Canterbury è la classica
“isola che non c’è”. Un movimento musicale che ha
attraversato dalla fine degli anni Sessanta il panorama rock e
jazz inglese e che continua a sopravvivere grazie all’operosità
degli antichi maestri e dei loro seguaci, più o meno degni,
certo, ma che sfugge a classificazioni di genere. Anche
l’etichetta “scuola di Canterbury” è una semplificazione
giornalistica, come premette giustamente l’autore, ma necessaria
per tenere insieme un albero di famiglia fitto di nomi e gruppi
che hanno come comune denominatore estetico, oltre ovviamente a
quelli biografici e comunitari, la fusione di stili diversi e
l’abilità di condire con inusitata abilità complessità,
lirismo, improvvisazione e una buona dose di ironia e humour.
Senza contare l’uso della voce in modo eterodosso, il ricorso a
tempi alternativi o inusitati per la musica rock e
“accorgimenti” timbrici, quali l’applicazione del distorsore
all’organo e al basso.
Nel libro si descrive la genesi
del movimento, il seme lo getta il gruppo-embrione dei Wilde
Flowers, attivi a Canterbury a metà degli anni Sessanta, e si
tratteggia il profilo dei suoi figli prediletti, Soft Machine,
Caravan, Hatfield and the North, Matching Mole e Robert Wyatt,
National Health e Gong insieme ad epigoni, paracanterburiani e
tricche ballacche… spingendosi fino ai primi Ottanta.
Si tratta di un buon esercizio di
topografia canterburiana e certamente si pone a un livello ben
superiore a quelli medi di certa pubblicistica rock italiana (come
d’altronde altri titoli della collana).
Non mancano tuttavia alcuni buchi
neri. Deboluccia la motivazione che porta ad escludere gli Henry
Cow (perché allora ci sono Keith Tippett e Lol Coxhill?) e
relativa genealogia. Misterioso anche lo scarso peso dato a tutto
il movimento del jazz inglese della fine degli anni Sessanta. Si
dedicano più righe ai “regressive” Camel che ai Delivery,
laboratorio “proto Hatfield” dove incrociano alcuni dei più
nobili esponenti della scena, come testimoniano alcuni nastri
pubblicati di recente con la ristampa dei due lavori su Caroline
del duo Lol Coxhill-Steve Miller (vedi Quaderni d’Altri Tempi
n.9). Lo stesso discorso vale per alcuni materiali live di Soft
Machine e Hatfield and the North ristampati da etichette
canterburiane o dagli stessi musicisti (es. “Hatwise Choice” e
“Hattitude” per gli Hatfield), che se non ignorati avrebbero
permesso un’analisi più originale e approfondita della loro
evoluzione artistica.
Ad esempio, non si prendono
minimamente in considerazione le diverse (e importanti)
registrazioni alla BBC dei Soft Machine, citando solo quelle
incomplete apparse sulla raccolta “Triple Echo”. Questo scarso
uso di fonti originali è forse la ragione di osservazioni
stereotipate quali il solito riferimento a Miles Davis parlando di
“Third” dei Soft Machine.
Non si può tacere, poi, sul numero eccessivo di
refusi, sviste e confusioni varie. Giusto per capirci:
“scapola” per “costola” (p. 75); Phillips
(casa discografica, cioè la Philips) (p. 88); “lo scrittore
underground parigino Dashiell” (e il cognome Hedayat?) (p. 88);
“noto per i suoi decorsi
negli This Heat” (che
oltre tutto erano di là da venire) (p. 88);
“autosfagellazione” (p. 91); “Bifore” (pp. 91-2);
“Oscure di Brian Eno”, cioè la Obscure (p. 100);
“Pyp Pile”, ovvero Pip Pyle (p. 109).
Confusioni e imprecisioni. L’Ufo, ad esempio, non era una
ex sala da ballo: continuava a esserlo e solamente una volta la
settimana si chiamava Ufo con quel che ne conseguiva riguardo alla
musica. E John Hopkins non era il “proprietario” ma
l’organizzatore – assieme a Joe Boyd – delle serate. Quanto
alle “lamentele del vicinato”, l'Ufo non si
trasferì alla Roundhouse per questo motivo, ma perché il
proprietario della sala da ballo fu messo alle strette dalla
polizia (che minacciò un'irruzione e il possibile ritiro della
licenza se l'Ufo avesse aperto quel fine settimana) dopo che un
giornale aveva pubblicato in prima pagina una foto sgranata e
sfocata di una ragazza a seno nudo, strillando che la ragazza
aveva quindici anni e che la foto era stata scattata nel tempio di
perdizione hippie noto come Ufo. (ancora sulle fonti,
White
Bicycles: Making Music in the 1960s di Boyd è una gran bella
miniera di informazioni, ma qui è curiosamente ignorata).
Infine, il
fatto di scegliere il 1981, anno di delimitazione del periodo
d’oro di Canterbury, è senz’altro legittimo. È l’anno
dell’uscita di It’s My Party, “raffinata pop-song dall’immancabile sapore
eighties” confezionata dal duo Dave Stewart-Barbara Gaskin: una
cover di un hit degli anni Sessanta (di Riener-Gold-Gluck junior)
che scala le classifiche inglesi arrivando addirittura al primo
posto. Un evento che ha dell’incredibile per dei canterburiani
doc, gente da sempre refrattaria allo show business e forse la
spia, fa intendere l’autore, di un cambiamento o della chiusura
di un’epoca. Mah, forse. Oggi, però, possiamo dirlo: quel
successo fu solo un incidente di percorso. Stewart, Gaskin, Miller,
Wyatt, Hopper e compagni hanno nel frattempo tirato dritto per la
loro strada. Con buona pace di chi cerca di archiviarli a tutti
costi.
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