di Gennaro Fucile
Correva l’anno 2005 quando venne mandato in onda, in Italia, uno spot intitolato
Le tue marche la tua storia, che “datava” l’inizio della Storia, l’unica degna di questo nome, meritevole di essere ricordata, a circa cinquant’anni prima (cfr. https://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero2/spot1.htm).
Il committente Centromarca, l’associazione delle aziende di marca, festeggiò così i propri cinquant’anni, raccontando come sin dagli albori del mondo, ovvero alle origini della società dei consumi in Italia nel dopoguerra, le grandi marche avessero accompagnato ogni attimo della vita di ognuno di noi, segnando passaggi storici e generazionali. Un concentrato di distopia, a ben vedere, motivato e fondato su un solido dato di fatto, perché le marche davvero non ci abbandonano mai, al massimo passano il testimone (o il testimonial?) ad altri brand, un meccanismo a ciclo continuo, come nella siderurgia. Un girotondo a ritmi industriali, propri di un capitalismo industriale di stampo fordista, ma che sono stati ereditati da quella semiurgia, per dirla con Jean Baudrillard, che costituisce il tratto tipico del nostro tempo. È la nostra epoca, che esige massima flessibilità nel mondo del lavoro, a tempo pieno, parziale, precario, nero o disoccupato, mentre richiede estrema rigidità nel mondo dei consumi, nel quale è proibito smettere di consumare, e soprattutto di essere consumatori, ovvero partecipanti sempre più attivi dell’universo culturale che afferisce alla narrazione delle merci, dove queste sono sempre più autoriali e meno oggetto delle narrazioni. Le merci diventate marche ci narrano, assumendosi sempre meno l’onere di pubblicizzarsi. Partecipare come personaggi più umani degli umani appare più un lusso che a tempo perso si prendono, tra una regia, un apparizione cinematografica, l’organizzazione di un concorso o altre attività legate allo spettacolo, alla comunicazione, all’informazione o all’impegno, poiché non è possibile dimenticare il crescente coinvolgimento in prima persona di marche di ogni peso e misura in attività mirate a difendere ambiente e salute e dignità dei suoi abitanti. Ai mezzi classici e alle forme tradizionali di narrazione, quindi, si accompagnano nuove modalità, soluzioni inedite che sostituiscono il vecchio modello di racconto pubblicitario. Il
branded content, ad esempio, una tipologia di racconto di marca ad alto tasso di efficacia, penetrazione e sofisticazione.
Nel linguaggio settoriale del marketing, viene chiamato branded content, oppure branded entertainment, o anche advertainment. Espressioni gergali, le ennesime che la business community ha generato e diffuso all’interno dei propri confini. Il branded content, o comunque lo si voglia chiamare, è un’estensione del concetto di product placement, altra definizione che arriva dagli Usa, patria indiscussa del dizionario universale del marketing. Per farla semplice, si parla di product placement quando un prodotto (di marca) compare funzionalmente all’interno di una sequenza cinematografica o, in genere, di una fiction. Si pensi a James Bond, che spudoratamente, come è nelle corde del personaggio, chiede esplicitamente, a destra e a manca: “Sono Bond, James Bond, mi dia un Vodka-Martini” – shaken, not stirred, naturalmente – salvo poi passare nel recente Quantum of Solace (2008) a bere Coca-Cola Zero. Non c’è da scandalizzarsi, certo, si tratta di una pratica che affonda le sue radici nella nascita stessa del cinema, poiché, in fondo i fratelli Lumière, iniziarono con le riprese del loro stabilimento di produzione. Molto primitivo, è innegabile, ma pur sempre un inizio; del cinema e del product placement. Oggi è una pratica quotidiana. In Italia, ad esempio, c’è il Pastificio Lucio Garofalo che vanta un bel curriculum come comparsa in otto film dal 2006 al 2009, prima di passare addirittura a produrre direttamente dei corti (ben tre, l’ultimo ambientato al museo Madre di Napoli, intitolato Armandino e il Madre, che con la regia di Valeria Golino è stato presentato nella scorsa primavera).
Tecnicamente, il product placement può essere verbale (script placement), come nel caso di Bond, visuale (screen placement), come nel caso di Garofalo, oppure integrato (plot placement) come nel caso di Gran Torino oppure Il diavolo veste Prada, che costituiscono anche esempi estremi, poiché qui la marca viene collocata addirittura nel titolo (in questo caso, si parla, sempre in gergo, di name placement). Il marketing deve, però, continuamente evolversi, obbedendo a logiche darwiniane ferree, e anche il product placement ha generato un proprio erede: il branded content, appunto. Una forma estremamente sofisticata di sponsorizzazione che richiede storie costruite intorno alla presenza costante di un prodotto di marca le cui caratteristiche sono aderenti alla Weltanschauung espressa dai protagonisti della vicenda. Un bell’esemplare del genere è The Hire, serial di otto puntate da dieci minuti ognuna, prodotto dalla BBC (tra il 2001 e il 2002) per essere trasmesso direttamente in rete e legato alla BMW (con Madonna nell’episodio The Star). Più di recente, in Italia, si è visto un perfetto esempio di branded content per un altro mezzo: la televisione. Si tratta del Divano Football Club di Birra Moretti, ideato dall’agenzia Armando Testa. È una cosiddetta sketch comedy in cinque puntate (quattro sketch ciascuna) da 24 minuti e sulle pagine web dedicate a questa sit-com, si legge:
“Pietro, Franco e Gilberto sono amici per la pelle fin da quando, anni addietro, giocavano a pallone nella squadra del loro quartiere. Poi la vita ha fatto il suo corso. Chi si è sposato, chi separato, chi è rimasto single. Ma Pietro non ha voluto rinunciare al clima da spogliatoio che lo aveva accompagnato per tanti anni e soprattutto non ha voluto perdere l’amicizia dei due compagni di squadra. Per questo, col benestare della moglie Rita, si è inventato il Divano Football Club: nel seminterrato di casa sua ha organizzato uno spazio dove vedere le partite di calcio tutti insieme. Potrebbe diluviare, nevicare ma la domenica sera si trovano lì, a casa di Pietro a guardare la partita, seduti sul quel divano che da sempre li accompagna in questo rito sacro”.
Cinque personaggi, dunque, Pietro, Franco e Gilberto, Rita e il Divano Birra Moretti (a losanghe bianche e nere come i palloni tradizionali da calcio). Una marca nella familiarità, nel privato, nei momenti di svago, di intimità; una marca che intreccia legami affettivi insinuandosi tra altre relazioni preesistenti d’amicizia, una marca che si insedia nello spazio eletto a luogo deputato della convivialità, il cuore della casa, il salotto per guardare la partita; una marca, che si aggiorna con continuità, mantenendo il filo rosso del football (il Trofeo calcistico Birra Moretti), ma rivoluzionando la comunicazione, una marca che presidia il tempo del divertimento, delle passioni, delle emozioni; una marca che officia un rito seriale, con modalità altrettanto seriali, che partecipa al sommo divertimento – in fondo infantile nelle sue espressioni – a sua volta sminuzzato in amichevoli, tornei, anticipi, posticipi, manifestazioni una tantum, tornei ufficiali, un proliferare di occasioni di gioco diffuse a tappeto, spettacolo e divertimento “da vivere insieme”, come recita l’inquietante frase, trita e ritrita, che in ogni frangente tirano fuori un po’ tutti i telecronisti sportivi e presentatori televisivi in genere. Inquietante perché sintomo di un passaggio epocale, quello in cui le emozioni, il sale della vita, sono diventate tendenzialmente un’esclusiva dei media. Tornando comodamente sul divano, è possibile osservare una partita di calcio, certo, ma anche un bel riassunto di quelle cinque forme (ubiquità, onnipresenza, assuefazione e dipendenza, auto-replicazione, omni-legittimità ) del manifestarsi autoritario del mercato – il pianeta reale della marca – individuate da Benjamin R. Barber in uno studio che demolisce sistematicamente la facciata felice del capitalismo dei consumi. Il saggio da noi tradotto con il titolo Consumati (Einaudi, 2010) perde un segno denso di contenuto nel titolo originale e che vale la pena di riportare: Con$umed. Ora si ripensi ai tre amici impegnati a guardare la partita, a bere birra, a fare cose normali sul Divano Birra Moretti e si legga questo lungo, necessario passo tratto da Consumati:
“Esistono cinque forme di dominazione del mercato che costituiscono l’essenza della mia tesi in base alla quale la cultura consumistica ha un impatto totalizzante, ma non totalitaristico sulla nostra vita. Sosterrò che il mercato è ubiquitario (è ovunque); che è onnipresente (c’è ‘tutto il tempo’ e aspira a riempire tutto il tempo); che crea dipendenza (attua, cioè, forme proprie di rinforzo); che è autoreplicante (si diffonde in maniera virale) e onnilegittimo (nel senso che mette in atto meccanismi attivi di autorazionalizzazione e autogiustificazione che erodono le basi morali per opporvi resistenza). Tutte insieme, queste cinque caratteristiche conferiscono ai mercati un potere sulla nostra vita e i nostri pensieri, sul nostro corpo e la nostra anima che è simile, ma non esattamente uguale, ad altre forme tradizionali di totalitarismo” (pag. 324).
Barber è implacabile nella pars destruens della sua analisi, che si fonda su una suggestiva e persuadente ipotesi: il capitalismo dei consumi ha soppiantato quello fondato sul lavoro e soprattutto sul risparmio, e all’etica del protestantesimo di weberiana memoria è subentrata un’etica dell’infantilizzazione, autentico motore della società dei consumi. Quello dei consumi è il regno di Peter Pan, il paese che non c’è, quello che si trova prendendo la seconda a destra e dritto fino a mattina. Un mondo dominato dal culto dell’infanzia, abitato da adulti mai cresciuti, fanciulli, ma della peggior specie, prepotenti, egoisti, sfrenati, voraci, ingordi. Qui si impone l’ethos che afferma il facile sul difficile, il semplice sul complesso, il veloce sul lento, un predominio delle logiche infantili su quelle tipiche dell’adulto. Una ricerca dell’essere sempre giovani che attraversa e pervade un po’ tutte le sfere del quotidiano, trovando una magnifica quanto patetica interpretazione negli atteggiamenti, non solo in scena, di certe rockstar e di cui Michael Jackson e la sua villa Neverland è stata la più tragica delle incarnazioni. Logiche beffarde della storia, poiché l’affacciarsi al mondo dei giovani liberò completamente i segni, sdoganò tutto da tutti, diede alla luce, sotto il segno Giovani, la trinità mercato/marche/consumatori (cfr. Se una notte dell'inverno 1968 un viaggiatore in "Quaderni d'Altri Tempi" n. 14), e oggi quei protagonisti sono simulacri condannati a ripetere un copione che è puro segno. Si direbbero scimmiette (anche il quartetto che sconfisse i Beatles in classifica si chiamava così: The Monkees), come scimmiette sono i consumatori secondo Barber: “In Africa, per la cattura delle scimmie viene tuttora utilizzato un metodo diabolicamente semplice che suggerisce paradossi con cui deve confrontarsi la scelta nella nostra era del consumismo globale. A un palo saldamente ancorato nel terreno viene fissata una piccola scatola contenente una grossa noce raggiungibile unicamente attraverso una stretta apertura che consente solo il passaggio della zampa della scimmia tesa nel tentativo di afferrare la noce. La scimmia può inserire la zampa con estrema facilità, ma nel momento in cui chiude la mano a pugno per afferrare la noce, non riesce più a estrarla. Chiunque (tranne la scimmia) capisce immediatamente che tutto ciò che l’animale deve fare per liberarsi è lasciare la presa. Gli ingegnosi cacciatori hanno addirittura scoperto che le loro prede restano intrappolate così per ore, addirittura giorni, perché la scimmia – indotta dal desiderio – non lascerà mai cadere la noce. Morirà prima (come spesso accade).
I consumatori sono le scimmiette del capitalismo: liberi, in teoria di comprare o non comprare, ma con l’ethos infantilistico che accende i loro desideri, una volta caduti nella trappola scoprono di non essere più in grado di uscirne” (pag.78). Intendiamoci, le BMW sono gran belle macchine, la pasta Garofalo è buona come vuole la tradizione di Gragnano e, ad esempio la Birra Moretti Grand Cru è un’ambrata a cui è difficile rinunciare, ma quei sedili, quei posti al cinema, quel divano… meglio essere guardinghi, ci sono trappole in giro.