E lucean le stelle

 

Mezzo secolo fa, alle 19 e 12 del 4 ottobre 1957, dal cosmodromo di Bajkonur situato nell’odierno Kazakistan, venne lanciato il primo satellite artificiale terrestre: lo Sputnik, due semisfere metalliche saldate fra loro e sigillate ermeticamente. Vi erano collegate quattro antenne: due lunghe 2,39 metri e due 2,90 metri. Nell'interno era sistemato l'equipaggiamento scientifico, due radiotrasmettitori della potenza di un Watt, funzionanti su due frequenze diverse, che emettevano entrambi segnali della durata di 0,3 secondi, separati da pause della stessa durata. L'analisi dei radiosegnali permetteva di studiare la densità della ionosfera (lo strato più alto dell'atmosfera). Accadeva cinquant’anni fa ed è un anniversario importante poiché, in realtà, a bordo dello Sputnik c’era molto di più di quel proto-laboratorio. C’era la guerra fredda, va bene, ma quella poi si è staccata come uno stadio del razzo e si è consegnata alla storia. C’erano i sogni di sempre, legati al viaggio nello spazio, sogni cui la fantascienza aveva dato la forma più compiuta e, soprattutto, dentro lo Sputnik c’era la più riuscita equivalenza tra scienza, tecnologia e progresso mai espressa prima da un manufatto umano.

Quella piccola sfera orbitante conteneva innumerevoli carrelli della spesa, ricolmi di prodotti d’ogni genere, gadget, elettrodomestici mirabolanti, merci spettacolari, lusinghe e seduzioni, ritrovati della medicina, toccasana in grado di debellare malattie millenarie, un riassunto di quanto covato nella prima metà del Novecento e che era ormai pronto ad invadere il pianeta. Conteneva la musica che aveva iniziato a cantare le lodi, le meraviglie del futuro, la space age pop music, con quei suoi toni leggeri, perché grazie all’hi-tech tutta la storia iniziava a viaggiare comoda. Nulla dello smarrimento nietzschiano, dei tormenti prometeici dell’uomo fluttuante nel freddo universo, si ritrovava a bordo dello Sputnik. Ecco, quel tipo di Gaia Scienza, non vi trovò alloggio. Al suo posto, in nuce, quella tecnologia che adulta sarebbe diventata easy e friendly, ma che allora era genericamente il futuro, il vero contenuto di quella piccola sfera orbitante, il futuro come sogno collettivo e non come vita individuale oltremondana.

Si dirà, “ma l’Urss si fondava su un’economia di guerra, ben distante dalla sorgente e rigogliosa civiltà dei consumi occidentali.” Vero, ma i simboli sono tali proprio perché esulano dalla loro natura originaria e se lo Sputnik venne partorito come sfida al capitalismo, nei paesi capitalistici andò a titillare proprio quel sense of wonder a lungo allevato dagli scrittori di science fiction. La risposta Usa e l’inizio del ping pong tra navicelle e razzi elevò tutto a potenza, compreso l’incubo della catastrofe nucleare. In ogni caso, da qualsiasi punto della Terra lo si osservasse, di qua o di là della barricata, sempre appariva segno di un sorgente, luminoso domani.

Raggiunta l'orbita stabilita, lo Sputnik cominciò a ruotare attorno alla Terra emettendo segnali radio che vennero ricevuti da centri di ricerca e radioamatori di tutto il mondo fino a quando le batterie non smisero di funzionare, il 26 ottobre 1957.

Il 4 gennaio 1958 lasciò la sua orbita e bruciò nell'impatto nell'atmosfera, dopo aver percorso circa 60 milioni di chilometri. Da allora ad oggi sono 10.000 i detriti spaziali orbitanti intorno alla Terra considerati “rilevabili”, ovvero quelli con almeno 10 cm di larghezza.

Reperti, schegge di ciò che verrà, nel più grande museo creato dall’uomo, di cui si tiene già un puntiglioso inventario.

Resta da calcolare quanto impiegò esattamente quel simbolo, lo Sputnik, a bruciare nell’impatto con le tecnologie di massa, con le crisi strutturali del capitale, con la rovina dell’ambiente…

E a trasformarsi in rimpianto, in nostalgia del futuro.