoned Work (Da un’opera abbandonata), sciogliendo alcune incomprensioni linguistiche, ma lasciandone altre. Di Assumption si è detto. Massimo Bocchiola ritraduce anche All Strange Away (Tutto l’estraneo via). A Case in a Thousand (Un caso su mille), altra prova davvero giovanile, anch’essa tradotta da pochissimo da Cappellini, viene qui proposta nell’interpretazione di Susanna Basso. Di Carlo Cignetti, vecchio traduttore dei Textes pour rien (Testi per nulla), Einaudi ripropone le traduzioni vetuste e da rifare delle tre note novelle L’expulsé, Le calmant (Lo sfrattato, Il calmante) e La fin. Per fortuna, e il prezzo del libro varrebbe solo per questo sforzo, Gabriella Bosco, studiosa di letteratura francese, dà finalmente vividezza e nuova vita ai Textes pour rien e ai successivi, meno importanti ma finalmente leggibili in italiano Imagination morte imaginez, Assez e Bing (Immaginazione morta immaginate, Basta, Bing). Le dépleupleur, invece (Lo spopolatore), l’altro testo capitale della scrittura breve beckettiana post-Trilogia, andrebbe completamente ritradotto, e questa poteva essere una buona occasione per farlo. Viene riproposta invece la versione, all’epoca probabilmente per forza di cose frettolosa, di Renato Oliva, di cui si ripropone anche la vecchia versione di Sans (Senza). Ognuno di noi, dice Beckett in questo lavoro che cortocircuita teatro, narrativa e video, “va in cerca del suo spopolatore”, non di chi lo spopoli ma, seguendo l’intuizione di Alphonse de Lamartine (“Un seul être vous manque et tout est dépeuplé”), di chi lo ha “spopolato”. La descrizione asettica, da trattatello enumerativo pseudoscientifico, non deve trarre in inganno: il narratore è adesso a un punto di vista esterno solo perché quello interno è stato svuotato, prosciugato, “spopolato”: una volta scarnificato l’io dalla furia innominabile non resta altra possibilità che la descrizione, apparentemente impassibile, offerta da un punto di vista esterno, anonimo, disindividuato e innominato, di chi escogita un tale marchingegno con il solo scopo di tenere “compagnia”. A chi o a che cosa o perché? Forse solo la voce del successivo romanzo Company potrebbe rispondere, anche se è certamente meglio non confidare in alcuna risposta. L’ossessione descrittiva per vedere l’intera struttura e il sistema di funzionamento della “dimora” va senza dubbio messa in connessione con la coeva esperienza televisiva e cinematografica, e in risonanza con questi lavori andrebbe letta, aspetto che non secondariamente sottolinea il funzionamento delle opere beckettiane che si è poc’anzi definito arcimediale.
Perché non ritradurre tutto, allora? Perché non ritradurre e ridare alle stampe il desaparecido Mercier et Camier (vedi Erika Dagnino, Mercier e Camier, due cognomi a zonzo, https://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero19/02bussole/q19_01beckett01.htm). E a questo punto bisogna chiedersi perché Einaudi non ritraduce anche l’opera cui si deve maggiormente la fortuna beckettiana, quella teatrale. I testi teatrali prodotti fino alla fine degli anni Sessanta, infatti, risultano tradotti dal francese, anche quando la prima stesura era in inglese. Frettolosità? Che strano che l’autore che ha prodotto un effetto così pregnante nella nostra letteratura, almeno da Giorgio Manganelli e Italo Calvino in giù, e che amava moltissimo la nostra lingua e in particolare l’opera, guarda un po’, di Dante, sia così mal tradotto da noi. Eppure, le occasioni non mancherebbero – questa per esempio poteva essere una di quelle –, le risorse economiche neppure – si è detto, abbiamo a che fare con l’editore italiano più facoltoso –, e ormai la competenza e la conoscenza dell’autore, pure quella ci sarebbe – si è citato più volte il lavoro svolto da Frasca, ma non è il solo a potersi cimentare con l’opera beckettiana, e Gabriella Bosco qui lo dimostra magnificamente.
Giustamente mancano invece Company, Mal vu mal dit (Mal visto mal detto) e Worstward Ho (Peggio tutta) più romanzi asciugati che racconti lunghi, confluiti nella cosiddetta seconda trilogia e riuniti da Beckett stesso nella raccolta Nohow on (Mal vu mal dit ovviamente nella sua versione inglese di Ill Seen Ill Said) e proposta al lettore italiano nella nuova traduzione di Frasca uscita nel 2008 con il titolo In nessun modo ancora. Questo libro pare stia riscontrando ancora un discreto successo commerciale. Forse perché adeguatamente tradotto e ben diffuso? Chissà. Anche se l’edizione sarebbe stata di sicuro migliore se avesse avuto a fronte gli originali beckettiani, almeno in una delle lingue, come faceva un tempo la stessa casa editrice. Di Beckett in particolare era uscito proprio Mal vu mal dit tradotto dallo stesso Beckett come Ill Seen Ill Said e reso in italiano come Mal visto mal detto da Renzo Guidieri in un’edizione curata da Nadia Fusini nel 1994 e dove convivevano nella stessa pagina tipografica tutte e tre le versioni. Sembrerebbe incredibile. Einaudi ha però proposto cinque anni dopo un’altra eccellente edizione, anche questa in economica e più volte ristampata, che raccoglie tutte Le poesie, con testo originale a fronte, curata e tradotta dal solito Frasca. Da qui la considerazione iniziale di un approccio schizofrenico alla pubblicazione del corpus beckettiano che si spera prima o poi abbia termine. Se un unico obiettivo si può rintracciare, in Beckett, e può essere un esile fil rouge che tiene assieme prose e racconti così diversi, allora lo possiamo rintracciare anche fuori dalla raccolta, nell’estremo Worstward Ho: dire male, dire peggio, per non dire più nulla, se non il silenzio. “Tutto solito. Nient’altro mai. Mai mai tanto fallito. [...] Ottimo peggio non oltre sia. In nessun modo meno. In nessun modo peggio. In nessun modo niente. In nessun modo ancora”.
LETTURE
× Alfano G., Cortellessa A., a cura di, Tegole dal cielo. L’“effetto Beckett” nella cultura italiana, EdUP, Roma, 2006.
× Badiou, A., Beckett l'increvable desir, 1995, trad. it. Beckett. L'inestinguibile desiderio, il Melangolo, Genova, 2008.
× Bair D., Samuel Beckett. A Biography, 1978, trad. it. Samuel Beckett. Una biografia, Garzanti, Milano, 1990.
× Beckett S., Murphy, 1938, trad. it. Murphy, Einaudi, Torino, 2003.
× Beckett S., Watt, 1953, trad. it. Watt, Einaudi, Torino, 1998.
× Beckett S., Molloy (1951), Malone meurt (1951), L’Innommable (1953), trad. it. Trilogia. Molloy, Malone muore, L’innominabile, Einaudi, Torino, 1996.
× Beckett S., Nohow On, 1989, trad. it. In nessun modo ancora, Einaudi, Torino, 2008.
× Beckett S., Le poesie, Einaudi, Torino, 1999.
× Beckett S., Krapp’s Last Tape, 1958, trad. it. L’ultimo nastro di Krapp, in Teatro, Einaudi, Torino, 2005.
× Frasca G., Cascando. Tre studi su Samuel Beckett, Liguori, Napoli, 1988.
× Frasca G., Introduzione a Samuel Beckett, Le poesie, Einaudi, Torino, 1999, pp. v-lx.
× Frasca G., La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Meltemi, Roma, 2005.
× Frasca G., “Dante in Beckett”, in Alfano G., Cortellessa A., a cura di, Tegole dal cielo. La letteratura italiana nell’opera di Beckett, Edup, Roma, 2006, pp. 21-90.
× Frasca G., “Radioactivity”, in (a cura di) Frasca G., Per finire ancora. Studi sul centenario di Samuel Beckett, Pacini, Pisa, pp. 105-157.
× Iannotta A., Lo sguardo sottratto. Samuel Beckett e i media, Liguori, Napoli, 2006.
× Knowlson J., Damned to Fame: The Life of Samuel Beckett, 1996, trad. it. Samuel Beckett. Una vita, Einaudi, Torino, 2001.
× Lamartine A. de, Méditations poétiques, 1820, trad. it. Meditazioni e altre poesie, Mondadori, Milano, 1990.