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Sandro Penna, il tempo del sogno di Erika Dagnino | |
Tra freschezza e purezza, forza e tenerezza, il canto di Sandro Penna suscita un’impressione, una ‘emozione’, un erotismo talmente sublimato da essere e soprattutto ri-essere puramente fisico; l’emozione, infatti, si presenta come una componente che permane nella sua fisicità, scevra da sensi di colpa, freschezza quasi pagana in cui si esalta e manifesta con evidenza una disinibita sensualità. L’elemento della doppia dimensione fisica si espande e si distilla decantando il tutto e rendendolo un istinto che, sfrondato dalla cerebralità, si fa ritorno all’impressione, riavviandosi alla dimensione corporea.
Il rapporto tra la singolarità del dormiente e la
vita estesa nella
sua espansione, questa sorta di diaframma tra la ricezione e il rumore,
è l’io stesso, evidentemente dotato di corpo, ma
anche fantasma di una
finezza animica attraverso la sua doppia corporeità:
giacitura fisica,
giacitura distanziata dall’elemento visibile, immersa nello
stato di
sonno, sonno come stasi, dove l’immersione avviene in una
bolla
individuale che resta comunque in interazione col rumore della vita. Un
rumore dolce secondo la sensazione del poeta, e che
fa
convergere il desiderio e la lontananza dall’esistere in
quanto tale.
Un isolamento che è distacco e contemporaneamente attrazione
verso la
vita, la vita che attrae da una sorta di dimensione altra. Parliamo di
sensi: lo stare lontano del dormiente è una
sensualità pigra, entro la
bipolarità ‘attrazione’ e
‘tenuta in distanza’ dell’esistenza,
ribadendo l’elemento pagano sorgivo che vive
fisicità e vita con ‘forza
e tenerezza’. Il dormiente,
l’isolamento, il rumore non ci
impediscono di spingere la nostra sensibilità verso la
particolare
immagine dell’ermafrodito, resa così visibile nei
lautréamontiani Canti di
Maldoror,
condannato alla solitudine per l’intangibilità
della sua purezza,
vitalità vivezza dell’esiliato, purezza sorgiva
del consapevole
dormiente, intesa / inteso anche come sguardo lirico sul mondo. Ed
è
proprio la sua immagine, quella della “sua
illusione che si prolunghi fino al risveglio
dell’aurora”,
contornata di una sorta di sottigliezza materica, diffusa non solo nel
suo corpo, ma anche nell’ambiente che lo circonda, ambiente
che pur si
fa “solenne come una tomba”, a
mantenere il nostro sguardo
entro la dimensione della fanciullezza e insieme della distanza
implicita nella precarietà della fanciullezza.
Così come “non possiamo
rifiutarci di vedere che gran parte del secondo canto gravita intorno
al tema dell’infanzia…. Infanzia sfuggita a se
stessa, in cammino verso
l’adolescenza, come in sospeso fra la natura virile e quella
femminile
e, a causa di ciò, condannata alla
solitudine…” (Blanchot, 1963).
Ci dice Penna.
Il trascolorare dell’elemento temporale sottolinea le stratificazioni e la stessa incertezza del tempo. Tra identità reale e sognata, tra permanenza e immutabilità. Ma in questo caso la ripetizione è a suo modo sovrapponibile, pur nella sua diversità di durata e natura.
Stratificazioni temporali, quindi ulteriore indefinitezza,
collegabile a una sorta di non visibilità poiché
il dormiente in questa
incertezza sta sognando – per definizione in qualche modo il
tempo del
sogno è indeterminato – e quindi ignorando il
momento della giornata
esterna: l’attenzione converge sul di fuori
del fatto, del dato
reale, collocandolo nel segno totale dell’indeterminatezza
quasi fosse
una ripresa oggettiva, sembra guardare dall’alto come se la
sua
dimensione onirica si solidificasse, presa in blocco, la
visibilità
diviene il dato proprio dalla persona che sta
‘dormendo’,
nell’invisibilità dall’indeterminatezza
temporale. La visibilità del
sonno si manifesta contemporaneamente
all’invisibilità di tutto quanto
ne sta fuori. Sorta di dimensione esterna indeterminata, dunque, di
invisibilità del mondo contrapposta a una sorta di
visibilità
interiore. Se facessimo entrare in azione un ipotetico occhio
guardante, la dimensione di colui che sogna sarebbe autosufficiente in
virtù del suo stesso stato di sognante, tutto il resto
sarebbe
invisibile. Come un riflettore puntato sulla situazione fantasmatica, e
tutto il resto, l’extraonirico, invisibile. Quasi una
cancellazione che
determinasse una funzione sostitutiva del sogno rispetto alla
realtà.
Il giorno potrebbe diventare uno schiudersi di una
visibilità esteriore, ma il forse
implica un passaggio assolutamente ipotetico alla stessa
luminosità,
lasciando presupporre un trionfo della visibilità
dell’invisibile –
quasi visibile – se è vero che le nostre immagini
di realtà possono
essere rivisitate nitide fino ai minimi dettagli e ritagli, mentre
l’immagine lirica è e rimane generalmente
indefinita.
La nostra esperienza ci parla poi del manifestarsi delle zone oscure del sogno: tutto quello che nell’atto del sognare si percepisce come nitido secondo la logica onirica, la stessa indefinitezza dei contorni, riletta con gli occhi della veglia, spesso riconduce a zone di poca definitezza. Immagine, ricordo che rendiamo oggettivi e perfino contigui nella nostra ricostruzione. Recuperando sparse immagini, e qualche volta un abbozzarsi della loro processione, siamo costretti a un immediato compatto senso di vaghezza, di difficoltà memoriale dei contorni, dei colori, lo sfocamento identificandosi come recupero non realistico, anzi sorta di pre-realismo, nel tentativo naturale, istinto irrevocabile, forse senza obbligata necessità funzionale, o funzione necessaria, di ricostruzione e concatenazione di ciò che è non del tutto sufficientemente memoriale, ma temporaneamente ricostruibile e ripercettibile nella nostra soggettività di veglia, magari preaggiungendo nuovi elementi al futuro scaturire del sogno.
:: letture :: Blanchot M., “Lautréamont et Sade”, 1963, trad. it. Lautréamont e Sade 1963, SE, Milano, 2003. Lautréamont I. L. D. (conte di) Le Chantes de Maldoror. Poesiés - Lettres, trad. it. Canti di Maldoror. Poesie - Lettere, RCS, Milano, 2002. Penna S., Poesie, prefazione di Cesare Garboli, Garzanti, Milano, 2000. |