Randall Collins è uno dei più importanti
sociologi contemporanei. Insegna Sociologia
nell’Università della Pennsylvania. Come
è proprio delle opere complesse e di elevata portata, quella
di Collins è difficile da sintetizzare in poche righe
introduttive. Il suo approccio tende a coniugare due
concezioni: l’idea che la società sia organizzata
intorno a conflitti tra i diversi gruppi sociali, in termini di
dominio, scontro o negoziazione; l’idea durkheimiana della
solidarietà morale come fondamento della coesione
all’interno dei singoli gruppi, in virtù del
rituale sociale che consente la partecipazione ad ideali e sentimenti
comuni. Anche ogni interazione individuale assume,
per Collins, la forma di un rituale, in cui giocano un ruolo
fondamentale le emozioni. Ogni individuo porta con sé il suo
capitale culturale (condiviso con il proprio gruppo sociale) e si
confronta con quello dell’interlocutore e del suo gruppo. La
società è come un’infinita catena
di rituali di interazione, attraverso cui si trasmettono le
idee, i simboli dei vari capitali culturali, secondo un meccanismo che
in genere tende a rinforzare il dominio delle classi superiori, sebbene
non siano esclusi ribaltamenti. La stratificazione sociale ha
per Collins una struttura multidimensionale, per cui la disuguaglianza
sociale è frutto tanto delle differenze di potere quanto
delle diverse reti culturali e sociali a cui si appartiene. In
Italia sono stati, tra gli altri, pubblicati: Sociologia (Conflict
Sociology. Toward an Explanatory Science, 1975),
Teorie sociologiche (Theoretical Sociology,
1988), Quattro tradizioni sociologiche (Four
Sociological Traditions, 1985), e di
recente L’intelligenza sociologica (Sociological
Insight. An Introduction to Non-Obvious Sociology, 1992).
Nel suo ultimo libro, Violence. A
Micro-sociological Theory del 2008 – non ancora
tradotto in italiano –, lei esamina in profondità
l’ampia gamma di situazioni di violenza fisica che possono
caratterizzare le nostre vite, dal semplice litigio alla violenza
domestica, dai combattimenti militari alla violenza che ha luogo nelle
manifestazioni sportive, dal terrorismo al teppismo. Il suo lavoro
cerca di andare oltre l’idea consolidata che le condizioni
sociali, culturali, ideologiche e razziali o le patologie individuali
siano la base principale della violenza. Lei sostiene che gli esseri
umani difficilmente agiscono in maniera violenta e che essi riescono ad
usare la violenza solo in virtù di specifiche condizioni che
aiutano a superare quelle barriere emotive che inibiscono naturalmente
i comportamenti violenti. Ci spiega meglio i punti salienti di questa
sua interessante “teoria compatta” della violenza,
ed il legame eventuale con l’idea che anche
l’interazione quotidiana assume toni sostanzialmente
ritualistici? Quasi tutte le teorie sulla violenza
sostengono che per essere violenti basta avere un motivo. Esistono
molti tipi di violenza, se si considera che la gente può
agire con violenza a causa della povertà, per onore, per
opporre resistenza, a causa di esperienze infantili, punti di vista
culturali, in virtù della mascolinità, ecc. Ma,
di fatto, quando studiamo da vicino le situazioni di violenza, di ogni
tipo, il modello generale che incontriamo ci indica invece che la
violenza non ha luogo. La maggior parte dei soldati non spara; la
maggior parte dei rivoltosi si tiene a distanza dal conflitto; la
maggior parte dei litigi non va oltre le grida. Inoltre, nei pochi casi
in cui si arriva alla violenza, la gente di solito non è
molto efficace e competente durante lo scontro. La maggior parte delle
pallottole sparate non raggiunge il bersaglio, oppure colpisce dei
bersagli sbagliati – questo è vero non solo per i
soldati, ma anche per la polizia o i criminali. La mia conclusione
è che gli esseri umani, quando si trovano a compiere atti di
violenza contro un’altra persona, si scontrano con una
barriera creata dal confronto fisico, fatta non solo di tensione ma
anche di paura. Questa barriera emotiva impedisce che ci sia effettiva
violenza, oppure porta a un atto violento davvero inefficace.
Ciò è dimostrato dal fatto che gli stessi
poliziotti o soldati colpiscono molto bene i bersagli durante
l'addestramento, ma poi mancano i bersagli, sparano più del
necessario e dimostrano altri segni di grande tensione emotiva
quando affrontano una vera situazione di violenza. Qual
è l'origine di questa barriera emotiva? Non si
può dire che essa faccia parte della cultura moderna, la
quale inibirebbe la violenza. Nei documentari antropologici
è possibile vedere che le persone si comportano allo stesso
modo in un combattimento tribale: alcuni uomini si staccano dalla
moltitudine di membri armati di una tribù e si lanciano
verso il nemico, scagliano una lancia – di solito senza
colpire il bersaglio – e si allontanano velocemente mentre
gli altri non fanno altro che gridare. Tuttavia, queste sono le stesse
persone che esprimono grande soddisfazione, supportata culturalmente,
quando uno dei nemici viene ucciso. La mia conclusione è che
la barriera di tensione creata dal confronto sia più
profonda, ed essa è il risultato di caratteristiche di base
dell’interazione reciproca tra gli esseri umani. Nel mio
libro precedente, Interaction Ritual Chains (2004),
dimostro attraverso dettagliate prove micro-sociologiche che quando le
persone sono fisicamente vicine e focalizzano la loro
attenzione sullo stesso oggetto, di solito tendono ad armonizzare
ritmicamente i propri gesti. Il ritmo del discorso e dei movimenti
corporali assumerà lo stesso andamento, la loro vicinanza
emotiva assumerà toni più forti. Saranno
coinvolti in ritmi emotivi e corporali condivisi vicendevolmente. Io lo
definisco come un modello di sincronizzazione centrato su un focus ed
emozioni condivise. È questa l’evoluzione di una
teoria – ora supportata da recenti prove micro-empiriche
– che fu formulata in origine da sociologi classici come
Émile Durkheim, con la sua teoria delle cerimonie religiose,
e Erving Goffman, con la sua teoria dei rituali della vita quotidiana.
I rituali dell’interazione che hanno successo producono
solidarietà sociale, e sono molto allettanti per gli
individui perché danno loro energie emotive –
fiducia, entusiasmo, sentimenti di forza. Possiamo dunque
vedere come le due forme di interazione – i rituali
dell’interazione che producono solidarietà e gli
scontri violenti – siano antitetici. Naturalmente,
le persone possono avere molti motivi per scontrarsi con altra
gente, e possono arrabbiarsi sul serio e voler usare violenza. Ma,
quando si confrontano da vicino con la controparte, seguono la tendenza
umana a sincronizzarsi con l'altra persona. Per questo esse provano
emozioni contraddittorie, e tendenze letteralmente contraddittorie
all’interno dei loro corpi. È appunto questo
auto-conflitto corporale che porta alla tensione. Siccome le persone
che si trovano a scontrarsi provano entrambe più o meno lo
stesso carico di tensione, quasi sempre esse evitano di lottare e
cercano di porre fine al conflitto molto presto. Se guardiamo i video
di simili risse – che ormai si trovano in Internet
– possiamo osservare come esse siano molto brevi, e le
persone dopo poco tempo trovano subito una scusa per porvi
fine. Quando si tratta di uno scontro armato, nella maggior parte dei
casi gli spari non colpiscono il bersaglio, anche quando si
è molto vicini. È la forte tensione che porta a
questo risultato. Affinché la violenza possa avere successo,
c’è bisogno che la situazione sia in grado di
offrire la possibilità di aggirare la barriera della
tensione creata dal confronto. Nel mio libro fornisco molteplici esempi
di scappatoie. La più importante tra queste sta nel trovare
una vittima debole – ovvero, nella specifica situazione
immediata, una vittima che sia emotivamente debole.
Lei afferma, anche in un suo articolo su
“Foreign Policy”, che gli attentatori suicidi,
appartenenti al terrorismo islamico, provengono dalla classe media che
socializza i suoi membri a condotte e disposizioni (come il
self-control, l’insospettabile morfologia fisica, ecc)
più idonee ad eseguire atti di violenza suicida. Ci
può spiegare meglio il rapporto tra questa forma di violenza
e la cultura della classe media? Le motivazioni di un attentatore
suicida sono sganciate dagli interessi di classe? Se sì,
fino a che punto? Uno dei modi più
insoliti per aggirare la barriera della tensione creata dal confronto
è quello di far finta che non ci sia il conflitto, fino
all'istante in cui la violenza si scatena. La maggior parte della
violenza inizia con gesti, minacce, voci di rabbia, oppure altri modi
per segnalare il pericolo. Di fatto, queste segnalazioni rappresentano
principalmente un tentativo per intimorire il nemico, per far
sì che egli eviti il conflitto. I kamikaze islamici seguono
un altro metodo. Fingono di essere cittadini normali in una situazione
abituale. Questo metodo è insolitamente efficace per
arrivare allo scopo finale, cioè quello della violenza, dal
momento che un kamikaze islamico arriva fino al bersaglio e non sbaglia
– contrariamente a quello che succede per altri tipi di
violenza. Perciò un kamikaze islamico è simile a
un killer professionista – un killer a pagamento, che usa la
stessa tecnica per non dare nell'occhio mantenendo uno stile di
clandestina normalità, fino a quando non riesce a puntare la
pistola alla testa della vittima posta a pochi centimetri di distanza. In
tal senso, l'approccio clandestino non è tanto una parte
intrinseca della cultura della classe media quanto una tecnica
sofisticata che fu inventata e si è diffusa attraverso le
reti sociali. Possiamo notare che il killer professionista usa una
tecnica simile, sebbene non appartenga alla classe media; ma lui fa
molto meglio il suo lavoro, a differenza del solito guappo della classe
operaia, il quale si distingue per il suo atteggiamento che
è minaccioso ma non molto efficace, dal momento che riesce
solo ad impaurire gli altri. Una volta che i gruppi politici hanno
compreso una simile tecnica, essi hanno capito che le persone della
classe media sono le migliori per portare a termine tali atti di
violenza, e più sono persone rispettate meglio è.
Ecco perché le donne sono apprezzate come kamikaze. Qui non
si tratta di interessi di classe, ma solo di stili
di interazione di classe. La maggior parte delle persone
della classe media non è ideologicamente favorevole
ai kamikaze, così come non lo è per gli altri
tipi di violenza (eccezion fatta forse per i film che allestiscono una
rappresentazione fantasiosa della violenza). I movimenti ideologici non
sono strettamente collegati agli interessi di classe, e i movimenti
più efficaci – per esempio i
militanti islamici – riescono facilmente a reclutare
persone in ogni classe sociale.
James G. Ballard, lo scrittore di science fiction,
spesso nei suoi romanzi (High-rise, Millennium
People, Cocaine Nights) ha
costruito scenari in cui all’interno di contesti protetti o
garantiti, tipici delle classi medio-alte, si producono situazioni che
portano allo scatenarsi della violenza – come sfogo per le
tensioni che si producono in gruppi chiusi, routinari, compressi.
Ritiene che i suoi lavori abbiano una dimensione sociologica che va
oltre le necessità della narrativa? Non
ho mai letto James Ballard. Ma sembra un modo altamente irreale di
raffigurare la violenza. Questo non è un approccio insolito.
Quando si ricorre a questi metodi irreali per rappresentare la violenza
– e soprattutto la violenza che vediamo nei film o in TV
– il risultato è poco credibile. Non riesco
più a seguire i film violenti – mi sembrano
ridicoli.
La teoria del rituale dell’interazione ci
consente di esaminare i meccanismi attraverso cui si produce
solidarietà tra i membri di un gruppo. Questo modello
teorico come caratterizza, in termini di esperienza rituale, i gruppi
terroristici legati all’Islam? Come ho
spiegato prima, i rituali dell’interazione hanno luogo in
ogni aspetto della vita quotidiana. Ma questi rituali variano molto per
intensità. Alcuni di essi – e Goffman li ha
studiati molto approfonditamente – sono molto brevi, solo
occasioni minori di sincronizzazione. Alcuni rituali
dell’interazione non hanno successo, e producono un rifiuto
da parte dei partecipanti. Alcune interazioni si fanno
perché si devono fare, e la gente partecipa
all’attività condivisa ma, dal punto di vista
della partecipazione emotiva, non si armonizza o si sente costretta e a
disagio. Invece, altri rituali sono prolungati, e raggiungono alti
livelli di armonia emotiva. Questi rituali producono sentimenti molto
forti di solidarietà. In più, sono questi tipi di
rituali che creano e riproducono forti credenze culturali. Se un gruppo
può isolarsi e portare avanti rituali che si ripetono e che
producono emozioni forti, i partecipanti si sentiranno pieni di
energia, e si sentiranno anche moralmente molto corretti. I gruppi
ideologici di maggior successo sono quei gruppi che praticano questi
tipi di tecniche rituali.
C’è una similitudine (in termini
di simboli, intensità, densità, ecc.),
all’interno di un ipotetico conflitto tra Oriente e
Occidente, tra i rituali di solidarietà dei gruppi che
parteciperebbero a tale conflitto e che in virtù di esso si
cementano? Gli stessi concetti, forse artificiosi, di
“Oriente” e “Occidente” possono
essere considerati veri e propri simboli intorno ai quali si crea un
sentimento emozionale comune tra i membri dei gruppi, orientandone una
eventuale mobilitazione? Sì, possiamo
dire che qualsiasi gruppo fortemente mobilitato è simile,
per quanto riguarda il livello di base delle tecniche sociali che usa.
È importante ricordare che i contenuti delle credenze di un
gruppo sono supportati dall'intensità emotiva dei
suoi rituali. I contenuti delle credenze diventano ciò che
Durkheim ha chiamato un "oggetto sacro", un simbolo collettivo che
rappresenta l’appartenenza al gruppo. Ecco perché
gruppi altamente mobilitati, anche se sono simili per quanto
riguarda la struttura e le regole, sono comunque molto diversi tra di
loro – hanno diversi simboli collettivi, considerano sacri
oggetti diversi. Qualche volta gli oggetti sacri vengono costruiti per
essere completamente antitetici tra di loro. Ognuno d’essi
diventa un "oggetto sacro e negativo" per un altro d’essi,
come Dio e il Diavolo. Per alcune persone, l’Est e
l’Ovest diventano tipi simili di simboli opposti, di
dicotomia conflittuale.
Lei sostiene che esista una sorta di
necessità sociale del crimine, dal momento che “il
crimine e le sue punizioni sono una parte fondamentale dei rituali che
sostengono ogni struttura sociale”, che il crimine
è utile per affermare le norme e le credenze sociali, vale a
dire le norme e gli ideali che legittimano la gerarchia sociale ed il
potere dei gruppi dominanti. Ci può spiegare il suo pensiero
in maniera più dettagliata? E quale può essere,
secondo lei, il ruolo svolto dai prodotti narrativi (film, romanzi,
ecc.) in questa sorta di “processo ideologico”? Veramente
qui ci si riferisce alla teoria classica di Durkheim sul crimine. Egli
sosteneva che la punizione dei criminali è un rituale. Di
solito aiuta poco a controllare i delinquenti o a limitare i crimini,
ma i cittadini normali si sentono molto soddisfatti quando sanno di
queste punizioni, e si sentono moralmente scandalizzati quando un
criminale non è punito. La ricerca criminologica sulle forme
di punizione è vasta, e naturalmente sono venute alla luce
diverse complessità. Ma, secondo me, si può dire
che c'è un forte elemento ritualistico nelle punizioni.
Inoltre, Durkheim parla della necessità sociale del
crimine, nel senso che la società inventa sempre nuovi
crimini, perché ha bisogno di compiere questi riti
punitivi. La società vuole sempre qualcuno da
punire. È possibile scorgere tutto ciò nei vari
tipi di divieti criminali – prima l'alcool, ora la droga, e
sempre di più il tabacco; e in qualche caso, anche scandali
di sesso che coinvolgono politici e prostitute negli Usa. Naturalmente,
i diversi paesi sono differenti in tal senso, perché hanno
diverse storie di repressione o liberalizzazione. Che
c'entra la finzione in tutto questo? Tale questione
non è stata studiata molto. La mia idea
è che la finzione non sia tanto
un’esperienza vicaria quanto una cornice sociale che
rappresenta una realtà a cui i fruitori partecipano pur
sapendo che non fa parte della vita quotidiana. L'esistenza stessa del
televisore, lo schermo al cinema e le pagine fisiche di un libro
rappresentano una diversa cornice esperienziale, che distingue i suoi
contenuti da quello che ci succede nella vita quotidiana.
Così i crimini e la punizione (o la mancanza di punizione,
il farla franca, ecc.) vengono rappresentati principalmente attraverso
un’azione drammatica all'interno di una cornice
irreale. Per rendere interessante la finzione, c’è
bisogno di tensione narrativa, di azioni drammatizzate, e i conflitti
rappresentano la forma d’azione più drammatica. Ad
un basso livello culturale, si tratta solo di azione fisica e di
violenza – come ho già detto, molto inaccurata se
la paragoniamo alla violenza reale. D'altro canto la violenza vera non
è divertente se la osserviamo per come essa è
effettivamente. Ad un livello culturale più elevato, il
dramma si sposta verso conflitti di tipo più emozionale.
È importante notare come le differenze tra le classi sociali
siano legate al livello di finezza o sofisticazione del tipo di
tensione drammatica che esse vogliono consumare.
Uno dei punti centrali della sua teoria è
l’idea del rituale come fondamento della
solidarietà e della compattezza dei differenti gruppi
sociali. Lo schema formale del rituale prevede che un gruppo di persone
condivida lo stesso luogo fisico (una chiesa, un convegno politico,
ecc.), un focus d’attenzione, un’energia emotiva
armonica e degli oggetti o dei simboli. Ogni individuo si carica
dell’energia e dei simboli d’appartenenza che poi
porta con sé nella sua quotidianità. Come si
concilia la centralità del rituale sociale, che prevede nel
suo modello formale l’importanza della riunione fisica, con
il fatto che una buona parte delle nostre esperienze sia oggi mediata
dai mezzi di comunicazione (TV, Internet, ecc.) che creano forme
particolari di condivisione di esperienze e partecipazione collettiva
anche se si è fisicamente distanti o disgiunti?
L’impatto dei media, creando nuove situazioni sociali,
può modificare la definizione dei gruppi o fornisce solo
esperienze sussidiarie? E che ruolo può giocare, secondo
lei, la diversa proprietà dei mezzi di produzione simbolica
rispetto ai vari media, come la Tv o Internet, anche nella definizione
del potere e della stratificazione? Questo aspetto
della mia teoria è stato ultimamente discusso molto da vari
studiosi. Stiamo vivendo una rivoluzione tecnica che rende le
esperienze mediali e riesce ad allontanarci dal contatto fisico
diretto. Richard Ling ha appena pubblicato un libro intitolato Mediated
Ritual Experience, dove espone la sua ricerca sui giovani e
su come essi usano i telefonini. Ling sostiene che la
solidarietà rituale è possibile attraverso questi
mezzi di comunicazione, sebbene questi giovani vogliano incontrarsi
anche faccia a faccia, e usino i telefonini soprattutto per fissare
appuntamenti. Perciò, i mezzi di comunicazione e l'incontro
faccia a faccia tendono a formare una catena, e si aiutano a vicenda
nella sua realizzazione. Questa ricerca tende anche a
dimostrare che questi rituali mediati sono meno intensi degli
incontri faccia a faccia; è una questione di grado, non una
differenza assoluta. In un altro libro che ho scritto, The
Sociology of Philosophies (1998), ho dimostrato che
importanti intellettuali, in tutte le epoche, sono stati legati molto
intensamente tra di loro attraverso reti sociali. E queste reti sociali
sono sempre uguali, dai tempi antichi quando tali intellettuali
dibattevano tra di loro, fino allo sviluppo dei libri e della stampa.
La mia conclusione è che, pur con l'avvento di Internet, gli
intellettuali che hanno contatti tra loro solo attraverso Internet sono
svantaggiati in confronto a quelli che hanno contatti faccia a faccia.
L'interazione personale è un modo molto più forte
per convogliare un’emozione, e ciò
influisce sul modo di interiorizzare le idee, dal momento che le idee
viaggiano con più forza quando sono accompagnate dalle
emozioni. Insegnanti famosi continueranno ad avere allievi famosi che
apprenderanno da loro ascoltandoli di persona, anche se molta altra
gente può scovare le loro idee su Internet.
Nei suoi studi su genere e stratificazione sociale
lei sembra sostenere l’idea secondo cui quanto più
una donna riesce a rivendicare con successo la parità
sessuale nel mercato del lavoro, tanto più
otterrà una condizione di effettiva uguaglianza in famiglia.
La eguale partecipazione di uomini e donne al sistema produttivo
è l’unica variabile che incide sui rapporti di
potere interni alla coppia? Il suo modello del rituale può
essere utile per comprendere l’emergere di una coscienza
femminista? E che ruolo possono aver avuto le tecnologie, ad esempio
gli elettrodomestici che hanno affrancato la donna da parte del lavoro
domestico o la televisione che ha consentito la partecipazione della
donna a culture ed identità in genere esclusivamente
maschili? Sì, ci sono molteplici fattori
all’opera in questo caso. L’effetto più
importante del fatto che le donne trovano occupazioni ben retribuite
all’interno della forza lavoro è che, in confronto
alle condizioni del passato, molte donne oggi non dipendono
economicamente da un uomo – marito o padre – e
quindi sono libere dalle catene delle mura domestiche. Così
si sono liberate anche dei rituali domestici, che tendevano ad avere un
effetto ideologico sul modo di pensare delle donne – era
tradizionalmente questa la principale identità ritualistica
che legava le donne alle loro famiglie, al loro stato sociale
e alla loro religione. La mobilitazione di giovani donne per compiere i
propri rituali al di fuori della famiglia (spesso in ambienti
educativi, oppure nei contesti degli incontri del loro movimento
sociale) era al centro delle ondate di femminismo nel ventesimo secolo.
Per quanto riguarda la tecnologia, le attrezzature domestiche hanno
portato ad un risultato ambiguo, dal momento che grazie a queste
attrezzature aumentarono gli standard del lavoro femminile utili a
rendere socialmente rispettabili le condizioni della casa, e
ciò significò in molti casi un aumento dei lavori
domestici nella metà del secolo scorso –
soprattutto negli anni Cinquanta. Gli effetti di una nuova
tecnologia sono sempre subordinati alle interazioni sociali.
Noto che oggigiorno i giovani più emancipati –
almeno negli Usa – tendono a rifiutare l'idea di una casa
graziosa; c'è la tecnologia per rendere la casa pulita e in
ordine, ma l'ideale culturale va nella direzione opposta. È
una specie di antinomia culturale contro l'aspetto tradizionale della
casa.
In Italia, come verosimilmente negli Usa,
è sempre molto attuale la polemica sull’aborto.
Nel suo libro Sociological Insight, da poco uscito
in Italia con il titolo L’intelligenza sociologica,
lei fornisce una interessante analisi del movimento antiabortista,
delle caratteristiche rituali e simboliche di questo gruppo, della sua
esigenza di riconquistare potere in quanto élite in
difficoltà, del suo antimodernismo, ecc. Ci può
fornire un’illustrazione sintetica delle sue profonde
intuizioni in merito? Il movimento antiabortista
sembra aver ormai abbandonato il suo picco massimo negli Usa. Ha avuto
un forte impatto simbolico perché ha rappresentato la difesa
della famiglia e della sua moralità tradizionale; dall'altro
lato c'è stata la "scelta", che è diventata lo
slogan del movimento femminile, il quale ha raggiunto il suo successo
mobilitando le donne contro il tradizionale ambiente domestico. La
scelta nell’ambito del comportamento sessuale non vuol dire
solo la possibilità di decidere di abortire, ma anche, nel
più ampio contesto simbolico e pratico, che la donna
può scegliere come gestire la propria vita
sessuale. Ciò implica che le donne possono fare
ciò che prima solo gli uomini potevano fare, cioè
avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio e a prescindere
dalla volontà di avere un figlio. Questa battaglia
è già stata ampiamente vinta negli Usa, e il
movimento antiabortista è una specie di retroguardia del
tradizionalismo. Oggigiorno il fronte della battaglia si è
spostato verso altre dispute simboliche, per esempio il matrimonio tra
gay. Da una prospettiva durkheimiana, come ho detto
prima, le controversie non finiscono qui. I conflitti rituali
di natura simbolica continueranno a vivere, probabilmente fino alla
fine dell'umanità.
Traduzione dall’inglese
di John Crockett
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