di Gennaro Fucile
L’ora blu è
il momento situato tra la notte e l’alba in cui il mondo si
fa immobile, rendendo possibile ascoltare il silenzio. Ce ne parla Eric
Rohmer, scomparso lo scorso gennaio, nel primo episodio (L'Heure
bleue, appunto) del film 4 Aventures de Reinette et
Mirabelle. La storia è un fragile pretesto, come
spesso accade nei suoi film. Una delle due fanciulle protagoniste,
Reinette, che ha deciso di trascorrere l’estate in un
cascinale di famiglia, invita Mirabelle a trascorrere qualche giorno
con lei. Si sono conosciute accidentalmente, in un viottolo di
campagna, a causa della foratura di una ruota della bicicletta di
Mirabelle e la generosa Reinette le offre ospitalità.
“Non è proprio un'ora, è solo un
minuto. Un po' prima dell'aurora, c'è un minuto di silenzio.
Gli uccelli del giorno non sono ancora svegli e gli uccelli notturni
sono già a dormire. Ed ecco... scende il
silenzio”, così Reinette spiega a Mirabelle
l’ora blu e trascorre una notte all’aperto con lei
attendendola.
L’episodio è singolare, perché
qui Rohmer avverte l’urgenza di afferrare il silenzio
assoluto, proprio lui, il regista che più di ogni altro ha
portato in scena chiacchieroni e chiacchierone di ogni età e
ceto, che ha posto al centro della scena la parola e che ha fatto
dell’affabulazione il motore primo dei suoi racconti. In
genere, nelle storie di Rohmer il vuoto del mondo si dota di senso
riempiendosi di parole, ne L’ora blu, il
mondo acquista pieno senso, si svela svuotandosi delle parole e di
qualsiasi altro suono. Chissà, forse Rohmer aveva in mente
questo passo dai diari di Franz Kafka: “Il silenzio
è un attributo della perfezione”. Oppure gli
risuonava nella mente il ritornello di The Sound Of Silence
di Simon & Garfunkel, o quel silenzio diffuso da John Cage nel
suo 4’33’’.
Un’assenza di suono inseguita anche da Samuel Beckett nella
sua piece più estrema, Breath (ovvero, Respiro),
dove in scena non si ascolta altro che un “piccolo grido
fioco e immediatamente ispirazione”, poi espirazione, poi
ancora grido e un “attimo di vagito”. Le arti,
insomma, ci ricordano che è verso il silenzio che ci
dirigiamo, verso l’assenza, la natura intima
dell’universo. Almeno, così è stato in
particolare nel secondo Novecento, assecondando
l’interpretazione tendenziosa che ne diede Susan Sontag in un
suo saggio, L’estetica del silenzio, di
cui l’episodio di Rohmer fornisce sintesi mirabile. Questo
variegato e taciturno promemoria, però, è sempre
più ignorato, rifiutato, calpestato. Oggi, siamo troppo
indaffarati con le nostre identità fasulle con cui giochiamo
in rete per moltiplicare all’infinito la nostra solitudine.
Siamo interamente dediti alla perversione del risparmio di tempo da
impiegare in attività che ci consentono di risparmiare
tempo, che ci consentono di risparmiare tempo... Questo è
l’inferno, o una buona anteprima. Siamo, inoltre, super
impegnati a consumare merci culturali di infima qualità, a
informarci sull’offerta delle merci culturali, usufruendo di
fonti sempre più dozzinali. Siamo assorbiti dal consumo di
informazioni, dall’acquisto di prodotti di ogni genere, che
non conoscono soste, pause, stagioni, sempre onnipresenti, unici
abitanti, dotati di personalità dispotica, di un pianeta
ridotto ormai a un paesaggio commerciale tendenzialmente senza
soluzione di continuità. Siamo assorbiti dal consumo
universale, dalla produzione di tempo, dalla creazione di
personalità virtuali. Questo mondo che non conosce
più intervalli, assordante, rumoroso, volgare, triviale, si
è trasformato in una suburra che ricopre il pianeta, ma
realmente e non metaforicamente, come la mappa borgesiana che ricopriva
l’intero territorio dell’impero. In questa bolgia
crepitante, che elegge a protagonisti cafoni di ogni taglia, dove si
premiano la prepotenza, la grossolanità,
l’ignoranza e la grettezza, che ci importa del silenzio e
della perfezione? La dimensione esistenziale è straniera in
questo mondo, straniera della peggior specie, perché
clandestina. In altre parole, a chi interessa fornire di senso la
propria vita, a far sì che ogni piccolo gesto quotidiano sia
memorabile perché affidato al prossimo, agli altri che ci
ricorderanno?
La maggioranza di noi sembra trascinarsi in nessun dove
come anime morte, una beata ignoranza priva di candore, solo grossolana
e gretta. Alla nostra infelicità zeppa di desideri, manca il
desiderio di formulare nuovi valori, mentre quelli di una volta
spariscono con la vecchia generazione che li aveva assunti come
principi guida, magari non rispettandoli, tradendoli o trasgredendoli,
ma almeno facendovi riferimento. È sempre più
raro imbattersi in persone del genere, che vivono, o che hanno vissuto,
mosse dall’affetto, dalla gentilezza, dalla bontà,
dall’ospitalità, dalla solidarietà,
dalla comprensione, dal sacrificio, dall’operosità
e dall’amore per il prossimo. Talvolta, il destino ci
favorisce e abbiamo la fortuna di conoscerle, di apprezzarle, dopo un
primo smarrimento, poiché ci appaiono quasi irreali, nella
loro semplice umanità. Non vanno dimenticate. Sono persone
come Concetta Spinella, che ora se ne è andata.
A lei è dedicato questo numero di Quaderni d’Altri Tempi. R.I.P.