di Adolfo Fattori
Un’auto che corre lungo una strada. In montaggio alternato una bellissima Uma Thurman che esce al volante – presumiamo – della stessa auto, che esce dall’acqua, cammina in un bosco che appare incantato, per poi trasferirsi in un ambiente chiuso, forse una fabbrica, un magazzino o un garage. Di nuovo in auto, ne esce e si allontana. Nei vari brevissimi frammenti in cui la vediamo, la sua voce fuori campo ci parla di sé: lei è la purezza, la bellezza, la potenza, la tecnologia. E molte altre cose… Ma allora è l’automobile che ci recita i suoi attributi, o la musa di Quentin Tarantino? Tutte e due, sicuramente.
Un video straordinario, che vale un pezzo di cinema, al di là della realizzazione perfetta, che sembra racchiudere in sé secoli di immaginazione narrativa, in una sintesi magistrale.
È l’ultimo spot pubblicitario per la Giulietta Alfa Romeo, realizzato da Kevin Fitzgerald. Che si chiude con un paio di frasi che non potevano essere più decisive: in sovraimpressione, una citazione da La tempesta di William Shakespeare (ormai forse abusata), Noi siamo della stessa materia di cui son fatti i sogni, mentre la voce fuori campo recita, svelando il mistero della sua identità Io sono Giulietta, e sono fatta della stessa materia di cui son fatti i sogni. D’altra parte, chiamandosi Giulietta perché dell’Alfa Romeo, non poteva non far riferimento all’universo shakespeariano… Ma non finisce qui: per rendere più esplicito l’universo di discorso in cui si svolge questa vicenda di raddoppiamento, un’ultima scritta compare sullo schermo: Senza cuore saremmo solo macchine.
Quasi una risposta, o una glossa, all’interrogativo Siamo davvero uomini, o solo macchine?, che è una delle domande chiave nell’opera di Philip K. Dick e che viene riportata nella sua autobiografia curata da Lawrence Sutin, Divine invasioni (2001). Una delle forme che assume l’interrogativo forse più soverchiante – e irrisolvibile – che gli uomini si pongono da mezzo millennio a questa parte.
Sì, perché, in realtà, la paura di essere solo dei meccanismi animati da chissà quale burattinaio oscuro potremmo considerarla come la forma novecentesca di un terrore più profondo, nato insieme all’uscita degli uomini dal tempo premoderno: che il mondo in cui viviamo sia solo il frutto di un sogno ad occhi aperti. Pensiamoci un attimo: fra il 1594 e il 1596 il drammaturgo inglese scrive Romeo e Giulietta (2001); nel 1611 viene rappresentata per la prima volta La Tempesta (2002); nel 1635 viene pubblicato in Spagna il dramma in versi di Pedro Calderón de la Barca La vita è sogno (1980). Tutti drammi dell’errore e dell’inganno dettati dalle apparenze. Il mondo si sta desacralizzando: la vera e propria fusione fra l’uomo e l’universo che aveva governato il mondo fino ad allora si spezza. Il tempo va fuor di sesto (ancora Shakespeare, l’Amleto (1988), scritto fra il 1600 e il 1602; e Philip Dick, Tempo fuori luogo (2006), scritto nel 1968): fine del tempo mitico, inizio del tempo secolare. Rottura dell’alleanza fra uomo e cosmo. Ma, quindi, dove si colloca il confine fra l’uno e l’altro? Non si sa più. E quindi non si sa più cosa è realtà e cosa è illusione. Se esiste una differenza fra realtà (vita) e illusione (sogno). Noi stessi, siamo della sostanza dei sogni: dei sogni dell’Altro. E forse sogniamo di noi, specchiandoci nei sogni dell’Altro. Milan Kundera declina – anche se in maniera indiretta – molto bene il tema in L’immortalità (2009): “È un’ingenua illusione pensare che la nostra immagine sia solo un’apparenza, dietro la quale è nascosto il nostro io come unica, vera essenza, indipendente dagli occhi del mondo. Gli imagologi, con tutto il loro radicale cinismo, hanno scoperto che è proprio il contrario: il nostro io è una pura apparenza, inafferrabile, indescrivibile, nebulosa, mentre l’unica realtà, fin troppo facilmente afferrabile e descrivibile, è la nostra immagine agli occhi degli altri. E il peggio è che tu non ne sei padrone.” (p. 145, corsivo nostro).
Uma Thurman può essere una delle incarnazioni della Giulietta: una principessa guerriera degna di un mondo incantato; una dama elfica di alto lignaggio, proveniente dal bosco di Lothlórien…
E così rendiamo conto della purezza, della bellezza, della potenza di cui è portatrice la ragazza dello spot. Ma c’è dell’altro: la tecnologia e molto altro. E qui siamo pienamente nella modernità. Una tecnologia del tutto emancipata dal sacro, dalla dimensione ingenua della logica della prima ricerca scientifica. Siamo all’oggi. Solo che le paure di ieri non sono scomparse. Hanno solo cambiato volto e nome. Per un lungo periodo ha fatto paura la macchina. Come d’altra parte emerge dalla frase di Dick. E come emerge da Scacco al tempo (1992), scritto nel 1950, uno dei più bei romanzi di Fritz Leiber, altro scrittore di fantascienza: “… Per spiegare il comportamento umano non c’è bisogno di supporre l’esistenza della consapevolezza. Dopo tutto non possiamo mai entrare nella vita interiore di altri individui. Non possiamo mai dimostrare che una tale vita interiore esista per davvero. Ma non abbiamo bisogno di farlo. Tutte le azioni degli esseri umani possono essere adeguatamente giustificate con l’assunto che gli esseri umani sono meccanismi inconsci.” (pp. 157-158, corsivo nel testo).
E ancora: “L’universo era una macchina. La gente che lo popolava, eccettuati alcuni individui, erano meccanismi senza cervello, congegni a orologeria in carne e ossa. Fintanto che voi facevate i corretti movimenti meccanici, essi sembravano reagire in maniera intelligente. Ma quando voi vi fermavate, quelli continuavano, ignorandovi” (Ibidem, p. 158, corsivo nel testo).
Praticamente, il dubbio ontologico sulla realtà del mondo – e di noi stessi – prende per metonimia un’altra forma, semplicemente secolare: che noi – i nostri affini, coloro che incontriamo per strada, i colleghi di lavoro – possano essere solo robot, e che tutto il nostro universo sia un macchinario, in una riduzione al grado zero delle teorie meccaniciste del passato, della prima modernità. La science fiction ne ha fatto uno dei suoi temi fondamentali, declinati in tutti i modi, fino ad arrivare al suo estremo approdo in film come The Truman Show – che sembra tratto da un romanzo di Philip Dick – e Blade Runner – che è tratto da un romanzo dello stesso Dick. Finiamo inevitabilmente sempre negli stessi luoghi dell’immaginazione. Perché, siccome “il corso delle cose è sinuoso”, come scrisse Maurice Merleau-Ponty, e d’altra parte “… le coincidenze non esistono”, come più di recente ha scritto James G. Ballard, succede che la bellissima e bravissima Uma oltre a lavorare con Tarantino ha anche partecipato a Paycheck, guarda caso, tratto sempre da un racconto di Dick.
A questo punto forse è più facile sciogliere il labirintico groviglio di rimandi, evocazioni e allusioni all’immaginario che lo spot dell’Alfa Romeo produce. Prima di tutto i richiami a quello che possiamo considerare uno dei “miti di fondazione” della casa automobilistica, le nozze – impossibili nella tragedia di Shakespeare – fra Romeo e Giulietta avvenute negli anni Cinquanta, nel pieno del boom economico e dell’esplosione del design italiano, grazie all’industria di Arese, che fanno da scintilla per il vero e proprio corto circuito logico/patico del video: l’identificazione fra l’automobile dell’Alfa – dalla sua nascita associata alla leggerezza, all’eleganza – e l’immagine della guerriera che la Thurman ha interpretato in passato, nei Kill Bill di Tarantino. Dove la brutalità e il cinismo della “Sposa” Black Mamba, la vendicatrice, si trasformano nella bellezza e purezza di una principessa fatata, che più che alla Giulietta di Shakespeare fa pensare al “piccolo popolo” di elfi, fate, coboldi che popolava l’immaginario anglosassone, e che ancora il drammaturgo inglese evoca in Sogno di una notte di mezza estate (1998).
Non senza richiamare, con un rapido accenno nella voce off e nelle immagini centrali, la potenza comunque presente nell’auto e nel suo doppio magico – a ricordare la forza distruttiva di altri personaggi dello stesso immaginario fantastico: le streghe del Macbeth (2004).
E per chiudere, la continuità con l’oggi: le macchine, dalla cui disumanità ci difende soltanto il cuore.
La Giulietta, insomma, riesce nell’intento in cui molti hanno fallito. Ultimi, Roy Batty e i replicanti di Blade Runner.