Pubblicati solo in parte dalla Shandar e dalla ESP in Nuits de La Fondation Maeght (vol. 1 e vol. 2; Shandar SR 10000 e SR 10004), e Live On The Riviera (ESP 4001), i due concerti tenuti da Albert Ayler il 25 e 27 luglio del 1970 alla Fondation Maeght di Saint-Paul-de-Vence, registrati con ottima qualità dall’Office de Radiodiffusion Télèvision Francaise, trovano luce inaspettatamente nella loro completezza grazie al cofanetto di ben quattro compact disc (o cinque Lp) edito dalla Elemental Music. Si tratta di un piccolo evento che porta nuova luce e ulteriori riflessioni sulla figura del sassofonista di Cleveland, Ohio (che sarebbe scomparso appena quattro mesi dopo), e sull’importanza che il musicista ha avuto e continua ad avere in ambito jazzistico. Prima di addentrarci in commenti più dettagliati del materiale pubblicato, va detto che l’ascolto di questa edizione (qui si seguirà l’edizione in cd) è un percorso affascinante, musicalmente colmo di avventure sonore davvero particolari e significative.
Soprattutto si ha l’impressione di una raggiunta sintesi musicale sulla quale Ayler viaggia per certi versi anche in modo autonomo rispetto ai suoi collaboratori: la forza del suo messaggio produce sempre e comunque una musica di alto valore e traboccante di spiritualità. Revelations: The Complete ORTF 1970 Fondation Maeght Recordings, questo il titolo, si divide sostanzialmente nei primi due cd, frutto del concerto svoltosi il 25 luglio con Mary Maria Parks al sax soprano e voce, Steve Tintweiss al basso e Allen Blairman alla batteria, mentre il terzo e quarto cd riguardano il concerto del 27 luglio e vedono anche la presenza di Call Cobbs al piano, assente il 25 luglio per aver perso l’aereo.
Albert Ayler (foto di Pierre Leloir dal booklet di Revelations).
Il repertorio dei due concerti è in gran parte tratto dai suoi ultimi lavori in studio per la Impulse, Love Cry, l’assai discusso New Grass, Music Is The Healing Force Of The Universe e il postumo The Last Album.
Sotto questo aspetto il materiale qui pubblicato è come se ponesse una sorta di quadratura del cerchio, una stabilizzazione definitiva delle suggestioni e dei parziali cambiamenti avvenuti, nell’estetica ayleriana, soprattutto con New Grass. Il primo concerto, quello del 25 luglio, forse complice l’assenza di Cobbs, ha sonorità più spigolose, contraddistinte in gran parte dagli inediti dialoghi tra il sax tenore di Ayler e la voce e il sax soprano di Mary Parks, come per esempio nell’iniziale Music Is The Healing Force Of The Universe, oppure in Desert Blood, in Birth Of Mirth. Addirittura, in Speaking In Tongues (nel terzo cd) i due improvvisano vocalmente, appena commentati in sottofondo dalla ritmica che poi emerge infondendo forza ed energia alle due voci. Queste dinamiche sono presenti anche negli episodi inediti, denominati Revelations, improvvisazioni assai articolate che mostrano la grande capacità del gruppo di elaborare universi sonori assolutamente coinvolgenti. Revelations 2 vede il particolare dialogo tra il soprano di Mary Parks e la cornamusa di Ayler, fatto di sovracuti, rumorismi e suoni indistinti, con Ayler che poi passa al sax tenore e si avventura in una improvvisazione furiosa, selvaggia.
Maria Mary Parks (foto di Pierre Leloir dal booklet di Revelations).
Il concerto è però anche ricco di momenti pacati, di essenzialità, di ancestrali melodie folk, come in Island Harvest, in Revelations 1 (con, nel finale, accenno della Marsigliese!), oppure in quella sorta di inno religioso che è la già citata Desert Blood, e la versione dilatata eppure essenziale, gioiosa di Ghosts. Albert Ayler è in una condizione eccellente, le sue improvvisazioni alternano furore a cesellate elaborazioni di pentatoniche, sovracuti e suoni rauchi, folk e avanguardia, passato e futuro, spiritualità e materialità. Tale è la sua forza e creatività che tutto il gruppo suona in una dimensione trascendente, come attraversato da un’ispirazione divina; la ritmica, assolutamente inedita, sorregge e incalza le improvvisazioni e i temi suonati dal sassofonista. Il contrabbasso di Tintweiss è terreo, come nell’assolo all’arco in Ghosts, oppure contrappuntistico, in un continuo commento sonoro, attraversato dalla batteria movimentata e scura di Allen Blairmen, abile nel supportare ed accompagnare con discrezione i suoni di Ayler e della Parks. Come scritto in precedenza, nonostante suonino per la prima volta con Ayler, i due sembrano trascinati efficacemente dalla forza e dalla sicurezza con la quale il sassofonista espone la sua estetica, all’interno di un mondo dove la tradizione e l’avanguardia si compenetrano con equilibrio ed essenzialità.
Il concerto del 27 luglio, con la presenza al piano di Cal Cobbs, che aveva già collaborato con Ayler sia dal vivo al Village Vanguard (The Village Concerts per la Impulse) che in studio su Goin’ Home, Spirits Rejoice, Love Cry e New Grass, cambia ovviamente in parte, il carattere generale della musica eseguita dal gruppo. La presenza del pianista accentua l’elemento spiritual, come nell’iniziale The Truth Is Marching In, con il piano ad addolcire i sovracuti e il suono rauco di Ayler, oppure nella successiva Universal Message (la Zion Hill pubblicata su Love Cry), dove Cobbs si esibisce in un solo di stampo barocco.
Albert Ayler (foto di Philippe Gras dal booklet di Revelations).
L’approccio assolutamente classico, lontano dagli stilemi bop, di Cobbs tende ad attorniare i brani, come in Again Comes The Rising Of The Sun, dove la voce di Mary Parks canta e racconta una ballata rurale, sostenuta dal suono del sax tenore, o a colorare di accordi ed arpeggi l’atmosfera furiosa ed energica della lunga Revelations 5, cuore e gioiello dell’intero cofanetto: una lunga improvvisazione divisa in due sezioni dagli applausi scroscianti del pubblico con una piccola coda finale che trasforma il ritmo del battito delle mani del pubblico in una sorta di marcia trasfigurata. Ma in questo concerto ci sono anche i dialoghi tra il suono effettistico del soprano di Parks e i discreti frammenti tematici di Ayler, come su Holy, Holy (una versione molto lontana da quella pubblicata su Witches & Devils), le arcate sonore fatte di sibili e sovracuti del sax tenore, la marcetta spirituale di Spirits Rejoice, il vago andamento rhythm’n’blues di Holy Family, le ruggenti e commoventi cascate di note e suoni di Ayler in Spirits, con un bel solo di batteria, e persino un’autentica hit pop come Thank God For Women.
A conclusione, di nuovo Music Is The Healing Force Of The Universe, questa volta, a differenza del concerto di due giorni prima, con la presenza di Cobbs che rende ancor di più il brano un vero e proprio inno religioso striato di blues. Il concerto del 27 luglio, non fosse altro che il gruppo, questa volta al completo, suona insieme per la seconda volta, è di livello eccezionale, portatore di un linguaggio ancestrale, popolare e allo stesso tempo lanciato verso il futuro. Tutti gli elementi esplorati talvolta con difficoltà, frammentari, non pienamente esplicitati durante gli ultimi anni della carriera di Ayler, in pratica il suo periodo Impulse, qui trovano la giusta ed equilibrata sistemazione. L’estetica ayleriana, praticamente la prima a saltare quasi completamente il linguaggio, il fraseggio e anche la concezione bop, poggia le sue basi sulla tradizione spiritual, sulle marce, sulla cultura afroamericana precedente al jazz e poi fa un salto per arrivare alla contemporaneità. Altro punto di riferimento importante è il rhythm’n’blues, quel suono potente e ricco di effettistica, buffo ed efficace allo stesso tempo. Le marce, gli inni religiosi, le semplici melodie di sapore folk, i frammenti tematici pentatonici servono ad Ayler per introdurre l’ascoltatore nel suo mondo ma non solo. È un modo per collegare i suoi suoni alla semplicità della musica, a esaltare ancora di più quel furore spirituale che esce dal suo sassofono.
Da sinistra: Steve Tintweiss, Call Cobbs, Allen Blairman e Albert Ayler (foto di Pierre Leloir dal booklet di Revelations).
Possiamo dire che l’esperienza free, soprattutto in John Coltrane, Pharoah Sanders e lo stesso Ayler, ha questa dimensione fortemente trascendente perché libera la parte inconscia del musicista, le dà il timone per il viaggio improvvisativo. È come se i musicisti interrompessero la loro connessione con il proprio io per lasciar emergere qualcos’altro, quella parte interna e allo stesso tempo altra da noi. Per far questo è necessario ridurre al minimo la complessità melodica e armonica, e liberare la pulsazione ritmica. In ambedue i concerti la vicinanza all’ultimo Coltrane è certamente rilevante, ma in Ayler le improvvisazioni assumono forme differenti, una sorta di archi di suono (cfr. Jost, 2006). Onde sonore che racchiudono al loro interno timbri e figure assolutamente originali, che forniscono una dimensione spirituale e allo stesso tempo collettiva e storica. L’onda sonora ayleriana trasporta con sé la storia del popolo afroamericano, la sua voglia di emancipazione e la collega alla dimensione ultraterrena, verso l’alto e l’altro. Una continua richiesta di connessione con l’animo umano, con la trascendenza, con l’ignoto dentro di sé.
Questo prezioso cofanetto va, in ogni caso, inserito in un contesto più ampio, dovuto sia alla circostanza che al quadro storico. L’elevata qualità dei due concerti è certamente dovuta anche al calore del numeroso pubblico e al luogo: la Fondation Marguerite and Aimè Maeght a Saint-Paul-de-Vence, centro mondiale per le arti in tutte le sue forme, aperta nel 1964 e subito assurta a crocevia delle sperimentazioni e creazioni artistiche provenienti da tutto il mondo.
La direzione di Daniel Caux, non solo musicologo e produttore ma anche artista associato alla corrente Fluxus, inserì i concerti del gruppo all’interno di una rassegna che analizzava le interazioni e i rapporti tra cultura americana ed europea, con mostre, performance, proiezioni, spettacoli teatrali, letture, esposizioni. Tutto questo diede una proiezione dall’alto valore simbolico e culturale alla musica di Ayler, cosa che spesso in patria non era avvenuta. L’Europa, e la Francia in particolare in quel periodo, fornirono alla scena free jazz americana il giusto riconoscimento, l’opportunità di suonare in luoghi prestigiosi, con una giusta retribuzione e un adeguato trattamento. Tutte cose che in patria i musicisti ebbero difficoltà a trovare.
Albert Ayler (foto di Philippe Gras dal booklet di Revelations).
Da questo punto di vista il bellissimo film/documentario Fire Music, The Story Of Free Jazz, di Tom Surgal uscito lo scorso anno, con interviste ai protagonisti, analisi critiche e ricostruzioni storiche, mostra con efficacia la straordinaria rivoluzione che il free jazz comportò in ambito jazzistico e non solo, ma anche le frustrazioni, gli ostacoli e i profondi disagi, economici e culturali che i vari Ornette Coleman, Pharoah Sanders, Albert Ayler, Sun Ra (quest’ultimo protagonista anch’egli di memorabili concerti alla Fondation Maeght con la sua Arkestra), i chicagoani, lo stesso Coltrane (anche se grazie alla sua fama contribuì al parziale sdoganamento dell’intera scena) si trovarono ad affrontare. La rottura di confini, la creazione di nuovi approcci alla musica, lo straordinario sviluppo dell’aspetto improvvisativo, la sintonia con i movimenti sociali e politici, ma anche quel profondo senso di comunione con la storia e le musiche del popolo afroamericano, nonostante le dure accuse rivolte sia dalla critica che dalla vecchia (e anche nuova) guardia, ebbero una tale portata da risultare ancora oggi proficue, stimolanti, attuali. Il critico jazz e scrittore Gary Giddins, proprio all’inizio del documentario, riassume con efficacia ciò che la rivoluzione free comportò musicalmente e concettualmente:
“Hai un ragazzo sotto un portico che canta blues, è da solo. Il blues potrebbe essere di 12 battute. Possono essere 13, potrebbero essere 14 e mezzo. Oppure potrebbero essere 9. È qualunque cosa stia facendo, ma prova ad aggiungere un bassista. Ora ci deve essere un accordo, un’intesa tra i due. E questo diventa, ovviamente, sempre più necessario man mano che aggiungi altri musicisti, e improvvisamente hai una big band, e tutto è scritto e composto, organizzato. Quello che l’avanguardia ha iniziato a fare, è tornare dall’altra parte e dire, sai, abbiamo davvero imparato questa musica. Capiamo come parlarci. Ora togliamo alcuni di quegli accordi e vediamo, possiamo ancora parlarci? Possiamo davvero improvvisare liberamente? Non stanno dicendo che sono meglio del passato. Dicono che questo è un altro modo di ascoltare la musica”.
Revelations è la brillante conferma che l’operazione è riuscita: possiamo parlarci, possiamo improvvisare liberamente.
- Albert Ayler, Love Cry / The Last Album, Impulse!, 2011.
- Albert Ayler, New Grass / Music Is The Healing Force Of The Universe, Impulse!, 2015.
- Ekkehard Jost, Free Jazz, L’EPOS, Palermo, 2006.
- Peter Niklas Wilson, Albert Ayler. Lo spirito e la rivolta, Edizioni ETS, Pisa, 2013.
- Tom Surgal, Fire Music. The Story of Free Jazz, Submarine, 2021.