Nella
storia delle grandi narrazioni esiste un protagonista
ricorrente, particolarmente forte nell’esercitare una potente
fascinazione nei confronti dell’essere umano. È un
protagonista assai
versatile, estremamente multiforme nelle sue poliedriche
configurazioni, e tuttavia riconoscibilissimo. Le sue tracce
tutt’altro
che effimere attraversano trasversalmente ogni tempo e ogni luogo di
produzione narrativa – da quella escatologica e religiosa a
quella
storico-documentaria – non risparmia il giornalismo, e trova,
infine,
nel fantastico e nella fantascienza uno dei suoi terreni più
fecondi
ove assicurare la propria fertile presenza. Questo protagonista
è la
Fine del Mondo. È innegabile che
l’uomo abbia da sempre assecondato la necessità di
individuare la Fine,
una fine assoluta, inappellabile, che sfugga al controllo del singolo
ma anche a quello della società. Caratteristiche principi
della fine
del mondo sono la consapevolezza e
l’inevitabilità. Il primo punto
allude all’auto-evidenza del processo stesso che viene messo
in atto e
che porta alla conclusione definitiva della vita: non esiste una vera
fine del mondo se essa in qualche modo non viene prevista, annunciata,
dedotta, profetizzata, in definitiva comunicata.
L’inevitabilità è
invece caratteristica genetica, connaturale e strutturale di ogni
processo di definitiva e purificatoria distruzione della Terra e/o del
genere umano. Con finalità e ipotesi differenti,
l’inevitabilità è
funzionale alla creazione di una fine del mondo credibile, in alcuni
casi didascalica, efficace nel processo di ricognizione da parte della
società, perché la vera ipotesi di un sommo e
pirotecnico finale non
può che prevedere un’ineluttabilità di
fondo, l’impotenza dell’uomo e
della scienza nel contrastare ciò che deve apparire, per
essere
ragionevolmente catartico, come il prodotto inarrestabile della colpa
dell’uomo. Una breve ricognizione delle
più popolari “messe in
racconto” della fine del mondo, che si tratti di narrazione
religiosa,
profetica, storica o dichiaratamente finzionale, può
confermare questa
breve premessa che guarda da un lato alla psicologia sociale,
dall’altro al ruolo dei media e alle grandi narrazioni
mitologiche come
corpus ad exemplum delle paure, delle credenze, del
costrutto
sociale in cui esse si sviluppano. Se è vero, infatti, come
ricorda
Alberto Abruzzese, (Abruzzese, Borrelli, 2000) che i miti sono un
grande strumento di lettura della società, e che al loro
interno
ritroviamo, cristallizzate come un insetto nell’ambra le
direzioni del
pensiero comune, è impossibile non ricondurre la grande e
iterativa
categoria della fine del mondo a una prospettiva ciclica e fondante di
mitologie regolari e autorigeneranti. La vita dell’uomo
è scandita da
cicli: la notte e il giorno, la luce e il buio, l’alternarsi
delle
stagioni, la fecondità della donna, la vita e la morte. Ogni
forma di
passaggio include l’idea della fine, di conseguenza per
l’uomo è
impossibile, persino inaccettabile immaginare l’assenza di
una
conclusione speculare della cosmogonia, perché è
semplicemente
insopportabile l’idea della non-fine. Tornando
alle varie
speculazioni sulla fine del mondo, la dimensione escatologica
giudaico-cristiana è stata tra le primissime a ragionarvi,
un esempio
illuminante è la Bibbia, nella quale si riporta da un lato
la Genesi
(il cui racconto della creazione, come noto, è articolato su
sette
giorni, ricalcando anche in questo caso un’unità
ciclica di misura
astronomica, la settimana), dall’altro
l’Apocalisse. Come noto, il
Cristianesimo è una religione rivelata, e anche
l’Apocalisse viene
annunciata nella forma della profezia. Ciò rispetta
già in partenza uno
dei punti fondamentali precedentemente messi in evidenza: la
consapevolezza, cioè l’informazione, la
comunicazione da uno a molti di
ciò che avverrà. Il concetto cristiano di
rivelazione incarna questo
principio per il quale i profeti diventano veri ripetitori mediatici
della parola di Dio. Ma anche il secondo punto viene rispettato:
l’Apocalisse è inevitabile. Nessuno può
impedire che accada, nessuno
può fare in modo di ritardarla, nessuno può fare
altro che accettarla,
cercando nel frattempo di meritarsi un posticino in Paradiso
perché,
cogliendo l’occasione, si provvederà anche al
Giudizio Universale,
aggiunta dottrinale ed educativa della religione. Da notare che anche
la stessa Apocalisse segue una struttura ciclica (un primo
combattimento contro Satana, un periodo di mille anni e un secondo
definitivo combattimento), così come in molte culture la
fine dei tempi
ha un’architettura ciclica (in quella greca Esiodo la
descriveva con il
ritorno alla primigenia età dell’oro,
successivamente a quella
dell’argento, del bronzo e del ferro), confermando come
l’idea della
ciclicità sia fondante dell’idea di fine.
Così come nella cultura
islamica i riferimenti sono molteplici, e non dissimili da quelli
biblici sia in termini di inevitabilità: “La
scienza di ciò appartiene
ad Allah”, recita il Corano, sia di informazione: ancora nel
Corano si
legge che “In verità l'Ora è imminente,
anche se la tengo celata,
affinché ogni anima sia compensata delle opere
sue.” Un esempio di
altro tipo e altro tempo è rappresentato da una forma
storica di
predizione della fine del mondo, cioè quella derivante
dall’annichilimento di ogni forma di vita sulla superficie
terrestre
come conseguenza della guerra atomica, durante i lunghi anni della
Guerra Fredda. Due dottrine in quegli anni erano propagandate: quella
che prevedeva l’inevitabilità del conflitto, e la
MAD (acronimo non del
tutto casuale per “Mutual Assured Destruction”,
cioè distruzione
reciproca assicurata”) (Pinzani, 1992). La teoria
dell’inevitabilità
del conflitto risponde al primo criterio, cioè quello
dell’informazione
e della consapevolezza. Non fa proprie indicazioni temporali sulla data
del conflitto definitivo (esattamente come le rivelazioni religiose
sono prive di riferimenti sull’ora e i tempi
dell’Apocalisse), assicura
soltanto che ci sarà. La teoria della MAD soddisfa invece il
principio
dell’inevitabilità: ciò che si sa
è che una volta iniziato il
conflitto, le reazioni a catena saranno tali da generare
inevitabilmente la completa distruzione di entrambe le superpotenze
interessate, prospettiva, giusto per usare un termine ricorrente,
apocalittica. Il principio identifica la corrente di pensiero che
caratterizza la prima e più accesa fase della Guerra Fredda,
corrente
secondo la quale i modelli dei due sistemi, capitalista e comunista,
evolvendosi, non avrebbero potuto fare a meno di confliggere. La
narrativa di finzione, infine, rispetta allo stesso modo tali principi,
anche se a volte (per esempio nel filone catastrofico), non manca di
contravvenire a quello dell’inevitabilità laddove
l’eroe “salva
l’umanità”, e a quello
dell’informazione, quando la catastrofe viene
evitata all’insaputa del mondo intero, che continua a vivere
serenamente la propria quotidianità. Tuttavia non mancano
esempi nei
quali tali principi vengono rispettati. Spostandoci nel campo
cinematografico, ma restando negli anni del non-conflitto, il tema
della non controllabilità della reazione viene proposto, in
chiave
ironica e satirica, nel Dottor Stranamore di
Stanley Kubrick.
Nel film, in cui un generale americano violando le procedure di
sicurezza ordina un attacco atomico sull’Unione Sovietica,
non ci sarà
alcuna possibilità di disinnescare il terribile
“Ordigno Fine del
Mondo” un sistema automatico di risposta che, contro la
volontà di
entrambe le superpotenze, esploderà ironicamente sulle note
della
canzone We’ll Meet Again, generando una
reazione a catena
fatale per l’intero pianeta. La rappresaglia istintiva,
incontrollata,
generata dall’isterismo militare, è a tutti gli
effetti un topos
costante che si cristallizza con una certa regolarità nella
produzione
americana. Il mondo del giornalismo, a sua volta, non rinuncia a
sfruttare la fascinazione emanata dalle predizioni apocalittiche, che
possiedono un appeal irresistibile per vaste audience. Negli ultimi
anni si è verificata una significativa accelerazione di
questa
propensione, che avvicina singolarmente gli scenari della scienza a
quelli della fantascienza. Un caso eclatante che ormai quasi dieci anni
fa ha sollevato un allarme (e un business) sproporzionato rispetto alla
rilevanza della minaccia è stato l’ormai
fantomatico Millenium Bug, che
alla fine degli anni Novanta veniva descritto come il possibile fautore
del collasso dell’umanità, una volta tanto con una
data precisa come
nelle migliori profezie medievali sull’anno 666, il Mille e
affini. Il
bug sarebbe stato causato dalla teorica impossibilità dei
computer di
gestire il passaggio dalla data 19xx a quella 20xx, a causa della
miopia degli sviluppatori informatici che non avrebbero previsto il
cambio di millennio e avrebbero affidato alle sole ultime due cifre
dell’anno la memoria della data di qualsiasi operazione
basata sul
calcolatore. Lo scenario descritto era, di nuovo, apocalittico: i
computer si sarebbero bloccati tutti e contemporaneamente,
l’economia
sarebbe collassata istantaneamente bruciando inimmaginabili somme di
denaro virtuale, l’elettricità si sarebbe
interrotta lasciando al buio
il mondo intero, tutti gli aerei sarebbero caduti fermandosi
istantaneamente: il caos totale. La ricetta anche in questo caso
c’è
tutta: l’espiazione di una colpa dell’essere umano,
l’inevitabilità del
processo, la consapevolezza della fine veicolata da ogni mezzo di
comunicazione possibile. In realtà, nel peggiore dei casi, a
restare
vittima del Millenium Bug è stata qualche segreteria
telefonica, e ciò
era tutto sommato prevedibile anche tra i non addetti ai lavori,
tuttavia la fascinazione della fine non ha impedito alla grande bufala
dello Y2K di restare per sempre impressa nella storia del mondo e di
ispirare una quantità di prodotti materiali e immateriali a
esso
collegati, da servizi per prevenire il disastro, a gadget, a trame di
film, cartoni animati, fumetti. Una bufala, appunto, mitica, che
incarna tuttavia una serie di trasformazioni sociali e del sistema
delle comunicazioni. Il Bug racconta ben altro della società
a cavallo
tra due secoli e due millenni, racconta dei timori di una progressiva,
totale e inevitabile informatizzazione della società.
Racconta del
completamento dello spostamento dei flussi economici sulle reti,
racconta della morte degli archivi cartacei (e quindi della memoria
scritta), racconta di internet sul computer di casa, racconta del
telefonino. In generale, il Millenium Bug racconta una
società che si
trova di fronte a un cambiamento nelle proprie abitudini ed esprime la
propria perplessità nell’affidare al computer e
all’informatica, in
definitiva alla scienza, settori vitali della propria esistenza. Dal
2000 sono passati otto anni prima di un nuovo annuncio della fine del
mondo. Anche stavolta la data è certa, il 10 settembre 2008,
e anche
stavolta è il paradigma scientifico ad inseguire scenari
fantascientifici. Al CERN di Ginevra viene inaugurato il Large Hadron
Collider, un acceleratore di particelle. La notizia, che normalmente
sarebbe passata forse al massimo su qualche numero di Focus
perchè di scarsissimo interesse per un pubblico generalista,
stavolta è
sulle prime pagine e tutti ne parlano. L’LGH è
infatti in grado di
riprodurre le condizioni della nascita dell’universo. Ma
l’uomo ancora
una volta non riesce a concepire una cosmogonia priva di apocalisse, di
conseguenza allo stesso macchinario, in un incrocio sublime di estremi
che si attraggono, viene attribuito il potere di porre fine
all’esistenza dell’uomo, colpevole di essersi
attribuito poteri
generativi esclusivi di un’entità fondante
superiore. Il medium? Un
piccolo buco nero in grado di nutrirsi dell’esistenza stessa
e di
inghiottire, come un moderno Blob tecnologico non più alieno
ma umano,
l’intero pianeta nell’arco di un triennio. E
così Walter L. Wagner e
Luis Sancho, due scienziati in probabile corsa verso la
notorietà, si
appellano alla Corte Europea dei Diritti Umani, per avvisare, profeti
dell’estremo traguardo, della Fine del Mondo. Anche in questo
caso la
minaccia è tutto sommato canonica, e risponde ancora una
volta al
bisogno dell’uomo di immaginare una fine laddove si configura
l’inizio.
Ma nonostante l'improbabilità scientifica che si verifichi
un evento
catastrofico di tale portata, la notizia batte giornali, televisione,
blogosfere. Si fa leva più che sulla curiosità
scientifica, sulla
paura, la cui fascinazione è sintomatica di un sentire
diffuso che non
ha difficoltà, nella società del rischio, a
diffondersi e a risultare
credibile pur essendo l'evento catastrofico di fatto statisticamente
tanto improbabile quanto la caduta della Luna sulla Terra. Rispetto al
Millenium Bug sono passati 8 anni, e in mezzo a questi 8 anni
c’è un
“11 settembre” che ha reso verosimile anche il
più catastrofico degli
scenari. Il buco nero stavolta racconta della società del
rischio e
dell’incertezza, del conflitto tra scienza e religione, di un
Prometeo
che anziché rubare il fuoco si appropria della vita stessa,
così come i
dibattiti sociali e sociologici sul corpo affrontano la vita in
vitro,
la clonazione, la titolarità sulla propria vita e i propri
organi. La
generazione di un buco nero a ogni modo imita nella forma gli scenari
catastrofici che la narrativa e il cinema di fantascienza esplorano da
oltre un secolo, e che le religioni e le prospettive escatologiche
descrivono da millenni. Il gioco dell’immaginazione
è tuttavia
affascinante, e vogliamo assecondarlo. Se la scienza imita la
fantascienza, perché non immaginare il soggetto di un film
basato
proprio sulle previsioni nefaste ipotizzate da scienziati bisognosi di
popolarità? La sinossi potrebbe essere non dissimile da
questa:
Un gruppo di scienziati americani
lavora segretamente a un
esperimento militare: generare un buco nero da utilizzare come arma, la
più spaventosa e distruttiva mai concepita. Quando qualcosa
va storto e
la reazione a catena sfugge al loro controllo, la Terra e l'intero
Sistema solare rischiano di essere distrutti dal buco nero, che inizia
ad espandersi e inghiottire tutto ciò che gli è
vicino. La soluzione
per fermare la distruzione della razza umana è nella mente
geniale di
William Ed. Burton (Denzel Washington), solitario fisico nucleare con
un conto in sospeso con il governo. Dovrà lottare contro il
tempo e
contro delle misteriose forze occulte che cercheranno a tutti i costi
di ostacolare la sua missione, aiutato soltanto dalla sua assistente
Janet (Rachel Weisz), l'unica persona di cui si fida veramente. Il
titolo sarebbe ovviamente Black Hole. Questa
potrebbe essere la sua locandina. E Janet? Naturalmente
morirebbe risucchiata dal buco nero.
::
letture :: A. Abruzzese, D.
Borrelli, D. L’industria culturale. Tracce e
immagini di un privilegio, Carocci, Roma, 2000.
Corano, Sansoni, Firenze, 1961.
Esiodo, Le opere e i giorni, VIII secolo
a.C., Studio Tesi, Pordenone, 1994.
C. Pinzani, Da Roosevelt a Gorbaciov. Storia delle
relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel dopoguerra,
Ponte alle Grazie, Firenze, 1992. :: visioni ::
S.
Kubrick, Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying
and Love the Bomb, Gran Bretagna, USA, 1964, Il
dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare
la bomba, 2004. |