di Francesco Zago
Orrore. L’origine è sempre mostruosa. Anche quella dei Pink Floyd: “«Lui come chirurgo separò quella mia metà, la saldò alla tua, e ci fece rinascere così». «Di solito i chirurghi li separano, i siamesi: a noi è toccato l’unico che li crea…»”. A parlare sono Pink Anderson e Floyd Council, due bluesmen che Syd Barrett (l’eccentrico “chirurgo” di cui parlano, una sorta di Frankenstein psichedelico) pensò di unire, a quanto pare non solo nel nome. Ora i due “siamesi” si contorcono, si azzannano e infieriscono sulle rispettive carni – le loro stesse carni, ormai. “«Alla fine il genio si impose» […] «con la durezza del diamante»”.
Più o meno nascostamente, pressoché tutti i romanzi e i racconti di Mari sono percorsi dal tema della “bestia”, dell’orrido, dell’innominabile: dal lupo mannaro di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, a Di bestia in bestia, agli strani esseri che popolano La stiva e l’abisso, fino all’ossessione infantile per il grottesco, per i mostri, per il babau, per Le copertine di Urania, per le orribili lumache “dimidiate con un colpo preciso di vanga” del vecchio Felice – orco pure lui – in Verderame. Aggiungiamoci pure una versione a fumetti (sì, a fumetti!) dei Sepolcri di Foscolo.
Case, cantine, scantinati
Spesso è impossibile dare una risposta a tutte le domande. I libri di Mari ci danno l’illusione che la verità sia lì a un passo, la inseguiamo pagina dopo pagina, ma alla fine – e qui sta il bello – ci sfugge sempre di mano. L’avventura romanzesca che Michelino, il protagonista di Verderame, imbastisce nei confini della sua casa non è altro che una ricerca della verità, un “viaggio dentro la testa” – come non pensare a Syd, autorecluso nel suo scantinato? – di Felice, l’anziano giardiniere e factotum di famiglia. Ma per Michelino la testa è anche una casa, e viceversa: “Ma una casa è come una testa, con le sue ambage le sue oscure circonvoluzioni, le sue ambiguità e le sue ossessioni… Io, quando giravo per stanze e corridoi e mi spostavo da un piano all’altro, avevo davvero l’impressione di muovermi dentro la mia testa […] anche perché la struttura stessa della casa era ormai stata talmente interiorizzata da trasmettersi alla mia mente, modulandola”. Luoghi, case, scantinati, come calchi dell’anima.
Possessione “Syd era bello, gioioso, amato da tutti, riboccante di talento: perché autodistruggersi? […] perché gli era stato ordinato. Le canzoni soliste di Syd sono piene di riferimenti a qualcuno che comanda, qualcuno che lo vede mentre lui lo chiama «da sotto», lui che striscia orrendamente…”. Forse è un essere simile alle “lumache francesi” che infestano le pagine di Verderame, i nemici che risalgono dagli inferi della grande casa di Michelino e si riproducono misteriosamente.
Perfino dietro The Wall ci sarebbe il fantasma di Syd, che manovra Waters che a sua volta manovra Alan Parker. E il cantante Robyn Hitchcock dice che Syd gli sta “appollaiato sulla testa come un avvoltoio […] mi possiede, mi plagia […] scosso dal demone creo, ma cosa creo?”.
Ed è sempre Syd a comparire in sogno a Rick Wright, a dargli indicazioni per realizzare il capolavoro di A great gig in the sky e a inviargli una vocalist sconosciuta, Clare Torry. Che a sua volta, dopo aver registrato i vocalizzi di Great gig, “balbettò qualcosa di indistinto a proposito di un senso di possessione…”.
Barrett, a sua volta, sembra posseduto da un demone: “And I’m wondering who could be writing this song…” canta in Jugband Blues.
Ma c’è anche chi sostiene che Syd fosse perfettamente lucido, e che le sue stranezze fossero solo un modo per farsi cacciare: “Syd Barrett non fu cacciato perché era impazzito: impazzì perché lo stavano cacciando”.
Mari è sempre molto bravo a non precipitare dal filo di certi pericolosi cliché psycho, pulp o splatter – il fascino perverso ma un po’ scontato della follia o, peggio ancora, il crogiolarsi nel romanticismo del disturbo psichiatrico (o, come nel caso di Rosso Floyd, il voyeurismo dei fan[atici]). La sofferenza è sempre reale, carnale, benzodiazepinica, ma trasfigurata, oggettivata, dalla lingua.
Dentro e fuori
“Is there anybody in there? In, o out?”. Dove stanno il dentro e il fuori? Sopra/sotto, inferno/paradiso (So you think you can tell Heaven from Hell…), testa/casa, palco/pubblico (The Wall), stiva/abisso. Come nello scantinato di Syd, tutto succede, prolifera sottoterra (o sott’acqua). Il dentro, il sotto, sono rifugio, protezione. Laggiù.
Linguaggio
Una delle caratteristiche che non può lasciare indifferente il lettore di fronte ad una pagina qualunque di Mari è l’uso del linguaggio: inattuale ma modernissimo, spregiudicato ma arcaicizzante, maniacale perfino nella dizione dialettale (non solo il lombardo, ma anche il romanesco di Li fratelli mia), affilato e logorroico (come in quell’estenuante rimuginio senza neppure un a capo che è Rondini sul filo). Il linguaggio torna a essere piano quando l’intenzione è più scopertamente autobiografica, come nello struggente Euridice aveva un cane. Su tutto dominano la confabulazione e il brulichio verbale, spesso in una vertigine di riferimenti incrociati fra storia, finzione, leggende, puntigliosità bibliografiche, archivistiche, filologiche, in un’estetica del “groviglio” linguistico che ricorda il Carlo Emilio Gadda più barocco: la complessità della lingua non come semplice mezzo per raccontare, ma come rappresentazione totalizzante della complessità del mondo e dell’interiorità (“complessità prestabilita” e non “subita”, una “genetica combinatoria” che “mira a una mappa o catalogo o enciclopedia del possibile […] e […] a collegare tutte le storie in una, nell’intento eroico di liberarsi dal groviglio dei fatti subiti passivamente contrapponendo loro la costruzione d’un “groviglio conoscitivo”, diceva Italo Calvino in proposito). Se nella lunga istruttoria di Rosso Floyd la lingua si mantiene su un registro meno eccentrico, è la struttura a negare ogni linearità: a poco a poco ci accorgiamo che le voci non si susseguono, bensì si affastellano, si accavallano, si stratificano, si contraddicono, altrettante sfaccettature di un unico mistero, un rarissimo “diamante pazzo” che inghiotte la luce come un buco nero (… gli “occhi che sembravano buchi neri”). Saccheggiando ancora Calvino che parla di Gadda, viene da pensare a una “macchina spasmodica”, all’“uso spastico della lingua (e della ragione)”. (A ogni modo, anche qui Mari non riesce a fare a meno di certi preziosismi, come nella numerazione/catalogazione delle testimonianze/capitoli, o del dialetto: Arnold Layne parla come un buontempone romagnolo, e a uno dei due siamesi scappa un padanissimo “ciumbia”). In quest’ottica totalizzante, l’esattezza della lingua e delle descrizioni funge da antidoto all’assurdo (ad esempio, della naja nella Filologia dell’anfibio), oppure per un indurre un vertiginoso parossismo classificatorio, elencatorio e bibliografico (Di bestia in bestia).
Nei libri appena citati, ma non solo, ricorre questo paradossale sdoppiamento, mediato proprio attraverso la complessità del linguaggio: nel medesimo personaggio (o nel narratore stesso) convivono l’ancestrale, il primitivo, e l’acculturato, il filologo, il metodico dissezionatore della lingua e del reale. Caso esemplare è la già citata requisitoria di Rondini sul filo, politicamente scorretta, triviale, e insieme iperbolica e raffinatissima performance letteraria. Torna allora il fantasma di Gadda, e le parole che Mari stesso gli dedica nella raccolta I demoni e la pasta sfoglia potrebbero adattarsi a tante pagine dei suoi libri: “In realtà l’esibita inattualità e il programmatico rancidume di queste pagine, lungi dall’essere una patina gratuitamente sovrapposta, sono una forma di pudore, e ci dicono tutta la vocazione dello scrittore a distanziare la propria materia, tanto più artificiandola quanto più la sentiva cruda e scabrosa”.
A un certo punto dell’istruttoria di Rosso Floyd un testimone introduce il tema del “dibattito infinito sul valore del perfezionismo, visto da alcuni come coronamento del genio e da altri come il frutto di una cattiva coscienza artistica” o, riferendosi alla grandeur dei concerti dei Pink Floyd, “surrogato di un’emozione che la musica sola non riusciva più a dare…”. Moltissime pagine di Mari – forse soprattutto i racconti, piccoli gioielli di perfezione formale e al tempo stesso così intrisi di irrimediabile malinconia – confermano anche che il genio non è solo perfezione, ma soprattutto ricerca della perfezione, e perciò tormento, pena, tarlo. Tentativo di fissare un ricordo, addomesticare – impresa vana – un rimpianto.
My blood red, oh listen
Sangue. Sangue ovunque. Fin dalle pagine di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, il sangue scorre copioso. In quel libro si parla, d’altronde, di lupi mannari. E fin dal titolo ne scorre – meglio, fluisce – parecchio anche in Rosso Floyd. (Vien da chiedersi se Mari, alla fin fine, non abbia ipotizzato che pure Barrett fosse un mannaro).
Alla rinfusa, dalle pagine di Rosso Floyd:
il sangue rosa dei siamesi, Pink Anderson e Floyd Council
il sangue che scoppia nella testa di Stuart Sutcliffe, il “vero quinto Beatle”
il sangue di certe mutandine conservate da Arnold Layne
il sangue di Syd, che sembrava aspettasse solo di uscire dal suo corpo
il sangue blu di Rado “Bob” Klose, il “quinto Pink Floyd”
il sangue a cui il piccolo Roger Barrett affida i suoi ricordi, perché il sangue “ha una memoria formidabile” (“My blood red, oh listen”)
il sangue con cui l’uomo incappucciato, in sogno, riempie i tamburi di Nick Mason
il sangue che colorò di rosa il binario su cui Alistair Grahame appoggiò la testa per farsi decapitare dal regionale delle sei e dieci
il sangue rosso e il sangue rosa che si mescolano al fango, sottoterra
il sangue che soffia nei salici
Infanzia
E non è forse sanguinosa, l’infanzia (come sentenzia il titolo di una raccolta di racconti di Mari pubblicata nel 1997)?
Nel racconto I giornalini, il protagonista, un professore universitario maniacalmente legato ai suoi Cocco Bill, Linus e Nembo Kid, inveisce contro l’“umiliante ricatto della crescita in cambio del tradimento!”, la vita come “corruzione e abiura”: perciò “dovrebbe essere altissimamente morale contrapporre alla sua ruina il movimento contrario del riscatto, del disseppellimento affettuoso”. Anziché disseppellire il passato, Syd ha sotterrato se stesso, rifiutandosi di crescere in nome di “paure, di orrende prurigini, di ambigue conquiste intellettuali”. Come sostiene il Gilmour di Mari, “Syd ha preferito scomparire prima, rimanere puro…”. Secondo altri, invece, “per Syd mettersi a fare la rockstar era un modo per non crescere”. Ma il risultato non cambia.
Mari identifica l’infanzia, l’origine e la fine di tutto, con il sotto (“laggiù”), spesso orribile e “conio” ma rassicurante, perché puro, incontaminato dai tradimenti e dai compromessi della vita adulta, del “risveglio epico” e del “cammino dell’uomo”: “Non c’è stato molt’altro nella vita. No, è quasi tutto laggiù” (così si chiude Laggiù, ultimo racconto di Tu, sanguinosa infanzia). Non sono le stesse parole che Mari mette in bocca a Roger Waters? “È l’inizio che conta, Dave, come nella vita di ognuno… Si decide tutto entro i primi sei-sette anni, dopo è solo questione di aggiornamento…”. Allora, forse, lo scantinato di Syd, tanto angusto da costringere chi vi entrava a chinarsi, non era un luogo così buio e angoscioso. Laggiù, appunto, come un luogo e come un tempo incorrotti. (Non dimentichiamo la possibile sovrapposizione testa-casa che abbiamo ricordato prima, certamente applicabile anche per Syd, autoreclusosi per anni.) Syd pare preferisca accompagnarsi allo gnomo Grimble Gromble, a Lucifer Sam, a Gerald il topo e agli omini di zenzero che popolano The Piper at the Gates of Dawn. E che dire della sua predilezione per Il vento nei salici, un libro per ragazzi? Filastrocche, giochi di parole, “psichedelia alla Lewis Carroll”, “desemantizzare il mondo per dare un senso al mondo…”, “idee splendidamente infantili”, “nenie demenziali”, “rime puerili, prendi una canzone come Bike, c’è tutto Syd lì, la gioia di un bambino per la sua prima bicicletta…”.
Animals
Come i bambini, Syd pare parlasse con gli alberi sulle rive del fiume Cam. Ma “parlava anche con gli animali […] Stava diventando una rockstar ma si capiva che si trovava molto più a suo agio fra gli animali che fra gli umani…”.
E cosa ci fa sulla copertina di Rosso Floyd la mucca di Atom Heart Mother in mezzo alle rotaie? (La foto è di Glen Wexler, autore fra l’altro di The Secret Life of Cows, volume fotografico interamente dedicato a questi pacifici quadrupedi. Wexler, che ha pure lavorato a diverse copertine di album pop e rock, dichiara di essersi ispirato a Hipgnosis, lo studio di grafica e design che produsse alcune cover indimenticabili di Pink Floyd, Genesis, Led Zeppelin, e molti altri). A parte il bovino più famoso del rock, animali ovunque: il maiale di Animals, il cane che ulula (come un vero bluesman) in Pompeii, le Several species of small furry animals… fra cui il misterioso “pitto”, gli uccelli notturni di A Narrow Way, tutto il “gracidare, sibilare, frullare” che imperversa in Ummagumma… per non parlare degli album solisti di Syd, infestati di insetti, creature minuscole, “bestioline”. Ma fermiamoci qui, gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Per tornare a Mari, basti ricordare Di bestia in bestia, le lumache di Verderame, il lupo di Io venìa…, la zoologia immaginifica di La stiva e l’abisso…
Forma
Rosso Floyd conferma l’eccentricità di Mari rispetto alla forma. Diario, monologo, racconto, romanzo d’avventura, perfino fumetto. A parte la primissima (legittima) impressione di trovarsi davanti a una “fanta-fanzine” (ma senza la naiveté di tanta fantascienza e, ancor più, di tante fanzine abborracciate) compilata da un maniaco quanto fantasioso fan pinkfloydiano, in realtà assistiamo a una sorta di documentario televisivo, una faccia di tre quarti dopo l’altra, rivolta a un invisibile interlocutore/presentatore/moderatore, dove il montaggio e la regia consentono agli interpellati di sbarazzarsi di qualunque barriera spazio-temporale (alcuni sono perfino in collegamento “ultramondano”). Ma la lettura sequenziale viene presto sostituita dall’illusione che le voci, come abbiamo visto, si sovrappongano in un allucinante brusio. La ridda di testimonianze, confessioni, lamentazioni, referti, esortazioni non aiuta a sciogliere il mistero di Syd, semmai lo infittisce ancora di più. Ma forse lo scopo di una simile incongruente, paradossale istruttoria non è quello di chiarire, ma di confondere, e perciò affascinare e incuriosire, il lettore.
Visto il modo in cui Mari riesce a sfumare i contorni di personaggi reali in una sensibilità romanzata e, quindi, perfino “più vera”, vale qui quello che l’autore dice, nei Demoni e la pasta sfoglia, a proposito di un altro maestro dell’artigianato letterario più sperimentale, Flann O’Brien, e della sua Pinta di inchiostro irlandese: “[…] i personaggi sono entità estremamente pericolose, e raccontare una storia vuol dire scendere fra loro per diventarne il capo o la vittima. Qualsiasi inchiostro, anche lontano dall’Irlanda, ha i riflessi rugginosi del sangue”.
In mezzo a tanti interventi, si snoda il filo rosso dei racconti resi dai quattro personaggi principali, “superstiti” al naufragio interiore e artistico di Syd: vengono a galla le loro invidie, le tensioni, gli aneddoti. Su tutto spiccano la megalomania di Roger Waters e il suo ossessivo altalenare fra “dentro” e “fuori” (ancora), l’inquietante dipendenza (fino all’identificazione) con Roger/Syd, fra creatività e dittatura, fino al “disgusto per il pubblico” che avrebbe ispirato The Wall e certi eccessi paradossali e claustrofobici, come la Surrogate Band e il muro che durante la tournée nasconde la band al pubblico. (A tal proposito, il tastierista Rick Wright conclude: “Allora, sapete cosa vi dico? Meglio la cantina di Syd”). A volte l’enigma di Barrett viene oscurato dalla rivalità sempre più aperta e dispettosa di Roger e Dave, ma per rivelare ancora una volta la sua presenza (“Il mondo spaccato in due […] Già, rifulgere in solitudine… Peccato per loro che davvero soli non potranno essere mai, perché al loro fianco c’è sempre lui, che li unisce a distanza come un osceno cordone ombelicale, li unisce… oh se li unisce…”).
Poetica
“Tutto è vero, e tutto è falso” dice Waters. “Quando tutto è rosa non si distinguono bene i contorni degli oggetti, quando tutto è fluido le forme evolvono l’una nell’altra e quello che fino a un attimo prima era vero diventa falso, e il falso diventa vero…”. Autobiografia e invenzione si intrecciano fino a confondersi, i contorni di personaggi e accadimenti si confondono, tutto assume la forma del romanzo e del racconto.
E il racconto stesso è pure una maschera, che svela nascondendo: “… ci si può salvare solo nascondendosi, che si tratti di un muro o di una maschera di gomma o di una falsa identità… E però ti dicevano anche che così protetto e nascosto sei destinato a impazzire, ad avere un cervello brulicante di vermi”.
Solo scomparendo Syd ha potuto continuare a vivere, attraverso i suoi compagni, il suo gruppo. Tutti i dischi dei Pink Floyd successivi alla sua “dipartita” (perché non parlare di dischi “postumi”, in fondo?) non fanno che alludere o parlare di lui, o meglio della sua struggente e ingombrante mancanza. “L’arte, dunque, non salva: ma tutto questo può essere detto solo in forma artistica”.
Tornando a Mari via Barrett: “… tutto era incentrato sul tema dell’assenza e del rimpianto”: non è forse questa una dichiarazione (indiretta) poetica ed estetica?
Ancora domande
Syd il pazzo? Syd il fantasma? Syd il “fottuto drogato”? Syd il demone? Syd il mostro, o la bestia? Oppure solo un disgraziato, un povero malato di mente in preda alla confusione e alle voci dentro la sua testa? O invece il custode di segreti innominabili? Un genio schiacciato dallo star system e dalle aspettative dei suoi compagni, oppure il diabolico sacerdote di una religione occulta? Di nuovo, un diamante dalle innumerevoli sfaccettature.
Qual è il segreto che Syd avrebbe consegnato a Roger Waters? Un segreto che racchiuderebbe la formula del successo dei Pink Floyd, ma che Waters sigilla con ostinata reticenza.
A cosa servivano le innumerevoli chitarre (ma non solo) che Barrett acquistava come feticci e che non suonò mai? L’accumulo maniacale di oggetti (e dolciumi!) ricorda i “giornalini” dell’omonimo racconto di Mari, e i giocattoli-feticcio di Chi ha ucciso Liberty Valance? Ma anche i deliri letterari di Rondini sul filo, Di bestia in bestia o La stiva e l’abisso sono assimilabili a un delirio feticistico di ricomprendere e catalogare ogni cosa, ogni oggetto, tramite la parola.
In conclusione, Syd è ovunque, e non è da nessuna parte.
It’s awfully considerate of you to think of me here
And I’m much obliged to you for making it clear
That I’m not here.
(da Jugband Blues)