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La felicità tra desiderio e ricordo in Wong Kar-wai
di Linda de Feo

wong.jpgL’arte di essere infelice. Quella di essere felice è cosa rancida;

insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata da pochissimi,

e da nessuno poi con effetto.

Giacomo Leopardi


La solitudine e la sofferenza per amore sono temi malinconicamente dominanti nella poetica di Wong Kar-wai, regista che descrive il vivere e il patire con profonda sensibilità estetica, e che, percependo il proprio dolore come sensazione stessa del cosmo, tenta di disvelare il mistero dei sentimenti. 
L’amore nato tra la signora Chan e il signor Chow, uniti dal tradimento subito dai rispettivi coniugi divenuti amanti, ispira il film In the Mood for Love, del 2000, nostalgica elegia sugli errori dei sensi e dello spirito. La caducità della felicità è il motivo fondamentale dell’opera, attraversata dall’anima di chi ammira la bellezza e non riesce a possederla per sempre, un’anima dischiusa alle chimere amorose, che attraggono e seducono, e che, per quanto irraggiungibili, diventano ragione fondamentale di vita. La meditazione lirica di Wong Kar-wai evoca una visione che sembra percepibile al di là di un vetro appannato, poetico risultato del dissidio interiore tra il sentimento, che prova il bisogno delle estreme illusioni, e la razionalità, che ne palesa l’ineludibile e amara vanità. 
La sinuosa protagonista, raffinata e leggiadra, dallo sguardo fuggitivo e dal passo leggero, languidamente ondeggiante, è l’oggetto del vagheggiamento di una bellezza straordinaria, contemplata e perduta, di un amore sublime non realizzato, di una vita perfetta, che avrebbe potuto essere e che non si è compiuta. La fascinazione della pellicola si dipana nella rievocazione  di una gioia indefinita, ma reale e viva, di una felicità come attesa della felicità, che si spegne nel crepuscolo dove si perde il giorno cinese e dove muoiono potenzialità irrealizzabili di una sbiadita quotidianità.
Nonostante l’eterna iterazione della tematica proposta dalla trama sia ricondotta a una finitezza temporale vissuta nelle anguste e soffocanti spazialità di Hong Kong, la microstoria assurge al ruolo di un’universale esemplarità, cadenzata dalla fugacità degli incontri e suggellata dall’inevitabilità dell’addio. E così, il principio del piacere, consustanziale all’essere, orizzonte primo del sentire, insieme all’agitazione dell’esistenza e alle pulsazioni della vita che si fa amore, volte a trascinare l’uomo nel vortice delle incognite, si trasmuta in percezione dell’impossibile felicità.
La delicatezza della gestualità, la suggestione delle scene, la sospensione delle atmosfere rarefatte costituiscono metafore di un sentimento tanto più avvolgente quanto meno concretizzato, che rinnova la passione nel tremore di un’immaginazione turbata dall’ansia dell’amore nascente e dalla malinconia dell’abbandono. La macchina da presa inquadra gli elementi con cura suprema e sottolinea il valore degli oggetti come segni, indugiando sui dettagli, arricchendoli di significato, mentre le volute di fumo delle sigarette, le fluttuanti trasparenze delle tende, le luci soffuse, le fitte piogge, le ombre marcate e le tenui penombre riproducono un vero non realistico, ma un vero interiore, con fedele aderenza a stati d’animo nati dall’osservazione dell’assurdo andar del tempo che scandisce l’esistenza.
Il gioco sapiente degli specchi sembra voler dare disperatamente corpo ai sogni, riflettere la tensione dolorosa degli amanti e alludere alla dialettica tra due diversi modi di essere della realtà: l’effettività materiale, la presenza tangibile, l’attualità e la probabile apparizione differita, la potenzialità del non avvenuto, la virtualità, che rivela l’autenticità della propria essenza solo quando acquisisce le sembianze del ricordo. Gli specchi si impossessano dei personaggi, ne fagocitano ogni attualità, e le ombre popolano una storia articolata sulle forme del desiderio e sui modi della speranza, nello scambio perpetuo tra i protagonisti e la loro immagine virtuale, suggerendo che l’autentica bellezza non sta in ciò che è, né in ciò che è stato, ma in ciò che potrebbe o avrebbe potuto essere. L’amore, alimentato da impalpabili esperienze, impercettibili sfioramenti, timide esitazioni, vestitissimi sguardi, “una volta dichiarato e divenuto definitivamente impossibile, diventa quel che [forse] ha sempre voluto essere: puro godimento dell’inattuale” (Augé, p. 45), un’inattualità che si contempla a distanza, nel momento in cui, trasformatasi in rovina, non è più una virtualità (cfr. ibidem, p. 46). Gli eventi del film si stemperano irrimediabilmente nella forza distruttrice del tempo, che trasforma il desiderio in un più meditato sentire della vita, obbligando il futuro a rifugiarsi nel passato e lasciandogli possibilità di esistenza come speranza sorta nel tempo trascorso, come ricordo di un’attesa. 
La memoria diventerà il luogo dell’inesauribile, pur se tristemente consapevole, ricerca della felicità, meritando un viaggio nell’avvenire, per poter essere ritrovata in 2046, seguito ideale, del 2004, di In the Mood for Love, dove Wong Kar-wai, in un riflesso delle immagini del passato, fa riemergere il segreto dell’amore del signor Chow, che era stato affidato, attraverso una fessura, a una parete erosa dal tempo nel tempio cambogiano di Angkor Vat. Il desiderio si rivela tanto più intenso quanto più è rinviato a una virtualità comunque destinata a decadere, e l’emozione, suscitata dalle sontuose rovine filmate, tanto più forte quanto più è scossa dall’esistenza “di un tempo senza oggetto che non è di nessuna storia” (ibidem, p. 47). È proprio questo che il regista sembra spesso voler dire trasformando l’incessante flusso del divenire narrativo, dissezionandolo, rielaborandolo secondo una scansione soggettiva, non arginandone il moto, ma dischiudendolo a più soluzioni, in una dimensione completamente alterata dall’arditezza delle ellissi. 
L’espressione dell’amore nei modi non convenzionali della narrazione e l’offuscata rivisitazione delle stanze del passato decostruiscono una vicenda che si sviluppa non nella spirale delle proprie estasi, ma attraverso arbitrari rimandi, sottratti alla logica del racconto. La frammentazione della spaziotemporalità, con salti, riprese, riverberi, attribuisce un più inquietante senso di incompiutezza alle emozioni e ai palpiti, che resteranno un’indefinibile rimembranza, in cui si placa, o si fa più profondo e senza voce, il tumulto della passione, soffocato dallo struggente rimpianto e dalla poetica nostalgia.

2046 è il nome di un luogo arcano ed è il titolo del romanzo di fantascienza scritto dal protagonista, ma è anche il numero di una camera d’albergo e l’anno in cui la città-stato semindipendente Hong Kong passerà definitivamente dalla sovranità britannica a quella cinese. Wong Kar-wai lascia dunque che gli avvenimenti della Storia si insinuino nel minimalismo delle vicissitudini ordinarie raccontate da un film pensato nel 1997- anno della restituzione di Hong Kong alla Cina-, che, interiorizzando quell’immutabilità promessa dal governo cinese per il cinquantennio a venire, la trasforma nel timore di dimenticare il vissuto sia individuale sia collettivo, misto all’attesa del cambiamento, che dovrà  fatalmente realizzarsi allo scadere del termine, il 2046. 
Lo scrittore pensa di aver raccontato il futuro attraverso il libro, ma, in realtà, rievocando i propri amori, narra un passato in cui far trovare dimora al proprio spaesamento affettivo. Nella sua storia, un treno mitologico attraversa città luminosissime, partendo di tanto in tanto per una destinazione misteriosa, 2046, mondo dell’avvenire in cui tutto rimane immutato, anche i ricordi perduti, e in cui l’identità vagabonda, attraverso l’anamnesi, la perdita dell’amnesia, il recupero della reminiscenza, ritrova se stessa nei tempi e negli spazi della memoria. 
Nella fantascientifica dimensione ventura, descritta come sarebbe stata immaginata negli anni Sessanta, le inquadrature incorniciano particolari frantumando la realtà o l’irrealtà rappresentata, fino alla dispersione di ogni punto di riferimento. I piani temporali slittano l’uno sull’altro, sovrapponendosi, e le identità si confondono, in particolare i volti dei personaggi femminili, accostati, infine, al viso della signora Chan, che resta protagonista anche nel sequel, rappresentata nella modalità dell’assenza e della memoria allucinata che ne ha lo scrittore. Nello spasimante desiderio dell’amata lontana si fa rivivere lo struggimento di un sentimento, oscillante tra l’estasi e il tormento, costruito su attimi di eternità, su un continuo morire e rinascere ad altro, ad ogni inaspettato incontro, ad ogni perdente tentativo di imporre l’immaginario all’esistente.
Wong Kar-wai costruisce una metafisica dell’assenza, non assolutizzando un unico aspetto della temporalità, ma rovesciando il presente da orizzonte della stabilità a incatturabile dimensione di velamento e sottrazione. Il protagonista ricomporrà quel che resta del perduto e finirà per imparare ad apprezzare il valore dell’effimero, annidato nelle torbide passioni destinate all’inevitabile agonia, tra i ricordi bagnati di lacrime e il racconto di un amore senza futuro nutrito per una seducente androide, deteriorabile reflex machine dalle emozioni differite, tentata ricreazione dell’intreccio tra istinto e ragione, tra eros e tanatos, anche lei, come gli umani che incontra, incapace di affrancarsi dalla propria tristissima programmazione. Con questa suggestiva metafora, che allude impietosamente alla transitorietà degli affetti, lo scrittore sembra però richiamare un tempo che più che logorare i ricordi e seppellirli li sminuzza, per poi costruire, con i loro frammenti, un nuovo, provvisorio percorso (cfr. Lévi-Strauss, p. 42) e una nuova, temporanea identità.
Come se fosse già avvertito il precipitare della fine, il tema dell’ossessione amorosa, con le sue pulsioni vissute segretamente, lanciata, come il treno del romanzo 2046, verso una notte insondabile e un avvenire nebuloso, evoca, nelle due opere, le rovine del tempo, o meglio, il tempo delle rovine, che ha perduto la storia o che la storia ha perduto, e che, forse, solo l’arte, salvando quanto vi è di più prezioso nelle opere del passato, talvolta riesce a ritrovare (cfr. Augé, pp. 135-139). Aleggia dunque un senso del tempo che è “coscienza della mancanza, espressione dell’assenza, puro desiderio” (ibidem, p. 100), e che proviene dal paesaggio delle rovine (cfr. ibidem, p. 97), così come è insistentemente rappresentato in entrambi i film, amalgama di natura e cultura, emerso nel presente come un segno di ciò che trascorre e insieme permane.
La contemplazione della fatiscenza offre allo spettatore la possibilità di fare non un viaggio nella storia, ma un’esperienza del tempo puro (cfr. ibidem, p. 36), un tempo non databile, lontano dai simulacri, dalle ricostruzioni e dall’interminabile produzione virtuale di oggetti, ideologie, segni, ideali, immagini, sogni, dispiegata nella simulazione indefinita (cfr. Baudrillard, pp. 9-10) che attualmente abitiamo. La coscienza che si ha della decadenza inquadrata dalla macchina da presa è quella di una lunghissima durata, che fa percepire, per contrasto, il carattere transeunte dei destini dei personaggi.  Contro l’arroganza del presente, il suo, il nostro, quello del signor Chow, il regista afferma la presenza ancora avvertibile di un passato smarrito e al contempo la possibilità di qualche istante, raro e fragile, sottratto alla prepotenza dell’hic et nunc, pensando alla vita con “l’irrealizzabile desiderio di ritrovare, di fermare o di inaugurare il tempo” (ibidem, pp. 67-68), e riconfermando che la narrazione, a differenza della ricostruzione storica, capace di spiegare il passato attraverso le conseguenze sortite, astrae da tutto quanto è realmente avvenuto e recupera nelle finzioni trascorse le molteplici potenzialità di cui è fatto l’attuale.
Il sogno, affiorato in In the Mood for Love, di una gioia probabile ha lasciato delineare i propri contorni dallo sguardo severo di una moralità convenzionale, tradizionalista e pettegola, riconfermando che l’arte della felicità, anche se cosa rancida, è pur sempre un’arte, un raffinato esercizio, che comporta delle scelte coraggiose. Lasciando esplodere la volontà di vivere, primordiale e irresistibile impulso all’azione, e non trasformando la virtualità dell’amore unicamente in ricordo, e dunque in rovina, sono proprio quelle scelte, infatti, a render viva l’esistenza. 
Dunque, quell’orologio ripetutamente inquadrato forse solo ingannevolmente voleva ricordarci che siamo creature di Kronos, il tempo che lascia scorrere il presente e conserva il passato, il tempo corporeo, delle azioni cioè che i corpi compiono, snodato sulla linea retta degli accadimenti successivi. In quanto capaci di assecondare ritmi inusitati e di solcare tragitti inediti, non necessariamente predefiniti, ci sentiamo infatti più abitanti di Aiôn, “popolato da effetti che lo frequentano senza mai riempirlo” (Deleuze, p. 147), il tempo del mero divenire, degli eventi in cui l’atto del compiersi non si completa mai fino in fondo, il tempo sempre già trascorso e perpetuamente ancora da venire, sul quale insistono e sussistono passato e futuro, che suddividono ad ogni istante il presente.
La coscienza della mancanza, nel finale di 2046, dischiuso al ricordo, ma anche all’attesa, sposta dunque il suo centro di gravità, e smette di agitarsi nel tempo ordinario, per non riguardare più un senso perduto, dissolto definitivamente nel passato, quanto un significato da dover ritrovare, fortemente presente in un non luogo dell’avvenire, il 2046 appunto, abitato dal rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere, ma anche dalla bellezza di ciò che esiste ancora, e soprattutto dal desiderio di ciò che un giorno, forse, ci sarà.

 


 

:: letture ::

Augé M., Le temps en ruines, 2003, trad. it. Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

Baudrillard J., La Trasparence du Mal, 1990, trad. it. La trasparenza del male, SugarCo, Milano, 1991.

Deleuze G., Logique du sens, 1969, trad. it. Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2005.

Lévi-Strauss C., Tristes tropiques, 1955, trad. it. Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano, 1982.


:: visioni ::

Wong Kar-wai, In the Mood for Love, 2000, Medusa Home Entertainment, 2008

Wong Kar-wai, 2046, 2004, Mondo Home Entertainment, 2005