hiunque frequenti una libreria, sia essa un grande store o
una piccola bottega dal sapore antico, ha notato da tempo la grande
quantità di testi, racconti, saghe dedicate ai vampiri.
Quasi che l’orrore e il sovrannaturale si siano
semanticamente circoscritti in quest’unica figura, scegliendo
volontariamente di rinunciare alla loro polisemia. L’effetto
di insieme di scaffali colmi di storie e titoli apparentemente simili
colpisce il lettore come lo studioso, portando entrambi a credere
esista un'unica via, o strada percorsa, nella narrativa di genere.
Ad
un primo sguardo, quindi, ciò che risalta è
soprattutto la pervasività, l’omogeneizzazione, la
corrente di mainstream culturale che ha definito questo nuovo prodotto
di largo consumo.
Tuttavia, sarebbe un grave errore
non cogliere, anche al’interno di questo nuovo panorama, le
differenze e le peculiarità esistenti. Anche se divenuto
personaggio da blockbuster, il vampiro non è sempre uguale a
se stesso, anzi. Rispetto al passato, assistiamo oggi ad una maggiore
caratterizzazione dei diversi vampiri, che spesso divergono per
caratteristiche fisiche, comportamentali, o per i poteri da loro
assunti. Una figura ascrivibile, dagli inizi del XX secolo, al concetto
di ornamento della massa (Kracauer, 1977), un riflesso ordinato e
prescrittivo del terrore piuttosto che una figura realmente ragionata e
pensata nella sua individualità, è divenuta con
il tempo qualcosa di molto diverso, di “pesante”
dal punto di vista psicologico e sociale.
Non vi è
più Dracula e la sua corte, ma una galassia di esseri spesso
isolati, in antitesi, alle volte scontenti della loro condizione di
dannati. La luce del sole può non essere un problema, come
le croci e l’argento. Ogni volta, in ogni storia, tutto o
quasi è diverso. L’unico elemento fisso
è il sangue, fonte di vita e nutrimento. Per il resto, come
accade sempre più spesso nella narrazione contemporanea,
tutto è possibile senza alcuna consequenzialità o
coerenza logica. Esiste perciò una netta frattura fra il
vampiro moderno, spesso appiattito sui canoni estetici e
comportamentali del personaggio di Bram Stoker (1897), e quello tardo
moderno, umanizzato e molto diverso nelle sue rappresentazioni. Avviene
una sorta di compromesso, una sorta di ibridizzazione fra i due mondi
descritti da Aldous Huxley (1932): alla proliferazione e gemmazione
continua di nuovi personaggi, secondo una metodologia assai simile al
metodo Bokanovsky, non corrisponde infatti una loro
omogeneità, un loro essere eternamente uguali a se stessi,
ma anzi la loro diversificazione più estrema.
La
scrittrice australiana Anne Rice (1976) ha di fatto aperto la strada
all’idea di una società vampirica che si sviluppa
parallelamente alla nostra, e nella quale esistono etnie, ruoli e
lavori differenti. Nel momento stesso in cui esiste
un’organizzazione sociale, una struttura, viene
definitivamente a perdersi l’idea dell’isolamento,
del mostro nascosto nel buio delle campagne o in isolati manieri sui
Carpazi.
Scrive Anne Rice:
Nuovamente si levarono le voci degli altri, voci affettate da ricevimento, che si raccontavano le uccisioni della serata, descrivevano i loro incontri senza l'ombra di emozione, si abbandonavano a incitamenti alla crudeltà che erompevano come lampi di luce bianca: qualcuno aveva avvicinato un vampiro alto e magro in un angolo e gli rimproverava la sua inutile visione romantica della vita mortale, la sua mancanza di coraggio, il suo rifiuto a fare la cosa più divertente quando ne aveva l'occasione. Lui era semplice, si stringeva nelle spalle, non trovava facilmente le parole, cadeva per lunghi periodi in uno stordito silenzio, come se, ubriaco di sangue, preferisse ritirarsi nella bara che rimanere lì. E invece rimaneva, trattenuto dall'insistenza di questo gruppo mostruoso che aveva fatto dell'immortalità un club di conformisti.(Rice, 204)
I vampiri hanno proprie regole di comportamento, ruoli,
caratteri e poteri differenti. Devono necessariamente cercare nel
gruppo, nella creazione di società parallele, lo stimolo
alla sopravvivenza e al mantenimento della propria specie. Un contesto
che si impone sul singolo non solo quindi attraverso un proprio
meccanismo di socializzazione, ma anche tramite rappresentazioni
sociali collettive, ritualità, pratiche quotidiane. I giochi
per computer e i larp, live action role playing,
hanno da tempo assimilato l’idea del “mondo
parallelo”. Ecco così la nascita della Camarilla,
la società segreta dei vampiri che si tutela e protegge con
ferree regole di comportamento per i suoi aderenti. Ne esiste una sede
anche in Italia, della quale fanno parte i giocatori di ruolo che
vogliono provare il brivido di sentirsi, per qualche ora, un essere
immortale.
La vampirizzazione non si esplica però
solamente nella creazione di un sistema parallelo e alternativo a
quello dei semplici esseri umani, ma anche come un contagio, un morbo,
o un elemento catartico di riscoperta di una purezza originale. In uno
dei libri più interessanti sul vampirismo, Vampirus
(2005) di Scott Westerfeld, assistiamo esattamente a questo
cambio di prospettiva. Così come in natura esistono
parassiti, virus e altri organismi che attaccano organismi
più grandi perseguendo la loro missione di sopravvivenza e
riproduzione, così anche la mutazione in vampiri non
è che un tentativo estremo del genere umano di sopravvivere
a nuovi nemici, creature mostruose che devono essere combattute da
individui dotati di forza e capacità sensoriali fuori dal
comune. La trasformazione, il cambiamento, assume così una
valenza biologica di protezione della specie, di darwinismo applicato
al mondo dei succhiasangue. E anche in questo caso assistiamo allo
sviluppo di strutture di controllo, di organizzazioni segrete, di una
polizia privata.
Afferma Cal Thompson, il
protagonista del romanzo di Westerfeld:
D’accordo, facciamo chiarezza riguardo ad alcuni miti sui vampiri. Prima di tutto, non mi vedrete usare molto la parola con la v. Al Night Watch, preferiamo il termine “parassita-positivo”, o “pip”, per brevità. La cosa principale da ricordare è che non si tratta di magia. Niente volo. Gli umani non hanno le ossa cave o le ali: sotto questo aspetto, la malattia non può cambiarci. Non ci trasforma neppure in pipistrelli o in topi. È impossibile trasformarsi in qualcosa di estremamente più piccolo: dove andrebbe a finire la materia in eccesso? […] I parassita-positivi si riflettono negli specchi. Voglio dire, siate realisti: come fa lo specchio a sapere cosa c’è dentro il pip? Però la leggenda ha in effetti un fondo di verità. Man mano che il parassita prende il controllo della situazione, i pip iniziano a disprezzare la vista della propria immagine riflessa. Rompono tutti gli specchi. (Westerfeld, 23-24)
Nel film The Addiction (1994) di Abel
Ferrara i vampiri sono semplicemente dei drogati, che hanno una
dipendenza cronica alla quale non possono sottrarsi. Non hanno il
fascino della vita eterna, ma provocano sensazioni opposte quali il
disprezzo e l’ostracismo sociale. È la nemesi
totale del mito letterario e cinematografico dei primi anni del
Novecento, la trasformazione del positivo, dell’ambito, in
qualcosa da rifuggere e rigettare. Non è più
necessario entrare silenziosamente nelle camere da letto di pudibonde
fanciulle o vagare per le strade alla ricerca di sangue fresco: esso
può essere assunto anche tramite una siringa, tramite un
mezzo di contagio tanto letale quanto comune e massificato.
Varney,
il conte romantico dell’omonimo feuilleton,
che si uccide nel Vesuvio non potendo coronare il suo amore impossibile
per la bella Flora Bannerworths, è ormai un ricordo che si
perde nei volti spenti e malati di Kathleen Conklin e dei suoi simili,
che si trascinano per le vie deserte delle città a caccia
non dell’amore, o di una parvenza di esso, ma della propria
dose di emoglobina.
Oggi tutto, o quasi, sembra quindi essere
permesso a chi scrive di vampiri. La creatura seducente ma malvagia,
interpretata magistralmente da Bela Lugosi nel film di Tod Browning nel
1931, non è che un vago ricordo. Il vampiro può
essere tanto cattivo quanto buono, predatore o vittima, dominatore o
schiavo. Può usare gli altri o essere usato, vivere in
ricchezza o in assoluta indigenza, cercare di sfruttare le sue doti o
esserne sopraffatto. Esattamente come un uomo, come un qualsiasi essere
umano. Non a caso Edward, il protagonista maschile del best seller Twilight
(2005) di Stephanie Meyer, è un adolescente alle prese con i
primi amori e spaventato dalle conseguenze del contatto fisico con la
sua ragazza.
Divenendo un metagenere, che assimila e include
in sé caratteri, topoi e stili di
narrazione differenti, la letteratura sui vampiri ha di fatto
sostituito molta della narrativa, “alta” e
“bassa”, di questi ultimi anni. Occupando spazi e
conquistando lettori non tradizionalmente interessati
all’horror e al sovrannaturale. Le storie d’amore,
il giallo, la dissertazione scientifica. Il morso del vampiro si
estende e contagia ambiti letterari diversi. Con il rischio da un lato
di saturare il mercato di prodotti e di figure non sempre originali e
creative, e dall’altro di creare una sorta di disorientamento
nell’immaginario collettivo e nella percezione del nosferatu.
Se il vampiro, come sottolineato da Giorgio Galli e Leopoldina
Fortunato (1997) va al mercato, diviene prodotto prima che opera,
cliché prima che personaggio, si assume pienamente quel
disvalore dell’industria culturale osteggiato dai
francofortesi, che è la distinzione fittizia di regole e
prodotti in realtà assimilabili e riconducibili ad
un’unica volontà e finalità.
Definire
nella propria mente canoni universali per descrivere un vampiro, a meno
di non rifarsi al classico Dracula, diviene così
un’operazione quasi impossibile. La complessità,
l’umanizzazione, la conoscenza delle diverse anime di questa
figura ha portato ad una sua esplosione e parcellizzazione
così totale da garantire un interesse di massa in un mercato
sempre più dominato da logiche di long tail (Anderson,
2004); tuttavia, ha anche velato, sfocato in modo irreparabile i
confini e i limiti del vampiro. Che oggi, come la nebbia in cui poteva
trasformarsi il personaggio di Bram Stoker, può apparire
ovunque, ma non essere realmente percepito come tale.
Anne
Rice ce ne dà una traccia:
La grande avventura della nostra vita. Che cosa significa morire quando si può vivere fino alla fine del mondo? E che cos'è la fine del mondo, se non un modo di dire, perché chi sa anche soltanto cos'è il mondo stesso? Ormai ho già vissuto due secoli e ho visto le illusioni dell'uno completamente distrutte dall'altro, sono stato eternamente giovane ed eternamente vecchio, senza possedere illusioni, vivendo attimo per attimo come un orologio d'argento che batte nel vuoto: il quadrante dipinto, le lancette delicatamente intagliate, che nessuno guarda, e che non guardano nessuno, illuminate da una luce che non era luce, come la luce alla quale Dio creò il mondo prima di aver creato la luce. Tic-tac, tic-tac, tic-tac, la precisione dell'orologio, in una stanza vasta come l'universo.
:: letture ::
— Anderson C., The Long Tail, in “Wired Magazine”, ottobre 2006, Condé Nast, New York.
— Galli G., Fortunato L. (a cura di), Il Vampiro al mercato, Franco Angeli, Milano, 1997.
— Huxley A., Brand New World, 1932, trad. it. Il mondo nuovo, Mondadori, Milano, 1991.
— Kracauer S., Das Ornament der Masse, 1977, trad. it. La massa come ornamento, Prismi, Napoli, 1982.
— Meyer S., Twilight, 2005, trad. it. Twilight, Fazi, Roma, 2006.
— Pilo G., Fusco S., (a cura di), Storie di vampiri, Newton Compton, Roma, 2005.
— Preskett Prest T., Rymer J.M., (1847), Varney
the Vampire, Feast of Blood,
trad. it. Varney
il vampiro, Gargoyle, Roma, 2010.
— Rice A., Interview with the vampire, 1976, trad. it. Intervista con il vampiro, Tea, Milano, 2005.
— Stoker B., (1897), Dracula, trad. it. Dracula, Mondadori, Milano, 1979.
— Teti V., La melanconia del vampiro, Manifestolibri, Roma, 2007.
— Westerfeld S., Peeps, 2005, trad. it. Vampirus, Fazi, Roma, 2008.
:: visioni ::
— Browning T., Dracula, 1931, trad. it. Dracula, 1931, Universal, 2004.
— Ferrara A., The Addiction, 1994, trad. it The Addiction, Vampiri a New York, 1995, 01 Distribution, 1995.