Il futuro fossile sepolto a Chernobyl

 

di Roberto Paura

 

Quando l’umanità è entrata nell’anno 2000, la fantascienza ha perso la sua scommessa con la Storia. Il futuro, simbolicamente rappresentato da quella data fatidica, è diventato prima presente e poi passato. Come scriveva Jean Baudrillard già alla fine degli anni Settanta,[1] la realtà è diventata capace di superare la speculazione e la fantascienza non riesce più a stare al passo. La corrente della New Wave che si è affermata a partire dagli anni Sessanta (per poi evolversi in altri filoni) è stata la prima risposta della fantascienza a tale rischio. Gli storici della narrativa di genere ritengono che è più o meno allora che la science fiction è passata dal modernismo al postmodernismo, abbandonando le vecchie formule sia di tipo speculativo che di tipo narrativo ed adottando nuovi approcci in linea con una realtà che stava superando le sue stesse aspettative.[2]

Riprendendo Baudrillard e la sua celebre classificazione dei simulacri, è allora che la fantascienza passa dai productive simulacra incarnati nelle macchine, basati su “energia e forza”, sul mito prometeico del controllo della natura da parte dell’uomo, ai simulation simulacra dell’iperrealtà, del cibernetico, dell’immateriale.[3] È allora che alle grandi astronavi viste come protesi artificiali di un uomo lanciato verso le stelle si sostituisce il cyberspazio visto come mondo costruito dall’uomo all’interno del quale l’uomo perde e ritrova la propria anima. La fantascienza postmoderna può oggi guardare al passato, ritrovando se stessa nell’immaginario che ha prodotto nel tempo e che può essere esemplificato in due grandi figure: quella a lungo agognata, poi raggiunta e infine dimenticata della nave spaziale, e quella a lungo temuta e infine realizzatasi del disastro nucleare.

L’astronave: il paradiso in cielo.

La filosofa Hannah Arendt apriva la sua opera fondamentale, Vita Activa, con una riflessione sull’impatto che ebbe il lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik, sull’opinione pubblica mondiale: “La reazione immediata, espressa sotto l’impulso del momento, fu di sollievo per ‘il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre’”, e a tale riguardo la pensatrice si chiedeva: “Sarebbe questo l’esito dell’emancipazione e della secolarizzazione dell’età moderna...: il ripudio sempre più fatidico di una Terra che era la Madre di tutte le creature viventi sotto il cielo?”[4]

Nel desiderio pressante dell’umanità di abbandonare la “prigione terrestre”, la Arendt individuava un effetto collaterale della modernità che in realtà è già la premessa della postmodernità. I moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, infatti, e soprattutto il trionfo della globalizzazione attraverso la creazione del villaggio globale, limitando sempre di più i confini percepiti del nostro mondo, portano la specie umana al desiderio di evasione non solo virtuale ma fisica. La Terra non è più abbastanza grande per tutti, le guerre mondiali – che, va ricordato, sono per la Arendt l’esito disastroso della corruzione ideologica modernista – hanno dimostrato che nessuno, in nessuna parte del globo, è più al sicuro. La paura della Guerra Fredda porta a un’esasperazione di tutto ciò e non è un caso se lo Sputnik è lanciato nel 1957, quando il rischio di un olocausto nucleare che avrebbe estinto la razza umana ovunque si trovasse era bene avvertito da tutti. L’era spaziale cominciava proprio nel 1957 (quest’anno se ne festeggia il cinquantenario) e stimolò le speranze umane che vedevano nello spazio sconfinato la possibile via di salvezza ai disastri imminenti.

Quindi, l’astronave andrebbe vista come simbolo della postmodernità intesa come desiderio di fuga dalla realtà moderna? Non necessariamente. L’astronave va piuttosto analizzata, come concetto dell’immaginario collettivo, attraverso una doppia lettura chiaramente contraddittoria. Essa nasce come il simbolo più alto del sogno modernista di una scienza liberatoria, lo stesso sogno che – continua poi la Arendt nella sua opera – si può rintracciare nel desiderio della genetica e della bioingegneria di prolungare la vita e perfezionare l’essere umano.

Eppure, è proprio qui il confine ambiguo tra i concetti di modernità e postmodernità: come sintetizza il sociologo Alberto Martinelli, “dalla iperrazionalizzazione emerge la de-razionalizzazione”, col risultato che la società postmoderna “modifica anche lo statuto della scienza e della tecnologia”, in quanto perde credibilità “il grande disegno della razionalità scientifica di controllare la natura”[5].

 

[1] J. Baudrillard, Simulacri e fantascienza, in La fantascienza e la critica. Testi del convegno internazionale di Palermo, Feltrinelli, 1980.

[2] La periodizzazione canonica è: anni ’30-‘50, realismo; anni ’60-‘70, postmodernismo; anni ’80-oggi, fantascienza contemporanea. Cfr. R. Luckhurst, Border Policing: Postmodernism and Science Fiction in “Science Fiction Studies” n. 55 Novembre 1991.

[3] J. Baudrillard, op. cit.

[4] H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, 2005, pp. 1-2.

[5] A. Martinelli, La modernizzazione, Laterza, 2004, pp. 118-120.

    (1) [2] [3]