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SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA, LÀ DOVE NESSUN UOMO È MAI GIUNTO PRIMA
di 
Giovanni De Notaris

frontiere.jpgNegli anni Sessanta del secolo scorso negli Stati Uniti cominciò a diffondersi il termine “nuova frontiera”. Cosa significava? Quale poteva essere per un paese già così all’avanguardia sui tempi il nuovo obiettivo da raggiungere? In realtà, la “Nuova Frontiera” fu uno slogan lanciato da John Fitzgerald Kennedy durante il discorso di accettazione della nomination alla presidenza degli Stati Uniti, il 15 luglio del 1960. 
“…Noi ci troviamo oggi alle soglie di una Nuova Frontiera, la frontiera degli anni Sessanta. La Nuova Frontiera di cui parlo non consiste in una serie di promesse, consiste in una serie di impegni…non possiamo fare a meno di tentare” (Dallek R., 2004, pag. 311). L'espressione si riferiva alla politica riformatrice che l'Amministrazione Kennedy intraprese sia in politica estera sia all’interno, a favore dei poveri e delle minoranze. Ma forse possiamo intenderlo anche in forma diversa. L’impero americano in continua espansione, e impegnato come al solito in qualche guerra di difesa o conquista, poteva ancora permettersi di andare oltre? Certo che sì! Prima però di dare una risposta a queste domande, sembra opportuno cominciare col descrivere l’evoluzione che la parola frontiera ha avuto, e ancora ha, nella vita americana. Non è inopportuno partire da quello che fa quasi da mito di fondazione per gli americani, da quei Padri pellegrini, che in netto contrasto con la dispotica madrepatria decisero di lasciare tutta la loro vita alle spalle (alcuni avevano anche delle buone posizioni nella società inglese) per gettarsi in un’avventura che li avrebbe portati verso nuove frontiere al di là dell’oceano. L’America è quindi sempre stata alla ricerca di una nuova frontiera? Si direbbe proprio di sì. Quando infatti i padri fondatori giunsero sulle coste del Nuovo Mondo erano ben determinati ad affrontare asperità di ogni genere, pur di poter affermare la loro libertà, e come in seguito si dirà, quella di tutti gli uomini liberi. 
Non vale la pena raccontare la già fin troppo nota storia del “tea party” di Boston, della dichiarazione di indipendenza e della guerra contro la madrepatria. Gli uomini che si trovarono a combatterla riuscirono ad affermare prima che se stessi, la validità dei diritti dell’uomo. Non vi era riuscita la vecchia Europa, che avrebbe potuto farlo già da molto tempo, ci sarebbe riuscita una banda di scalmanati ma credenti uomini inglesi. Per loro la frontiera era quindi questo “strano, nuovo mondo” ricco di vegetazione, di materie prime, di cibo, e soprattutto di speranza. Questa prima frontiera  essi la costruirono col sangue; da un lato combatterono le truppe inglesi, dall’altro i feroci indiani (ovvero i nativi americani) che confinavano con gli allora poco estesi territori della giovane confederazione. Insomma i nuovi stati, che poi saranno uniti, nacquero nel sangue. 
La violenza e la forza saranno una costante nell’espansione territoriale americana.
Sconfitta la ex-madrepatria, i giovani americani poterono dedicarsi con più serenità ad espandere i loro confini sia con acquisti di territori, sia con guerre. Ma perché vi era questa necessità così fisiologica di espandersi? Il desiderio di espansione era legato alla vecchia società europea, che imprigionava gli uomini e le donne in vincoli di ogni genere, e li sottoponeva a regole ferree che avevano però come unica finalità quella di servire lo Stato assolutista. Quindi un’impossibilità a sviluppare nuove teorie o nuove idee senza l’approvazione della tanto odiata aristocrazia. Insomma i giovani americani cercavano un’affermazione dei diritti dell’uomo e questo si traduceva sul campo pratico anche in un espansione territoriale che rendeva l’individuo autore delle proprie conquiste, e più cosciente di se stesso. Questo ideale di libertà assoluta e priva di ogni restrizione si affermò maggiormente nell’Ottocento, che è il vero “secolo americano”, a differenza del Novecento per cui è stata coniata e si è affermata questa definizione. È nell’Ottocento che si sviluppa l’ideale dell’impero americano, così come lo conosciamo oggi. Ma se vogliamo descriverlo meglio dobbiamo fare riferimento ai diversi media che lo hanno reso famoso. Tralasciamo i classici della prima letteratura americana, come L’ultimo dei Mohicani (Cooper J. F., 1826), La lettera scarlatta (Hawthorne N., 1850), Moby Dick (Melville H., 1851), che raccontano la visione del mondo dei primi colonizzatori ed esprimono i nuclei tematici fondamentali su cui si costruiranno gli immaginari successivi, e cominciamo con i fumetti, in particolare con Zagor “lo spirito con la scure”. Questo personaggio è importante ai nostri fini perché ci permette di comprendere con più facilità lo spirito del primo Ottocento. Guido Nolitta (pseudonimo di Sergio Bonelli), autore del fumetto, con estrema precisione storica ci narra attraverso suggestive vignette, la società americana di quegli anni, caratterizzata dalla scoperta di nuove terre all’interno di quelli che oggi conosciamo come Stati Uniti. Notiamo quindi una società alle prese innanzitutto con il disboscamento di alcune aree, in particolare settentrionali al confine col Canada, non solo per allargare lo spazio a propria disposizione e di conseguenza impiantarvi nuovi villaggi, ma anche per utilizzare il notevole contributo che la natura tramite la vegetazione forniva. Gli alberi servivano infatti per costruire le case ma anche, cosa più importante, per costruire i battelli con i quali i primi esploratori, gli uomini d’affari, i trappers, risalivano i fiumi per fini chiaramente diversi. È nell’Ottocento quindi che comincia in maniera più precisa la mappatura topografica degli sconosciuti e meravigliosi territori americani. Tale fu questa necessità che si esplicò pure nella pittura. Nolitta ci racconta anche i primi screzi con le tribù indiane, Huron e Algonchini ad esempio, ancora in parte sconosciute, ma già piuttosto violente, contro le quali sarebbero cominciate delle vere e proprie operazioni militari solo dopo la seconda metà del secolo. Quindi la seconda frontiera americana fu rappresentata più che altro dalla conoscenza approfondita dell’immenso territorio vergine che Dio, o chi per lui, aveva messo a disposizione. Lasciamo però Zagor, per rivolgerci a un altro medium che ci permette questa volta di parlare della terza frontiera americana, quella più famosa: il Far West. Lo viviamo tramite il cinema ovviamente, che più di tutti ha contribuito fin dai primi del Novecento a diffondere nel mondo il mito della Frontiera americana. A parere di chi scrive i film che meglio hanno rappresentato lo stile di vita, ma anche il territorio di fine Ottocento, sono quelli interpretati, ma anche diretti, da Clint Eastwood. Senza nulla togliere al grande John Wayne, o a Sergio Leone, la cinematografia del “texano dagli occhi di ghiaccio” ha un sapore di vero, di rude e tragico, che rispecchia più onestamente lo spirito del West. Eastwood infatti nei suoi film dà molto spazio alla definizione territoriale delle scene più che ai contenuti, e ci descrive bene ciò che rende davvero epica una banale scena di sfida tra due contendenti: gli sguardi, ma questo ci interessa meno, e il background, che nei suoi film diventa protagonista. Citiamo quelli paesaggisticamente più suggestivi come Impiccalo più in alto (Post T., 1968), Il texano dagli occhi di ghiaccio (Eastwood C., 1976) e Il cavaliere pallido (Eastwood C., 1985). Cosa si nota nei paesaggi del Far West narrati da Eastwood? Prima di tutto la vita quotidiana, fatta innanzitutto di fattorie, di bestiame, di saloon (dove ci scappava quasi sempre il morto), di cercatori d’oro, di chiese sperdute nelle praterie, tanto care al generale Custer. Così comprendiamo infatti come la semplice vita del West, fosse in realtà dura, cruda e crudele. Gli uomini si ammazzavano per un nonnulla, vigeva la legge del più forte e il più debole soccombeva. È proprio questo lo spirito della Frontiera (o delle frontiere, passate e future) americana. Da sempre il popolo si confrontava con sfide sempre maggiori in un territorio completamente ostile, armati fondamentalmente solo della profonda fede in se stessi e nella giustezza della missione civilizzatrice americana. Questi due ideali però avranno in futuro anche aspetti negativi. Tanto forte comunque fu la forza propulsiva dell’immaginario western che anche Arthur Conan Doyle rese partecipi in alcune avventure del suo detective di Baker Street personaggi che vivevano negli Stati Uniti, descrivendo quella società in una maniera talmente precisa che ancora stupisce. Ma tra gli scrittori non possiamo certo tralasciare il fondamentale apporto dato alla letteratura western da Elmore Leonard, che ha quel sapore di autenticità che oggi si fatica a trovare. Terminata però l’epopea del Far West quale altra frontiera poteva impegnare il virtuoso popolo americano? Le guerre di espansione coloniale. Quando ormai nulla vi era più da conquistare sul proprio territorio gli americani compresero quali prospettive economiche avrebbe comportato l’espansione in altri territori esterni alla madrepatria. Lo spirito imperialista e mercantilista esigeva che la giovane repubblica, al massimo della sua potenza, cominciasse a crearsi uno spazio vitale su cui dominare incontrastata. Da fine Ottocento con la guerra contro la Spagna per la conquista di Cuba, all’espansione in America centrale e meridionale, alla conquista dell’Oceano Pacifico, gli Stati Uniti finalmente si mostrarono in tutta la loro potenza al mondo intero. Importante sotto questo aspetto fu la figura di Theodore Roosevelt, che segnò effettivamente il passaggio da un secolo all’altro. E questo accadeva già prima delle due guerre mondiali che secondo alcuni avrebbero imposto la potenza americana al mondo intero. In realtà l’America si era già imposta nel secolo precedente, almeno nel suo emisfero, ma i contemporanei non se ne erano accorti, presi com’erano dall’esaltazione dell’ormai stanca Europa.
Il Novecento fu quindi il secolo durante il quale gli Stati Uniti si palesarono al mondo intero. Ma quale fu la quinta frontiera americana? E qui veniamo a noi e rispondiamo alle domande con cui abbiamo aperto il nostro discorso. Lo spazio, il cosmo, già indagato dagli egizi e da Galileo Galilei, si mostrava per gli uomini ancora irraggiungibile, lontano, inconquistabile. Certo, tentativi di esplorazione erano stati accennati dai nazisti, poi dai sovietici, ma fu grazie alla folgorante personalità di John F. Kennedy che ci fu una vera spinta propulsiva alla colonizzazione del cosmo. La storia della prima bandiera a essere piantata sulla Luna la conosciamo tutti. Qualcuno ha messo in dubbio l’autenticità dello sbarco (Kaysing B., 1997), ma questo non importa, l’America ancora una volta aveva superato se stessa e ci aveva donato un’altra appassionante frontiera tutta ancora da scoprire. Tanto suggestiva fu questa nuova avventura da permettere al cinema (di nuovo) di ipotizzare la ricerca di “strani, nuovi mondi, per arrivare laggiù dove nessun uomo è mai giunto prima”; questa era infatti la frase che ci accompagnava nella presentazione di ogni nuovo episodio della serie TV Star Trek. Dopo lo sfortunato Kennedy però, il programma spaziale sembrò scemare. Altri erano i problemi che impegnavano la repubblica delle cinquanta stelle, la guerra in Vietnam, ad esempio. Fu, dopo, negli anni Ottanta, con “il grande comunicatore” Ronald Reagan che l’idea della conquista dello spazio si fece sentire con più forza. Ma perché? Di nuovo per le motivazioni imperialiste, e cioè, anche l’esplorazione spaziale venne intesa come utile al concetto espansivo di spazio vitale degli americani. L’America doveva affermarsi anche tra gli astri, innanzitutto per difendere se stessa. Ancora però era presente quella forza culturale propulsiva. Lo stesso principio fu poi ripreso dall’Amministrazione Bush jr, dove lo spirito di scoperta, soprattutto dopo la tragica fine dello shuttle Columbia, fu definitivamente affossato a favore della decisa militarizzazione dello spazio. 
Da una decina d’anni la NASA sta studiando un nuovo sbarco: quello su Marte. E non dimentichiamo di certo il SETI Institute (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) che dal 1984 cerca segnali di vita aliena  con i suoi potenti radar. Questa potrebbe essere la prossima frontiera americana; sempre che lo Zio Sam ci sia ancora. 

 


 

:: letture ::

Cooper J. F., The Last Of The Mohicans, 1826, L’ultimo dei Mohicani, Garzanti, Milano, 2003.

Dallek R., JFK – An unfinished life: John F. Kennedy, 1917-1963, 2003, JFK. John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta, Mondadori, Milano, 2004. 

Hawthorne N., The Scarlet letter, 1850, La lettera scarlatta, Rizzoli, Milano, 2007

Kaysing B., We never went to the Moon: America’s Thirty Billion Dollar Swindle, 1981, Non siamo mai andati sulla Luna, Cult Media Net, Roma, 1997.

Melville H. Moby Dick, 1851, Moby Dick, Mondadori, Milano, 2004.


:: visioni ::

AA.VV., Zagor, Serie formato a striscia, ristampa anastatica, Editoriale Mercury, San Giovanni in Persicelo, Bo.

AA.VV., Zagor, Collana Zenith Gigante IIª serie, in corso di pubblicazione, Editoriale Mercury, San Giovanni in Persicelo, Bo.

Eastwood C., The Outlaw - Josey Wales, Usa, 1976, Il texano dagli occhi di ghiaccio, Warner Home Video, 2007.

Eastwood C., Pale Rider, Usa, 1985, Il cavaliere pallido, Warner Home Video, 2008.

Post T., Hang 'Em High, Usa, 1968, Impiccalo più in alto, MGM/UA Home Video, 2006.

Roddenberry G., Star Trek, Usa, 1966-1969. Star Trek. La serie classica. Stagione uno –due- tre, Paramount Home Entertainment, 2004.