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HABEAS COMMA… 22

di Adolfo Fattori
L’accoglienza ai migranti, la tolleranza per il diverso, il meticciato fra culture. Come tutte le parole piene di senso, a furia di usarle si sterilizzano e si sfibrano, conservandosi spesso come gusci vuoti, privi di significato. Più vengono agitate come parole d’ordine al servizio dell’etica e dei “valori”, più si vuotano. O modificandosi, ma conservando le stesse connotazioni, slittano fra i significanti della moda, come “etnico”, che si applica solo a tutto ciò che è non-occidentale, e serve a recuperare esattamente lo stesso spettro di sensi – e di oggetti – della nuova tolleranza travestita da impegno. Ed è più nuovo di “esotico”. Come successe dopo il golpe in Cile, ad esempio: l’invasione di ponchos e berrettucci andini: dalle vendite per beneficienza dei padri comboniani (loro si che pagavano di persona, spesso!) alle vetrine delle boutiques di lusso…   
Ma i fenomeni cui si riferiscono rimangono, e servono da altrettante dimostrazioni del fatto che il senso – comune – non riesce a dar conto di una semplice verità: i fenomeni sociali producono effetti inintenzionali, imprevisti. A volte tragedie, a volte farse, a volte, più ironicamente, commedie senza soluzione. Come in Comma 22 (Catch 22, 1961) di Joseph Heller, sardonico romanzo in cui si mette alla berlina la logica della burocrazia militare. Il Comma 22, mai esistito, sarebbe stato una articolazione del regolamento della U.S.Air Force in uso durante la II guerra mondiale: 

Articolo 12, Comma 1
“L'unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia”.

Articolo 12, Comma 22
“Chiunque chieda il congedo dal fronte non è pazzo”.

Una vicenda di cronaca, questa volta vera, che ha per teatro la Gran Bretagna, questa volta ai nostri giorni, fa pensare proprio al famoso Comma. Ne ha dato notizia La Repubblica, il 6 luglio di quest’anno attraverso una corrispondenza da Londra di Enrico Franceschini. 
Due giovani inglesi, ma di etnia Indù, conosciutisi lavorando nello stesso ufficio si innamorano. Fin qui, niente di strano. Succede continuamente. Anzi, meno male che succede ancora! Ma… c’è un grosso “ma”: lei è una bramina, lui un paria. Non possono sposarsi. La tradizione indù lo vieta, assolutamente. E non sono solo le famiglie ad opporsi. Anche i loro datori di lavoro: gli avvocati nel cui studio sono impiegati. E sì, perché si tratta di avvocati. Che presumiamo, operando in Inghilterra, a Londra, seguano e pretendano di far applicare le leggi inglesi. Quelle che discendono, in un modo o nell’altro, dall’Habeas Corpus, il primo timido passo dell’Occidente verso il riconoscimento di uguali diritti e doveri fra tutti gli uomini. In piena modernità.
Ma… Sì, c’è un altro “ma”: i due ragazzi sono anche loro avvocati, e si rivolgono alla legge. Inglese. Rivoltandosi come serpi in seno contro i loro mentori – e datori di lavoro. Potremmo pensare: Ben fatto! Ora le cose si saranno risolte, e i due innamorati potranno convolare a nozze – o convivere, o vivere separati ma continuando ad amarsi e frequentarsi, come preferiscono: le soluzioni che offre il tardo moderno alla vita di coppia sono molte…
E qui c’è il terzo, paradossale, “ma”: l’Equality Act, la legge britannica che punisce le discriminazioni sulla base del sesso, della religione, della razza, non prevede sanzioni per la discriminazione di casta. Perché non prevede le caste. Mentre invece esiste anche quella. Nessuno ci aveva pensato, pur conoscendo bene l’India, una delle “perle” sulla corona dell’imperatrice Victoria. Un buco – imprevedibile – nelle implicazioni dell’Habeas Corpus
Ma i due non si tirano indietro. Intanto si sono sposati e hanno avuto un figlio. Diventando due fantasmi, ostracizzati e disprezzati dai loro simili. Ma non si arrendono ancora: forti del loro sapere di avvocati, si rivolgono ad un collega, esperto in questi casi, e ottengono un’udienza a porte chiuse davanti a una commissione della camera dei Lord, dove raccontano la loro storia. E i Lord, decisamente colti in fallo, modificano – nell’aprile 2010 – l’Equality Act, includendovi una piccola clausola che vieta la discriminazione sulla base delle caste. Quest’autunno il parlamento se ne occuperà, per decidere se vietarla espressamente per legge.
Si dirà: Che c’entra il Comma 22? Beh, c’entra, in termini di pieni e di vuoti: il Comma 22 definisce un “troppo pieno” che produce un paradosso logico: un loop che si richiude su se stesso. Come il tentativo di uno studio legale di maltrattare due colleghi – due avvocati! – che però si rivolgono alla stessa legge che quello stesso studio (presumiamo) dice di voler rispettare e far rispettare. O che almeno gli fornisce il pane quotidiano. 
Altro Comma 22: la pretesa di voler lavorare con la legge, senza volerne rispettare lo spirito profondo – esponendosi così alle ritorsioni della stessa legge. E poi c’è un vuoto, che però presto la legge provvederà a riempire: la mancanza della norma specifica che vieta esplicitamente la discriminazione su base di casta. 

Della serie: “Se vuoi avere uno studio legale in Gran Bretagna puoi applicare la discriminazione di casta” e “Se applichi la discriminazione di casta in Gran Bretagna non puoi avere uno studio legale”. Ma ci sono riflessioni più ampie che si affacciano.
Proviamo a metterle in ordine. Senza l’Habeas Corpus, e le sue implicazioni, che nei secoli si sono man mano esplicitate e allargate, e che implicano l’uguaglianza di tutti gli uomini, dubitiamo parecchio che gli indù tradizionalisti coinvolti nella storia avrebbero potuto: 

1. vivere e lavorare in Inghilterra da uomini liberi; 

2. addirittura accedere ad una professione “liberale” come quella di avvocato; 

3. fruire di tutti i servizi e le opportunità che la società occidentale, pur affannosamente, offre, specie ai professionisti di quella che – ebbene sì – è una casta temutissima, specie nei paesi di cultura anglosassone: quella degli avvocati. Il cinema e la fiction americana insegnano…

Forse, assumere le opportune aperture della democrazia implica metter da parte le importune chiusure della tradizione: va bene i principi che pretendono il rispetto di tradizioni, costumi, abitudini dei popoli “altri”. Ma purché anche costoro rispettino questi principi. È la vecchia storia della botte piena e della moglie ubriaca, in fondo. Sennò si rischia un altro Comma 22:
“Se voglio assicurare la libertà di tutti, devo permettere ad alcuni di opprimere altri.” Consentire l’infibulazione agli appartenenti a quelle culture che la praticano, la lapidazione delle donne violentate ai musulmani che vivono in Europa, e così via: un prezzo troppo alto da pagare alle culture altre in nome del rispetto delle loro culture. O no? Meglio tenere le gioiose “novità” dell’etnico esposte nelle vetrine dei negozi e nei guardaroba dei no logo e magari di qualche radical-chic politicamente corretto, e pretendere che circoli liberamente la vecchia, pomposa, un po’ trombona eguaglianza.
Intanto, visto che non c’è un Tex Willer a difenderne i diritti, lasciamo all’infinita saggezza del Karma occuparsi dei due giovani ribelli. E, speriamo, anche dei loro improvvidi persecutori.