Prima stazione delle esplorazioni fuori del mondo, la Luna è stata sin
dall’antichità un tappa obbligata dei viaggi narrativi, partendo dai
fantasiosi racconti di Luciano di Samosata, fino a Cyrano de Bergerac.
Un luogo magico, della natura dei miti e delle leggende, almeno fino a
Jules Verne e all’atmosfera positivista: con lui il nostro satellite si
trasforma in un corpo celeste come tanti, profano e concreto, che prima
o poi l’uomo conquisterà. Questa annessione della Luna ai territori terrestri diventa poi, nelle visioni della science fiction fra
gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso, un dato scontato in un
futuro ormai prevedibile, forzando giusto un po’ la mano rispetto alle
previsioni degli scienziati e dei tecnocrati. Fino a tutti gli anni
Sessanta, fino al giorno dell’allunaggio. Fino alla sua totale desacralizzazione. In
effetti, quando il 20 luglio del 1969 l’equipaggio dell’Apollo 11
sbarcò finalmente sul suolo lunare, non fece che completare
provvisoriamente un discorso rimasto solo sospeso. Un discorso di cui
il prologo era già stato scritto nel momento in cui la sonda sovietica
Lunik 3 nell’ottobre 1959 aveva circumnavigato il satellite della
Terra, e aveva svelato i “misteri” dell’altra faccia della Luna –
quella da sempre rimasta ignota agli uomini. Lunik 3 prosaicamente
aveva stabilito che misteri non ce n’erano: all’obiettivo delle
fotocamere russe (presumibilmente delle Zenith), si disvelò lo stesso
paesaggio brullo e desolato, uniforme e prevedibile, dell’emisfero cui
gli uomini – e i lupi, le streghe, gli uccelli notturni – si
rivolgevano già da millenni. Una
prima incrinatura alla solidità di uno dei più
intangibili simboli dell’immaginario, ancestrale, archetipico,
eterno. La
banalità dell’aspetto della faccia “segreta” della Luna fu un primo
colpo di maglio all’immaginario e alle fantasie di tutti coloro che
guardavano al cosmo come ad una porta dell’immaginazione che, una volta
aperta, avrebbe rivelato meraviglie straordinarie. In continuità con
l’immaginario del sacro, del soprannaturale, dell’irrazionale – e di
quello scientifico, razionale, positivo. E ci riportò – tutti – con i piedi per Terra… Una
duplicità, comunque – quella dell’osservazione dal satellite da lontano
e della percezione del suolo lunare attraverso gli scarponi delle tute
(un cui cascame, per inciso, darà il nome negli anni Settanta ai “moon
boot”, i brutti stivali doposci per le “settimane bianche” del turismo
arrangiato post boom economico) che replica la natura ontologicamente
binaria della nostra conoscenza della Luna. Una faccia nota, visibile
ad occhio nudo, una faccia misteriosa, visibile solo con
l’immaginazione. La certezza dettata dal sapere scientifico, ma per i
più per sentito dire, della natura materiale del satellite, le credenze connesse al sapere sacrale, soprannaturale, della sostanza mitica della Luna. Questa
duplicità è intimamente inerente alla percezione che abbiamo del nostro
satellite, da sempre, un “… astro allo stesso tempo propizio e
nefasto.” (Durand, pag. 290) Una duplicità che ne spiega la natura
ineffabile, spiazzante, irriducibile. Un luogo – cosmico e
dell’immaginario – che esemplifica perfettamente il nostro modo di
costruire la realtà, il mondo, i significati. Un simbolo, un “segno
senza referente”, in fondo, come avrebbe detto Jean Baudrillard (1976). Siamo
poi così sicuri della sua esistenza? E del fatto che l’uomo vi sia
sbarcato? E che le foto del Lunik 3 siano vere, e non fotomontaggi? Il
disincanto di oggi sul ruolo dei media, sulle modalità del loro
funzionamento, i fondati sospetti sulle loro capacità di costruire “artificialmente”
il reale potrebbero legittimare gli eventuali dubbi. Il disincanto nei
confronti delle imprese spaziali potrebbe voler bilanciare il
“disincanto del mondo” di cui scriveva Max Weber (1920-1921). Ma poi,
ha senso domandarsi se la “conquista” della Luna è frutto di un
inganno? O piuttosto è più produttivo porsi una domanda “meta”: il
sorgere e il circolare di dubbi simili non nasconde qualcosa di più
profondo? Una pulsione analoga – per difetto, piuttosto che per eccesso
– a quella che fa giurare ogni tanto a qualcuno di aver riconosciuto
Elvis Presley per strada? In tutti e due i casi, siamo nel mondo del
mito: in tutti e due i casi, perché si conservi. Incrociandolo
casualmente lungo una qualsiasi strada americana, il Re;
negandone l’avvenuta conquista, la Luna. Solo così si nutrono i due
miti: Elvis, scomparso, deve riapparire; la Luna, violata, deve
ritrovare la sua intangibilità. Vogliamo credere che Presley
sia ancora vivo. E che la Luna non sia una pietra morta che rotola
nello spazio: solo così sarebbe ancora viva nei luoghi
dell’immaginazione, spazi ben più profondi e antichi di quelli scanditi
dai telescopi e dai radiofari. E
cinema e letteratura si sono fatti portavoce più volte di questa
pulsione. A volte ironicamente, altre volte in tono serio. Come Joe R. Lansdale, ad esempio, che in Bubba Ho-Tep (2003)
prende allegramente in giro la leggenda americana che vuole Elvis
ancora vivo collocandolo, moribondo, disperato e vittima di una
imbarazzante infezione, in un gerontocomio, dove si risveglia una
mummia egiziana, quella dello stregone Bubba Ho-Tep che minaccia il
mondo di distruzione – e per giunta, più prosaicamente, vorrebbe
sodomizzare il vecchio re del rock ‘n roll. In Capricorn One (1978),
la pellicola di Peter Hyams, invece, la cornice è decisamente
drammatica. Nel film si ipotizza che la prima spedizione organizzata
dalla NASA su Marte all’ultimo momento debba essere annullata per un
guasto, e che venga semplicemente simulata, in apparenza per non
deludere le aspettative del mondo intero, in realtà per non perdere
finanziamenti, potere, credibilità. È vero che la storia messa in scena
non tratta della Luna ma del “Pianeta rosso”, ma il senso è chiaro: una
declinazione della “teoria del complotto” dei potenti della Terra, dei
media, delle agenzie governative contro l’opinione pubblica. O almeno
tale è la cornice prevalente per inquadrare questa categoria di dubbi
su alcuni eventi. Una delle leggende metropolitane più tenaci dei
nostri tempi. Ma se, oltre all’adesione a questa spiegazione,
senz’altro legittima, in profondità ci fosse dell’altro? Gli effetti
della spinta ad un “reincanto del mondo”, prodotta dall’impossibilità
di rinunciare del tutto alla dimensione del sacro? Una decelerazione,
un freno, nei desideri profondi, nelle rappresentazioni sociali,
nell’immaginario, ai processi di modernizzazione e secolarizzazione?
Perché lo sbarco sulla Luna ne è sicuramente uno degli esiti, forse il
più significativo, a pensarci bene. Almeno per quanto riguarda il
percorso della modernizzazione. In fondo, l’insieme di processi
innescati dalle scoperte geografiche dell’età classica, dall’espansione
delle merci e poi dalla “rivoluzione dei prezzi” del Seicento,
dall’incremento della popolazione e della mobilità sociale e
geografica, dai progressi nella ricerca scientifica e tecnologica, e
che nei secoli XVIII e XIX hanno investito Europa e Nord America in
termini di industrializzazione, sviluppo delle dimensioni
metropolitane, evoluzione delle tecnologie del trasporto e della
comunicazione, ha avuto prima di tutto come asse portante l’idea di
progresso, di miglioramento in vista del futuro, di controllo della e
sulla natura, di costruzione di “un mondo a misura d’uomo” (Hughes). Di
espansione illimitata, nel tempo e nello spazio, in termini sia
materiali sia simbolici (Abruzzese, pag. 353). Mutamenti così
profondi non potevano infatti realizzarsi senza che vi fossero
contemporaneamente, dialetticamente intrecciati con essi, rivolgimenti
altrettanto poderosi nella sfera simbolica, per dare senso al
cambiamento di prospettive – dall’ancoraggio al passato della
tradizione alla spinta al futuro del progresso – connesso al mutamento
sociale: economico, giuridico, demografico. Il mondo umano
definitivamente transita dalla dimensione della comunità a quella della società (Tönnies).
E si secolarizza. Una rivoluzione – davvero copernicana: è superfluo
sottolineare che senza Niccolò Copernico non ci sarebbe stata
esplorazione dello spazio – del modo di pensare l’essere-nel-mondo, che
metteva in discussione l’intero sistema di credenze su cui le società
tradizionali si reggevano. E anche se può sembrare paradossale, lo
scossone più violento, iniziale, agli universi simbolici della
tradizione lo diede la “Riforma” di Martin Lutero, con il suo rigore
religioso. L’etica protestante, in particolare nella versione di
Giovanni Calvino, sostegno dello spirito capitalistico, con l’accento
che pone sulla responsabilità individuale, finisce per essere uno degli
stimoli sotterranei della secolarizzazione (Weber, 1922). Il processo
per cui il sacro, il soprannaturale recedono dagli universi simbolici e
dalle visioni del mondo, portando via con sé la religione, il magico,
l’irrazionale. Il mondo della modernità è un mondo osservabile,
esplorabile, profano, le cui leggi naturali sono conoscibili attraverso
il calcolo, la logica, il metodo della scienza, gli strumenti messi a
disposizione dalla tecnologia. E quindi può essere esplorato, mappato e
governato interamente. E così, infatti, è stato. Solo che a un
certo punto, una volta che la modernità lo ha esplorato e conquistato
tutto, non c’è stato più spazio. Il cosmo diventa la nuova posta della
scoperta e della conquista. A cominciare dalla Luna, non più luogo del
soprannaturale e dello spirito, ma corpo celeste come tutti gli altri. Tanto
gli uomini avevano trovato altri territori per soddisfare il proprio
bisogno di immaginazione. E anche le tecnologie giuste. A cominciare
dal cinema, creatore e esploratore insieme dei nuovi territori
dell’immaginario, finalmente collettivo. Anzi, a pensarci bene, la
Luna e il film partecipano della stessa natura: possiamo guardare, ma
non toccare, né tanto meno calcarne i paesaggi e i territori. Come
nei sogni: reali e non reali, contemporaneamente (Albano, pag. 14). Con
una differenza sostanziale, naturalmente: sappiamo che alle spalle del
cinema c’è una realtà materiale, che viene costruita artificialmente,
ma che sullo schermo cinematografico passano immagini prive di
profondità, di spessore, di materialità, immagini virtuali. Della Luna
sappiamo che, anche se non possiamo toccarla, esiste davvero, lì nello
spazio, a 300.000 chilometri dal nostro punto di osservazione, e che è
un globo, come la terra, con una sua gravità, una sua composizione
chimica, una sua consistenza. Ma lo sappiamo per sentito dire.
Nessuno di noi c’è mai stato. Il nostro è un atto di fede – laico, se
vogliamo, ma di fede. Ma questo è vero per molte delle porzioni di
realtà che conosciamo. Perché le veniamo a conoscere attraverso i
media: la televisione, la stampa, internet. E gli assegniamo senza
pensarci neanche un forte statuto di verità. La nostra è una realtà
sempre più mediata dai mezzi di comunicazione. E questo è vero
anche per la Luna. Anzi, a voler essere conseguenti, dobbiamo
riconoscere che lo sbarco sul nostro satellite ha ratificato
l’unificazione del nostro globo dal punto di vista dei media. La
diretta dell’evento fu seguita in tutto il mondo, con emozione e
sgomento, quasi fosse un nuovo millennio, unendo sincreticamente, per
una volta, sfera del razionale e sfera del sacro – anzi, sembrò aprire
una nuova era, quasi a definire una apocalisse, una fine del tempo (Thompson).
E sigillò il trionfo della modernizzazione – della potenza del
progresso tecnologico – e della secolarizzazione – dell’ineluttabilità
della verità scientifica e del rigore del calcolo razionale. E poteva
succedere solo se l’avvenimento avesse riguardato un corpo celeste altro
dalla Terra. La fine della tradizione, del sacro, del passato. Della
Storia, da un certo punto di vista: da quel momento in poi si entrava
nel futuro dalla porta principale, quella delle stelle. Un
avvenimento paradigmatico, nella terminologia di Daniel Dayan ed Elihu
Katz (pagg. 31-32), che incorpora le tre tipologie di fatti
(“competizioni”, “conquiste”, “incoronazioni”) che meritano la
definizione di “evento mediale”, fatti cioè che vedono la confluenza
degli interessi e dell’attenzione di tre attori: gli organizzatori, i
broadcaster, il pubblico. Nel caso dello sbarco sul nostro satellite,
se ne realizzano in sequenza tutte e tre le versioni. La competizione:
la rivalità tra Usa e Urss nella conquista del cosmo; la conquista: lo
sbarco degli americani sulla Luna; l’incoronazione: il loro ritorno
trionfale. E l’avventura dell’equipaggio dell’Apollo 11 viene
fissata per sempre nella storia del mondo. O almeno così apparve
allora, e ancora per un po’. Perché, a pensarci bene, oggi il lustro di
quell’impresa appare piuttosto appannato. Un fatto normale, del
passato, forse addirittura un passo più lungo della gamba. Tant’è vero
che poi non c’è stato un vero seguito. L’uomo è andato sulla Luna, ma
poi non ci si è stabilito. Non è successo quello che la narrativa di
Jules Verne e poi degli scrittori e dei lettori di fantascienza e le
previsioni di tanti scienziati e visionari, come Camille Flammarion, o
Konstantin Tsiolkowski avevano sperato. La conquista del cosmo segna il
passo. Ma è poi vero che sulla Luna ci siamo arrivati? O è un
altro film, un altro racconto dei media? Insomma, quella notte del
luglio 1969 poteva diventare la data del mito di fondazione di una
nuova era, di quella che in seguito avremmo battezzato tarda modernità,
età postindustriale, virtualità, e che era stata anticipata di un anno
da quel visionario di Stanley Kubrick con 2001 Odissea nello spazio,
mentre agli adolescenti si dedicavano volumetti di divulgazione
scientifica che ripercorrevano la storia dell’esplorazione spaziale e
ne anticipavano gli sviluppi (Lannutti). Addirittura qualche anno
prima, nel 1965, una giovane Oriana Fallaci aveva pubblicato un libro
di interviste ad astronauti e tecnici della NASA. Forse una delle sue
cose migliori (Fallaci). Le condizioni c’erano: la conquista di un
corpo celeste, il trionfo del binomio scienza/tecnologia, l’impulso
allo sviluppo di una serie di tecnologie che di lì a qualche anno
avrebbero modificato in profondità la nostra vita quotidiana: i sistemi
di navigazione satellitare per automobili e telefoni cellulari, le reti
di distribuzione dell'energia, i sistemi bancari, ma anche il turismo,
l'agricoltura, la protezione civile, giusto per fare qualche esempio. Qual
è oggi, invece, per coloro che allora non erano ancora nati, per
i figli di quello che nel 1969 doveva apparire come il Futuro,
il Duemila, per cui magari si prevedeva una vita nello spazio, lo
statuto di quell’avvenimento, ormai così lontano nel tempo? E
noi, che allora vi abbiamo assistito per quanto possibile dal vivo, da
ragazzini, da adolescenti, da adulti nutriti a progresso e sviluppo,
ricorderemo, rivivremo quest’anno le emozioni di allora, durante le
prevedibili celebrazioni? Le emozioni evocate da una conquista epocale,
da una vittoria della razionalità e della scienza? Forse preferiremo
guardarvi come a un sogno rievocato, a un ricordo sbiadito come la
grana delle pellicole d’epoca – quelle, ormai sgranate, che rivedremo
scorrere sugli schermi della televisione – documenti del passato, di un
tempo ormai lontano. Forse di quei tempi ricorderemo di più Easy Rider di Dennis Hopper, o Abbey Road dei Beatles, In A Silent Way di Miles Davis e Ummagumma dei
Pink Floyd, o quello che da noi fu chiamato “autunno caldo”. Qualcuno
più sottile ricorderà che in quell’anno nacque Arpanet, diretto
progenitore di Internet. Un avvenimento, quindi, lo sbarco lunare,
effimero, destinato agli archivi dell’immaginazione scientifica e
dell’arroganza tecnologica. E la Luna, reincantata, tornerà ad essere un luogo contemporaneamente Heimlich e Unheimlich, dell’immaginario e del mito, insieme “… Artemide, Selene ed Ecate” (Durand, ibidem),
un oggetto dalla natura ibrida, immateriale e pietrosa nello stesso
tempo, evanescente ed eterna, presente e irraggiungibile, il primo
simbolo della seduzione, specchio e abisso della nostra condizione,
altera, arcana, silente. Anch’essa, come noi, della sostanza dei sogni.
:: letture ::
Abruzzese A., Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003.
Albano L., La caverna dei giganti, Pratiche, Parma, 1992.
Baudrillard J., L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris, 1976, trad.it. Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979.
Dayan D. Katz, E., Media Events The Live Broadcasting of History, Harvard University Press, Cambridge, USA, 1992, trad. it. Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta; Baskerville, Bologna, 1993.
Durand G., Les structures antropologiques de l’Imaginaire, Presses Universitaires de France, 1963, trad. it. Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari, 1972.
Fallaci O., Se il sole muore, 1965, Rizzoli, Milano, 2000.
Lansdale J. R., Bubba Ho-Tep, 2003, trad. it. Addictions, Città di Castello, 2005.
Lannutti G., La conquista dello spazio, La Nuova Italia, Firenze, 1968.
Thompson D., The End of Time. Faith and Fear in the Shadow of the Millennium, 1996, trad. it. La fine del tempo Attese e paure al compiersi del millennio, Neri Pozza, Vicenza, 1997.
Tönnies F., Gemeinschaft und Gesellschaft, 1887, trad. it. Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1979.
Weber M., Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, J.C.B. Mohr, 1920-21, Tübingen, trad. it. Sociologia delle religioni, UTET, Torino, 2008.
Weber M., Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, I. C. B. Mohr, Tübingen, 1922, trad. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1970. :: ascolti ::
Davis M., In A Silent Way, Columbia Records, 1969, Sony, 2002.
Pink Floyd, Ummagumma, Emi, 1969, Emi, 1994.
The Beatles, Abbey Road, Emi, 1969, Emi, 1990. :: visioni ::
Hopper D., Easy Rider, 1969, Sony Pictures Home Entertainment, 2006.
Hyams P., Capricorn One, 1978, Mondo Home Entertainment, 2003.
Kubrik S., 2001, A Space Odissey, 2001, Odissea nello spazio, 1968, Warner Home Video, 2004. |