Gli articoli che Alberto Abruzzese scrive per il settimanale Rinascita tra il 1975 e il 1980, ora raccolti in Il dispositivo segreto, rappresentano un importante strumento per due ragioni fondamentali, una storica e l’altra sociologica.
La ragione storica è legata alla possibilità di riguardare a un periodo in cui la scena italiana sta cambiando velocemente sotto l’influenza e la pervasività delle forme mediali di massa: l’obliquo sguardo di Abruzzese, lontano dalla critica teatrale dell’epoca, permette di guardare a tale cambiamento con gli occhi ibridanti della mediologia.
La ragione sociologica è legata invece alla centralità che nel discorso abruzzesiano assumono, da un lato, la natura mediale del teatro e, dall’altro, la figura dello spettatore. Scrive Abruzzese:
“Da un lato, quindi, si potrebbe dire che il teatro si trova a vivere, proprio in questi anni per quel che riguarda l’Italia, la sua rivoluzione industriale – alla luce di questa rivoluzione, relativa alla tecnologizzazione dei suoi linguaggi, va visto il discorso sulle avanguardie – e si trova nella necessità di conquistarsi un più avanzato campo semantico; dall’altro lato si può affermare che sul piano generale dello spettacolo di massa siamo giunti all’avvento dell’attore come forma generale, emblematica insomma, della creatività”.
Il teatro inteso come medium è forse l’innovazione teorica più importante che percorre il corpus di questi scritti; tale idea si radica sull’assunto che il teatro non possa essere più pensato benjaminianamente agli antipodi dei linguaggi legati alla riproduzione tecnica delle immagini, ma anzi vada studiato proprio a partire dalla relazione che intrattiene con le altre forme mediali, in particolare con quelle legate al consumo di massa.
A questo proposito Abruzzese chiarisce che “un discorso sul teatro oggi non può essere concepito all’esterno di un discorso sull’industria culturale tecnologicamente avanzata”. Questo significa che il teatro, nel discorso abruzzesiano, è visto come un modello nel quale confluiscono frammenti di informazione e comunicazione provenienti da altre forme mediali e a tale struttura esso si deve adeguare in quanto la relazione tra sensibilità, percezione e nuove forme di consumo cambia i modelli di fruizione dello spettatore.
L’idea centrale delle cronache teatrali, così come Alfonso Amendola e Vincenzo Del Gaudio, i curatori del volume, definiscono il corpus di scritti, è quella di pensare ad uno modello in cui lo spettatore è produttore a tutti gli effetti dello spettacolo e tale produzione avviene a partire dalla sensibilità assunta grazie alla fruizione di cinema e televisione.
Una scena da Romeo e Giulietta (1976), diretto, curato e interpretato da Carmelo Bene.
In altri termini, come proprio i due curatori scrivono nella Premessa al volume, “l’occhio dello spettatore teatrale ha un complesso retroterra televisivo e cinematografico grazie al quale è sempre inserito in una rete di significati che potremmo definire intermediali”. Insomma Abruzzese sembra intuire la necessità di pensare ad una drammaturgia intermediale, che è al centro del dibattito contemporaneo sul teatro. Tale necessità impone di pensare il teatro come ad una forma mediale a tutti gli effetti, che dialoga con gli altri linguaggi della comunicazione, di cui anzi il teatro, per Abruzzese, sembra essere il presupposto. In questo senso, il titolo del testo, Il dispositivo segreto, rinvia ad una concezione del teatro come a dispositivo che si occulta, che viene spesso ignorato dagli studi legati alla sociologia dei media e alla mediologia, ma che agisce in forma latente per la costituzione del mediascape.
Nei quasi cento articoli che rappresentano il corpus delle cronache, tanti sono i temi che vengono trattati: dal rapporto tra teatro e televisione, tra teatro e cinema, tra il teatro come forma spettacolare e le politiche culturali che ne determinano la regolazione interna.
In queste pagine, Abruzzese ragiona a partire dalla possibilità di ricostruire un discorso sul teatro, non pensandolo come forma arcaica ed isolata, ma mettendolo continuamente in relazione con le forme sociali del proprio tempo.
“Il teatro è, infatti, uno dei luoghi in cui maggiormente l’evento culturale rivela la sua natura di classe, in cui le formule interclassiste, entro le quali il pubblico tradizionalmente si risolve, non trovano le vaste soluzioni cibernetiche del linguaggio cinematografico, e si irrigidiscono ancora nei limiti dei diversi livelli artigianali”.
Insomma l’impostazione delle cronache ci sembra seguire idealmente i principi di sociologia del teatro che da Georges Gurvitch a Jean Duvignaud provano a ricostruire il rapporto tra realtà sociale e forme spettacolari legate alla scena. In questa chiave, Gurvitch, in Sociologia del teatro, sintetizza così la relazione tra socialità e spettatorialità teatrale: “il teatro è insieme una sorta di scappatoia delle lotte sociali e una incarnazione di tali lotte […] il teatro è superamento della vita sociale e ne è anche lo scadimento; ma il superamento e lo scadimento sono tali che il teatro, comunque, resta interamente integrato nel collettivo che lo ha espresso”.
All’interno delle cronache vengono maggiormente apprezzati quindi quegli autori che riescono a pensare al teatro esattamente all’interno dei ragionamenti legati alla comunicazione contemporanea. Carmelo Bene ne è l’esempio paradigmatico, in quanto Abruzzese nell’attore pugliese vede l’esatto esempio di come si possa lavorare sul teatro lasciandolo interagire sia dal punto di vista del contenuto che dal punto di vista produttivo con le altre forme mediali. Infatti Abruzzese in Bene vede e apprezza l’attraversamento dei linguaggi del cinema e della televisione, la capacità di tenere insieme istanze provenienti dai più diversi e disparati ambiti della vita culturale, l’azzardo di progettare una formula di teatro adeguato ai tempi storici:
“Compiuto e vario come un film, spregiudicato e morboso come una televisione privata, audace come uno spogliarello e roboante come il teatro d’opera, intimo (radicato nel corpo) come l’underground e passionale come una balera, astuto come un comizio e religioso come un confessionale, artigianale come il teatro e fisiologico come la pornografia”.
Infine Abruzzese intuisce che il mutamento che la scena teatrale subisce con l’avvento dei media elettronici porta ad un riposizionamento sul piano sociale delle funzioni del teatro; a questo proposito, importanti sono due temi fondamentali per comprendere il panorama teatrale dell’epoca, temi che non sono propriamente legati all’estetica della scena ma alle sue politiche: il decentramento culturale e il terzo teatro. A proposito del decentramento culturale, la posizione di Abruzzese è nitida e inequivocabile:
“A mio modo di vedere il processo del decentramento, il suo farsi sul territorio, la costruzione politica del suo modello di sviluppo, dipendono dai luoghi di produzione culturale e artistica”.
Allo stesso modo, rispetto al teatro dei gruppi di base o terzo teatro, Abruzzese chiarisce che i centri di produzione devono diventare il cuore pulsante del decentramento. Abruzzese auspica un modello di centro di produzione in cui la grande istituzione lavora e dialoga con i comitati di quartiere, con le associazioni sul territorio. Insomma nelle cronache il mediologo prova a immaginare modelli produttivi ibridi, che guardino da vicino alle produzioni del cinema e della televisione.
Il volume ha il merito di illuminare una porzione, finora in penombra, della smisurata produzione scientifica di Alberto Abruzzese, i cui testi capitali hanno ridisegnato statuti, approcci, teorie e pratiche della sociologia dei processi culturali in Italia. Infatti, dopo i cinque, intensissimi anni di lavoro come critico di Rinascita, Abruzzese lambirà solo occasionalmente il teatro negli studi sui media. Tuttavia, egli continuerà, sotterraneamente, a tornare alla medialità teatrale come macchina di pensiero che soggiace al sistema della comunicazione di massa.
Da segnalare la postfazione di Gino Frezza, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Salerno e tra i più diretti allievi di Alberto Abruzzese, dove si ricostruisce, in sentite pagine di omaggio al proprio maestro, l’atmosfera densa di ricchi fermenti culturali che si percepiva, tra il 1972 e per tutti gli anni Ottanta, attorno alle cattedre di Sociologia della conoscenza, Sociologia dell’arte e della letteratura e Sociologia delle comunicazioni di massa presso l’Università “Federico II” di Napoli.
- Alberto Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, Marsilio, Venezia, 2011.
- Alberto Abruzzese, La Grande Scimmia, Luca Sossella Editore, Bologna, 2017.
- Alberto Abruzzese, Paolo Mancini, Sociologie della comunicazione, Laterza, Bari-Roma 2007.
- Georges Gurvitch, Sociologia del teatro, Kurumuny, Lecce, 2011.