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letture /
di Livio Santoro
Inchiostro sangue
quante trame ha un racconto poliziesco?

Se è vero che tutta la letteratura russa è fuoriuscita dal cappotto di Nikolaj Gogol’, forse si può dire, senza rischiare di esagerare, che tutta la letteratura argentina (e gran parte di quella latinoamericana) è fuoriuscita dalla biblioteca di Jorge Luis Borges. E per rilanciare sul parallelismo, e aggiungere un altro pizzico di fascino, si potrebbe affermare che quanto si è detto è valido non solo per chi è vissuto dopo Borges, ma anche per chi è vissuto prima. E questo, ovviamente, è un gioco a cui molti dei personaggi dello stesso Borges, come per esempio quel famoso Menard che ha scritto il Chisciotte (Borges, 1956, pp. 36-47), hanno giocato. Si prenda il caso di Paul Groussac, che alcuni decenni prima di Borges fu direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, che alcuni decenni prima di Borges fece ricorso a Arthur Schopenhauer per raccontare una delle sue storie, che alcuni decenni prima di Borges propose variazioni sul tema del giallo, che alcuni decenni prima di Borges morì cieco… ma che da Borges, evidentemente, assunse il tratto del racconto. In un recente volume pubblicato per l’editore Arcoiris, dal titolo Inchiostro Sangue. Antologia di racconti e saggi del Rio de la Plata, è proprio un racconto di Groussac, datato 1897 ad aprire le danze.
Questo racconto, nemmeno troppo contorto negli incroci della storia, ha una peculiarità di particolare interesse: la protagonista, ovvero colei che si trova a dover inventare una trama fasulla per coprire le vere dinamiche di un delitto, non è nel delitto in sé che ha interesse, non è nell’utile che si potrebbe trarre da un assassinio che poggia la sua attenzione. Per lei, per Elena, la verità è un’altra: la necessità di dover costruire una trama (che a sua volta sta per l’autore all’interno della trama del racconto) non per il delitto in sé, ma per la sua stessa vita, per la sua propria biografia, per qualcosa che con il delitto non ha nulla a che fare.
Elena è un’orfana, la madre adottiva conserva un tesoro di quattrocentomila pesos. La ragazza, invece, conserva un amore furtivo, vicino dall’esser rivelato. Cipriano, l’amante invisibile, raggiunge la giovane Elena dalla finestra della sua stanza, nascondendosi agli sguardi della madre adottiva della ragazza. Durante una serata di amore rubato, i due amanti sentono delle urla provenire dalla stanza dell’anziana madre di Elena: un uomo ha tagliato la gola della donna e sta tentando di trafugare quanto può. Cipriano, lanciandosi contro il ladro riesce a ferirlo mortalmente, ma egli stesso viene trafitto ad una spalla da una coltellata. Fuggito all’esterno, il ragazzo non farà più ritorno nella casa, ché con la sua presenza non potrebbe che mettere in grossa difficoltà la sua amante sfortunata. La versione raccontata da Elena alla polizia è differente dai fatti: non ha visto nulla, ha solo sentito grida atroci, uno sparo e rumori di una colluttazione, con lei non c’era nessuno. Le investigazioni portano a decidere che due ladri, una volta entrati in casa della madre d’Elena, e dopo aver ucciso quest’ultima, abbiano interrotto la loro complicità per combattersi avidamente l’un l’altro. Il pudore e l’accento di Elena convincono chi l’ha interrogata della giustezza della sua versione. Le altre vicende del racconto, che pur succedono, e che parlano della chiave per accedere alla ricca eredità lasciata dalla donna morta, sono tuttavia marginali, non hanno nulla a che vedere con l’ossatura principale del racconto.
Da chi ha tratto ispirazione Elena?
Anche se apparentemente quanto si sta per sostenere potrebbe sembrare irragionevole, tra gli innumerevoli personaggi di Borges ce n’è uno che, più degli altri, si muove sugli stessi binari dell’Elena di Groussac. Paradossalmente (o forse proprio per questo) quello di cui si parla è un personaggio che abita uno dei racconti dalle note meno fantastiche e meno oniriche della produzione borgesiana: pronunciamo il nome di Emma Zunz (Borges, 1952, pp. 57-64).
La storia di Emma Zunz è grossomodo questa: una giovane donna lavora in una fabbrica in cui si minacciano scioperi e interruzioni di servizio, l’uomo a capo della fabbrica, Loewenthal, è anche un vecchio socio del padre di Emma: proprio per delle sue impunite manovre losche, il padre di Emma pagò l’onta del carcere. Emma, una volta morto suo padre, decide di uccidere Loewenthal per una legittima vendetta. La mattina prima dell’assassinio Emma si finge prostituta, giace con un marinaio senza utilizzare precauzioni, e si reca in fabbrica ripetendo nel pensiero il copione di quello che sarebbe successo dopo. In fabbrica, chiesta udienza a Loewenthal con la scusa di rivelare i nomi di chi fomenta in fabbrica le voci di sciopero, Emma l’uccide con una pistola che già sapeva essere nascosta nell’ufficio. La deposizione davanti al giudice vede Emma denunciare uno stupro da parte del padrone ed una sua strenua difesa con un’arma che tutti sapevano essere custodita nell’ufficio di Loewenthal.
Ecco, Emma ha costruito la sua trama, l’ha resa naturale, incontestabile. Borges, nella frase di chiusura di questo racconto, concentra il precipitato di tutto quello che è stato e che sarà (o al limite che dovrebbe essere) nella letteratura gialla e poliziesca: “La storia era incredibile, effettivamente, ma s’impose a tutti, perché sostanzialmente era vera. Vero era l’accento di Emma Zunz, vero il pudore, vero l’odio. Vero anche l’oltraggio che aveva sofferto; erano false solo le circostanze, l’ora e uno o due nomi propri” (ibidem, p. 64).
In storie come quella di Emma e come quella di Elena, la verità è un fatto soggettivo, e proprio qui sta l’incontro delle due protagoniste dei due racconti. L’artificio narrativo che sta alla base di questa concessione di verità alla storia di Emma ed a quella di Elena (entrambi gli autori giustificano e rivendicano la legittimità delle storie inventate dalle protagoniste dei due racconti) è l’identificazione del colpevole con la vittima. Il volto delle protagoniste ha, in entrambi i casi, due profili: chi inventa la storia per nascondere un necessario delitto, e chi è legittimato a farlo perché, in fin dei conti, buono.
In questo modo procedono le due storie, proponendo una sottile (in senso fisico) continuità. Questa continuità, che lega gli stessi autori dei racconti, rende Borges ed Elena, Groussac ed Emma personaggi di un’altra storia, una storia che il poliziesco è perfettamente in grado di raccontare.
Tra gli inviti che il poliziesco (ed il fantastico) propone ai propri lettori c’è quello di provare a tracciare delle linee inseguendo puntini, come nei giochi di enigmistica, per scovare quale disegno si cela lì dietro. Ed il lettore incantato, quello ammirato dalle volute della trama gialla, contraccambia questo invito e sa che i puntini non hanno numeri da seguire in sequenza, e che quindi devono essere uniti secondo un’altra logica: quella della trama, appunto. E così è il lettore stesso a diventare un don Isidro Parodi (Borges e Bioy Casares, 1942). Ma dire questo non è aggiungere nulla di nuovo.
Tuttavia capita, talvolta, che la trama stessa continui al di fuori degli angusti limiti che imprigionano i puntini, al di fuori della cornice, e che magari il discorso della narrazione rilanci su un’altra trama, su un gioco a puntate per rimanere in un lessico enigmistico. Quello che succede con Borges e Groussac, per esempio, è proprio questo: una storia che si è scritta da sola, che ha cercato gli stessi accenti nel tempo, a decenni di distanza, e che ha avuto la bizzarria di scegliersi lo stesso scenario, lo stesso palcoscenico, o almeno degli stessi pezzi in parte della scenografia. In questo modo gli stessi scrittori sono personaggi di un’altra trama, più ampia e nebulosa, che può abbracciare indistintamente un genere letterario, una nazione, oppure a livello micro un semplice, piccolo oggetto. Borges, lo sappiamo bene, ha avuto questo proposito in maniera costante in tutta la sua produzione, arrivando a proporsi come personaggio – o come diversi personaggi (Borges, 1975, pp. 11-19; 1960, pp. 92-95) – all’interno delle sue stesse storie. Proprio per questo egli ha anticipato Groussac, nonostante il tempo che evidentemente suggerirebbe di pensare il contrario. Borges ha anticipato Groussac perché ha intuito che la trama di ogni racconto, ma anche quella di ogni poesia o romanzo, appartiene ad una trama più ampia, che sta sopra tutte le altre, che sta sopra gli orizzonti parziali di una storia. Lì, in quella trama sovrastante, il tempo è una cosa che può anche non essere letta come facciamo noi altri: per utilizzare la figura più famosa ed allo stesso tempo più efficace di Borges, questa trama di cui si parla è come un Aleph (1952, pp. 150-170), in cui la contemporaneità (e con essa il passato ed il futuro) non è che un accidente che ha da dire solo allo sguardo dell’uomo. E l’uomo, l’abbiamo già detto, di questa trama non è che un personaggio.

 


 

:: letture ::

— Borges J. L., El Aleph, 1952, trad. it. L’Aleph, Feltrinelli, Milano, 2005.

— Borges J. L., Ficciones, 1956, trad. it. Finzioni, Einaudi, Torino, 1995.

— Borges J. L., El Hacedor, 1960, trad. it. L’Artefice, Adelphi, Milano, 1999.

— Borges J. L., El libro de arena, 1975, trad. it. Il libro di sabbia, Adelphi, Milano, 2004.

— Borges J. L. e Bioy Casares A., Seis problemas para don Isidro Parodi, 1942, trad it. Sei problemi per don Isidro Parodi, Editori Riuniti, Roma, 1996.