di Livio Santoro
Ogni libro, questo è
chiaro, ha una sua storia particolare. Ma alcuni libri, più di altri, sono così
impregnati di una serie di dettagli, di risvolti e di incroci da potervi leggere
più storie di quelle che vi sono effettivamente scritte. Fervore di Buenos
Aires, prima concreta raccolta poetica di quello che sarà il più illustre
assente della storia del Nobel per la letteratura, è uno di questi libri. Jorge
Luis Borges, poco più che ventenne, lo redasse nel Millenovecentoventitre,
raccogliendovi molte delle poesie scritte nel biennio precedente. Il libro, pur
condensando l’umore del lavoro di due anni, vide la luce nei pochi giorni
frettolosi che precedettero un nuovo viaggio della famiglia Borges verso
Ginevra, verso il medico degli occhi di papà Jorge Guillermo. Un famoso
aneddoto, raccontato dallo stesso Borges (1998, p. 145-146) vede Alfredo
Bianchi, un amico del poeta, infilare furtivamente diverse copie del libro nelle
tasche dei cappotti appesi all’attaccapanni nell’ingresso della sede della
rivista letteraria Nosotros. Alcuni dei proprietari di quei cappotti
lessero il libro e, facendo il proprio mestiere, lo recensirono dando
ufficialmente avvio alla carriera poetica di Borges in Argentina. “Fu in quel
modo” dice Borges “che mi feci una piccola reputazione come poeta” (ibidem,
p. 146).
Poi, col passare del tempo, a quei cappotti se ne aggiunsero molti altri, in tutto il mondo, ma questa è storia risaputa. Risaputa è anche la storia dei ripudi di Borges, di quella sorta di disprezzo che, negli anni, il poeta di Buenos Aires maturerà nei confronti dei suoi primi lavori, su tutti quel trittico maledetto composto dalle raccolte di saggi intitolate Inquisizioni, L’idioma degli argentini e La misura della mia speranza. Tale rifiuto porterà Borges a dichiarare, a rischio di apparire come la copia sbiadita e incerta di un suo stesso personaggio: quei libri non sono mai esistiti. Diverso destino e diverso travaglio toccherà a Fervore di Buenos Aires, mai ripudiato, tuttavia rivisitato, ritoccato, puntellato e rielaborato a più riprese, fino a farne, forse, un altro libro. I versi di questo testo inquieto e continuo, in un modo o nell’altro, nonostante le revisioni avvenute a distanza di anni, conservano naturalmente la ragione dell’origine del lavoro futuro di Borges, una ragione che appare in un titolo dichiaratamente belligerante.
Nella produzione del primo Borges, due erano infatti i grandi temi sempre affrontati: la giustificazione e la ricognizione delle origini di un posto che si chiama Argentina; il rinnovamento della poesia attraverso lo snellimento dei suoi barocchismi e la riduzione frenetica alla metafora. Forse per questo Fervore di Buenos Aires è stato salvato dalla censura della maturità, perché contiene entrambi i temi e perché li contiene, a differenza delle tre raccolte di saggi, conservando l’affetto e il giudizio delicato (e probabilmente mai severo) che un uomo può avere del suo passato di adolescente. Lo stesso sentimento, è possibile supporre, che ha dato vita nell’anno Millenovecentosettantadue al racconto L’altro (2004, pp. 11-19). Qui un Borges anziano incontra un Borges giovane, ed entrambi sono seduti su una panchina di un parco, ed entrambi guardano verso l’acqua di un fiume (nient’altro che la sempre valida metafora eraclitea del tempo). Il racconto, naturalmente, è la storia di un incontro impossibile, di un confronto senza regole né ragione, di un confronto che annulla il dialogo. “Eravamo troppo diversi e troppo simili” sostiene in conclusione del racconto il Borges anziano “non potevamo ingannarci, e questo rende difficile il dialogo. Ciascuno era la copia caricaturale dell’altro. […] Dare consigli o discutere non serviva a nulla perché il suo [del Borges giovane] inevitabile destino era di diventare quello che sono” (ibidem, pp. 17-18).
Fervore di Buenos Aires, nella sua storia introspettiva, è invece la sintesi reale di quel dialogo inutile che il Borges anziano avrebbe evitato in favore di un destino inevitabile. Forse perché Fervore di Buenos Aires, a leggerlo in confronto agli altri tre libri maledetti, è un testo che si fa forte della pacatezza del verso e che evita l’aggressività della prosa tracotante del saggio, per inneggiare alle ombre e ai cantoni della città dei padri. In quella Buenos Aires del libro, in questo modo, i propositi poetici del giovane ultraista si rispecchiano nella soglia del suburbio e si fanno carico dell’inquietudine sfrontata dei vent’anni risolvendo con la grazia dell’inesperienza le contraddizioni dell’inesperienza stessa: contraddizioni e fervori che, dall’altra parte, imporranno il gran rifiuto per le prose. Fervore di Buenos Aires, dunque, è un libro fatto sostanzialmente d’inquietudine, e Le strade (2010, p. 21), prima delle odi che compongono il libro, è il legittimo manifesto di quest’inquietudine resa nella misura del suburbio:
Le strade di Buenos Aires
sono dentro di me, adesso.
Non le strade voraci,
ma le strade indolenti del quartiere,
[…]
e quelle più in periferia
deserte di alberi pietrosi
dove austere casette,
soffocate da immortali distanze,
osano appena perdesi nel vasto panorama
di cielo e di pianura.
Quanto Borges aveva appreso in Spagna, nella sua adolescenza, durante i primi viaggi in Europa, prima di tornare in Argentina per poi dover di nuovo ripartire, emerge (seppur mitigato dagl’interventi successivi del poeta) già dalle prime pagine di Fervore. Le spire frenetiche dell’ultraismo si trovano allora a dover raccontare di una città che è periferia, e di una periferia che necessariamente è ancora pampa. Le strade, in quel tragitto che pare imperscrutabile eppure obbligato, portano la pampa nella città attraverso i suoi polverosi sobborghi. La Buenos Aires di Fervore, in questo modo, è luogo di soglia, marginale (ovvero costituito essenzialmente dal concetto di margine) tanto nella costruzione di una nazione, quanto nella ridefinizione di uno stile poetico; ovvero, ancora una volta, in entrambi i propositi del primo Borges. La ritrita metafora dell’osmosi sarebbe perfetta per descrivere questa città di figli di gauchos in cui la pampa sopravvive. “L’ho vista” racconta altrove Borges “nei territori governati dal suo nome e nella nostra provincia e in fondo al sobborgo.” (J. L. Borges, 2009, p. 51). La pampa, quel “vasto panorama di cielo e di pianura”, è un paesaggio che si appropria dell’essenza dell’infinito ed entra, come nei versi di Dintorni (J.L. Borges, 2010, p. 85) fin dentro i patios – anche definiti “cielo tra le sponde” (ibidem, p. 37) – che tanto raccontano della (forse scomoda) parentela andalusa che lega Borges e l’Argentina all’oltreoceano:
I patios così certi e antichi
I patios che hanno fondamenta
nella terra e nel cielo.
[…]
Gli oscuri crocevia trafitti
da quattro lontananze senza fine
in sobborghi di silenzio.
La stessa pampa e gli stessi patios che resteranno per sempre nelle elegie di Borges, come in quella ode al tango (2002, p. 85), per citarne solo una, che Borges scriverà nel Millenovecentocinquantotto, in cui sopravvivono i temi del sobborgo e della misura paesaggistica di una città che si appoggia cautamente sulla pianura, continuando a perseguire il suo primo compito ancestrale di bordo interminabile dell’infinito in cui quell’inquietudine del giovane sopravvive nella maturità attraverso la violenza necessaria di una musica, di un incontro di pugnali:
Vi sono cose antiche in quegli accordi,
la pergola intravista, l’altro patio.
(Dietro i suoi muri sospettosi il sud
ha in serbo una chitarra e un pugnale).