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AAA... Apocalisse cercasi
di Giorgio Signori

apocalisse.jpgNella storia delle grandi narrazioni esiste un protagonista ricorrente, particolarmente forte nell’esercitare una potente fascinazione nei confronti dell’essere umano. È un protagonista assai versatile, estremamente multiforme nelle sue poliedriche configurazioni, e tuttavia riconoscibilissimo. Le sue tracce tutt’altro che effimere attraversano trasversalmente ogni tempo e ogni luogo di produzione narrativa – da quella escatologica e religiosa a quella storico-documentaria – non risparmia il giornalismo, e trova, infine, nel fantastico e nella fantascienza uno dei suoi terreni più fecondi ove assicurare la propria fertile presenza. Questo protagonista è la Fine del Mondo. 
È innegabile che l’uomo abbia da sempre assecondato la necessità di individuare la Fine, una fine assoluta, inappellabile, che sfugga al controllo del singolo ma anche a quello della società. Caratteristiche principi della fine del mondo sono la consapevolezza e l’inevitabilità. Il primo punto allude all’auto-evidenza del processo stesso che viene messo in atto e che porta alla conclusione definitiva della vita: non esiste una vera fine del mondo se essa in qualche modo non viene prevista, annunciata, dedotta, profetizzata, in definitiva comunicata. L’inevitabilità è invece caratteristica genetica, connaturale e strutturale di ogni processo di definitiva e purificatoria distruzione della Terra e/o del genere umano. Con finalità e ipotesi differenti, l’inevitabilità è funzionale alla creazione di una fine del mondo credibile, in alcuni casi didascalica, efficace nel processo di ricognizione da parte della società, perché la vera ipotesi di un sommo e pirotecnico finale non può che prevedere un’ineluttabilità di fondo, l’impotenza dell’uomo e della scienza nel contrastare ciò che deve apparire, per essere ragionevolmente catartico, come il prodotto inarrestabile della colpa dell’uomo.
Una breve ricognizione delle più popolari “messe in racconto” della fine del mondo, che si tratti di narrazione religiosa, profetica, storica o dichiaratamente finzionale, può confermare questa breve premessa che guarda da un lato alla psicologia sociale, dall’altro al ruolo dei media e alle grandi narrazioni mitologiche come corpus ad exemplum delle paure, delle credenze, del costrutto sociale in cui esse si sviluppano. Se è vero, infatti, come ricorda Alberto Abruzzese, (Abruzzese, Borrelli, 2000) che i miti sono un grande strumento di lettura della società, e che al loro interno ritroviamo, cristallizzate come un insetto nell’ambra le direzioni del pensiero comune, è impossibile non ricondurre la grande e iterativa categoria della fine del mondo a una prospettiva ciclica e fondante di mitologie regolari e autorigeneranti. La vita dell’uomo è scandita da cicli: la notte e il giorno, la luce e il buio, l’alternarsi delle stagioni, la fecondità della donna, la vita e la morte. Ogni forma di passaggio include l’idea della fine, di conseguenza per l’uomo è impossibile, persino inaccettabile immaginare l’assenza di una conclusione speculare della cosmogonia, perché è semplicemente insopportabile l’idea della non-fine. 
Tornando alle varie speculazioni sulla fine del mondo, la dimensione escatologica giudaico-cristiana è stata tra le primissime a ragionarvi, un esempio illuminante è la Bibbia, nella quale si riporta da un lato la Genesi (il cui racconto della creazione, come noto, è articolato su sette giorni, ricalcando anche in questo caso un’unità ciclica di misura astronomica, la settimana), dall’altro l’Apocalisse. Come noto, il Cristianesimo è una religione rivelata, e anche l’Apocalisse viene annunciata nella forma della profezia. Ciò rispetta già in partenza uno dei punti fondamentali precedentemente messi in evidenza: la consapevolezza, cioè l’informazione, la comunicazione da uno a molti di ciò che avverrà. Il concetto cristiano di rivelazione incarna questo principio per il quale i profeti diventano veri ripetitori mediatici della parola di Dio. Ma anche il secondo punto viene rispettato: l’Apocalisse è inevitabile. Nessuno può impedire che accada, nessuno può fare in modo di ritardarla, nessuno può fare altro che accettarla, cercando nel frattempo di meritarsi un posticino in Paradiso perché, cogliendo l’occasione, si provvederà anche al Giudizio Universale, aggiunta dottrinale ed educativa della religione. Da notare che anche la stessa Apocalisse segue una struttura ciclica (un primo combattimento contro Satana, un periodo di mille anni e un secondo definitivo combattimento), così come in molte culture la fine dei tempi ha un’architettura ciclica (in quella greca Esiodo la descriveva con il ritorno alla primigenia età dell’oro, successivamente a quella dell’argento, del bronzo e del ferro), confermando come l’idea della ciclicità sia fondante dell’idea di fine. Così come nella cultura islamica i riferimenti sono molteplici, e non dissimili da quelli biblici sia in termini di inevitabilità: “La scienza di ciò appartiene ad Allah”, recita il Corano, sia di informazione: ancora nel Corano si legge che “In verità l'Ora è imminente, anche se la tengo celata, affinché ogni anima sia compensata delle opere sue.” Un esempio di altro tipo e altro tempo è rappresentato da una forma storica di predizione della fine del mondo, cioè quella derivante dall’annichilimento di ogni forma di vita sulla superficie terrestre come conseguenza della guerra atomica, durante i lunghi anni della Guerra Fredda. Due dottrine in quegli anni erano propagandate: quella che prevedeva l’inevitabilità del conflitto, e la MAD (acronimo non del tutto casuale per “Mutual Assured Destruction”, cioè distruzione reciproca assicurata”) (Pinzani, 1992). La teoria dell’inevitabilità del conflitto risponde al primo criterio, cioè quello dell’informazione e della consapevolezza. Non fa proprie indicazioni temporali sulla data del conflitto definitivo (esattamente come le rivelazioni religiose sono prive di riferimenti sull’ora e i tempi dell’Apocalisse), assicura soltanto che ci sarà. La teoria della MAD soddisfa invece il principio dell’inevitabilità: ciò che si sa è che una volta iniziato il conflitto, le reazioni a catena saranno tali da generare inevitabilmente la completa distruzione di entrambe le superpotenze interessate, prospettiva, giusto per usare un termine ricorrente, apocalittica. Il principio identifica la corrente di pensiero che caratterizza la prima e più accesa fase della Guerra Fredda, corrente secondo la quale i modelli dei due sistemi, capitalista e comunista, evolvendosi, non avrebbero potuto fare a meno di confliggere.
La narrativa di finzione, infine, rispetta allo stesso modo tali principi, anche se a volte (per esempio nel filone catastrofico), non manca di contravvenire a quello dell’inevitabilità laddove l’eroe “salva l’umanità”, e a quello dell’informazione, quando la catastrofe viene evitata all’insaputa del mondo intero, che continua a vivere serenamente la propria quotidianità. Tuttavia non mancano esempi nei quali tali principi vengono rispettati. Spostandoci nel campo cinematografico, ma restando negli anni del non-conflitto, il tema della non controllabilità della reazione viene proposto, in chiave ironica e satirica, nel Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Nel film, in cui un generale americano violando le procedure di sicurezza ordina un attacco atomico sull’Unione Sovietica, non ci sarà alcuna possibilità di disinnescare il terribile “Ordigno Fine del Mondo” un sistema automatico di risposta che, contro la volontà di entrambe le superpotenze, esploderà ironicamente sulle note della canzone We’ll Meet Again, generando una reazione a catena fatale per l’intero pianeta. La rappresaglia istintiva, incontrollata, generata dall’isterismo militare, è a tutti gli effetti un topos costante che si cristallizza con una certa regolarità nella produzione americana. Il mondo del giornalismo, a sua volta, non rinuncia a sfruttare la fascinazione emanata dalle predizioni apocalittiche, che possiedono un appeal irresistibile per vaste audience. Negli ultimi anni si è verificata una significativa accelerazione di questa propensione, che avvicina singolarmente gli scenari della scienza a quelli della fantascienza. Un caso eclatante che ormai quasi dieci anni fa ha sollevato un allarme (e un business) sproporzionato rispetto alla rilevanza della minaccia è stato l’ormai fantomatico Millenium Bug, che alla fine degli anni Novanta veniva descritto come il possibile fautore del collasso dell’umanità, una volta tanto con una data precisa come nelle migliori profezie medievali sull’anno 666, il Mille e affini. Il bug sarebbe stato causato dalla teorica impossibilità dei computer di gestire il passaggio dalla data 19xx a quella 20xx, a causa della miopia degli sviluppatori informatici che non avrebbero previsto il cambio di millennio e avrebbero affidato alle sole ultime due cifre dell’anno la memoria della data di qualsiasi operazione basata sul calcolatore. Lo scenario descritto era, di nuovo, apocalittico: i computer si sarebbero bloccati tutti e contemporaneamente, l’economia sarebbe collassata istantaneamente bruciando inimmaginabili somme di denaro virtuale, l’elettricità si sarebbe interrotta lasciando al buio il mondo intero, tutti gli aerei sarebbero caduti fermandosi istantaneamente: il caos totale. La ricetta anche in questo caso c’è tutta: l’espiazione di una colpa dell’essere umano, l’inevitabilità del processo, la consapevolezza della fine veicolata da ogni mezzo di comunicazione possibile. In realtà, nel peggiore dei casi, a restare vittima del Millenium Bug è stata qualche segreteria telefonica, e ciò era tutto sommato prevedibile anche tra i non addetti ai lavori, tuttavia la fascinazione della fine non ha impedito alla grande bufala dello Y2K di restare per sempre impressa nella storia del mondo e di ispirare una quantità di prodotti materiali e immateriali a esso collegati, da servizi per prevenire il disastro, a gadget, a trame di film, cartoni animati, fumetti. Una bufala, appunto, mitica, che incarna tuttavia una serie di trasformazioni sociali e del sistema delle comunicazioni. Il Bug racconta ben altro della società a cavallo tra due secoli e due millenni, racconta dei timori di una progressiva, totale e inevitabile informatizzazione della società. Racconta del completamento dello spostamento dei flussi economici sulle reti, racconta della morte degli archivi cartacei (e quindi della memoria scritta), racconta di internet sul computer di casa, racconta del telefonino. In generale, il Millenium Bug racconta una società che si trova di fronte a un cambiamento nelle proprie abitudini ed esprime la propria perplessità nell’affidare al computer e all’informatica, in definitiva alla scienza, settori vitali della propria esistenza. Dal 2000 sono passati otto anni prima di un nuovo annuncio della fine del mondo. Anche stavolta la data è certa, il 10 settembre 2008, e anche stavolta è il paradigma scientifico ad inseguire scenari fantascientifici. Al CERN di Ginevra viene inaugurato il Large Hadron Collider, un acceleratore di particelle. La notizia, che normalmente sarebbe passata forse al massimo su qualche numero di Focus perchè di scarsissimo interesse per un pubblico generalista, stavolta è sulle prime pagine e tutti ne parlano. L’LGH è infatti in grado di riprodurre le condizioni della nascita dell’universo. Ma l’uomo ancora una volta non riesce a concepire una cosmogonia priva di apocalisse, di conseguenza allo stesso macchinario, in un incrocio sublime di estremi che si attraggono, viene attribuito il potere di porre fine all’esistenza dell’uomo, colpevole di essersi attribuito poteri generativi esclusivi di un’entità fondante superiore. Il medium? Un piccolo buco nero in grado di nutrirsi dell’esistenza stessa e di inghiottire, come un moderno Blob tecnologico non più alieno ma umano, l’intero pianeta nell’arco di un triennio. E così Walter L. Wagner e Luis Sancho, due scienziati in probabile corsa verso la notorietà, si appellano alla Corte Europea dei Diritti Umani, per avvisare, profeti dell’estremo traguardo, della Fine del Mondo. Anche in questo caso la minaccia è tutto sommato canonica, e risponde ancora una volta al bisogno dell’uomo di immaginare una fine laddove si configura l’inizio. Ma nonostante l'improbabilità scientifica che si verifichi un evento catastrofico di tale portata, la notizia batte giornali, televisione, blogosfere. Si fa leva più che sulla curiosità scientifica, sulla paura, la cui fascinazione è sintomatica di un sentire diffuso che non ha difficoltà, nella società del rischio, a diffondersi e a risultare credibile pur essendo l'evento catastrofico di fatto statisticamente tanto improbabile quanto la caduta della Luna sulla Terra. Rispetto al Millenium Bug sono passati 8 anni, e in mezzo a questi 8 anni c’è un “11 settembre” che ha reso verosimile anche il più catastrofico degli scenari. Il buco nero stavolta racconta della società del rischio e dell’incertezza, del conflitto tra scienza e religione, di un Prometeo che anziché rubare il fuoco si appropria della vita stessa, così come i dibattiti sociali e sociologici sul corpo affrontano la vita in vitro, la clonazione, la titolarità sulla propria vita e i propri organi. La generazione di un buco nero a ogni modo imita nella forma gli scenari catastrofici che la narrativa e il cinema di fantascienza esplorano da oltre un secolo, e che le religioni e le prospettive escatologiche descrivono da millenni. Il gioco dell’immaginazione è tuttavia affascinante, e vogliamo assecondarlo. Se la scienza imita la fantascienza, perché non immaginare il soggetto di un film basato proprio sulle previsioni nefaste ipotizzate da scienziati bisognosi di popolarità? La sinossi potrebbe essere non dissimile da questa:

Un gruppo di scienziati americani lavora segretamente a un esperimento militare: generare un buco nero da utilizzare come arma, la più spaventosa e distruttiva mai concepita. Quando qualcosa va storto e la reazione a catena sfugge al loro controllo, la Terra e l'intero Sistema solare rischiano di essere distrutti dal buco nero, che inizia ad espandersi e inghiottire tutto ciò che gli è vicino. La soluzione per fermare la distruzione della razza umana è nella mente geniale di William Ed. Burton (Denzel Washington), solitario fisico nucleare con un conto in sospeso con il governo. Dovrà lottare contro il tempo e contro delle misteriose forze occulte che cercheranno a tutti i costi di ostacolare la sua missione, aiutato soltanto dalla sua assistente Janet (Rachel Weisz), l'unica persona di cui si fida veramente.

Il titolo sarebbe ovviamente  Black Hole

Questa potrebbe essere la sua locandina. 

E Janet?

Naturalmente morirebbe risucchiata dal buco nero. 

 


 

:: letture ::

A. Abruzzese, D. Borrelli, D. L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Carocci, Roma, 2000.

Corano, Sansoni, Firenze, 1961.

Esiodo, Le opere e i giorni, VIII secolo a.C., Studio Tesi, Pordenone, 1994.

C. Pinzani, Da Roosevelt a Gorbaciov. Storia delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel dopoguerra, Ponte alle Grazie, Firenze, 1992.


:: visioni ::

S. Kubrick, Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, Gran Bretagna, USA, 1964, Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, 2004.