“Una risata vi seppellirà” si leggeva sui muri della Parigi sessantottina; annuncio, così apparve all’epoca, di una fine del mondo parimenti temuta e auspicata. Qualche decennio addietro, risalendo lungo le strategie oblique della storia, nella capitale francese apparve un romanzo nel quale l’umanità cessava di esistere per soffocamento, non prima di elargire un sorriso stampato sul volto per l’eternità, un’espressione simile a un ghigno per via di un’arma sganciata nel bel mezzo di un conflitto mondiale: un gas che infischiandosene bellamente delle parti in causa sterminava tutti. Un killer invisibile capace di far
“Contrarre i muscoli zigomatici, e cioè di far ridere – o almeno di fornire al viso l’aspetto di un sorriso. E in questo modo che gli esseri umani erano destinati a morire, visto che ridere è il proprio dell’essere umano”.
È così che Régis Messac immaginò l’apocalisse nel 1935 e la raccontò in Quinzinzinzili, storia inedita in Italia per quasi novant’anni e ora pubblicata da Tlon. Romanzo cupo, privo di speranza alcuna, quasi a presagire l’imminente macello che non avrebbe risparmiato lo stesso Messac, scrittore visionario, tra i precursori della moderna fantascienza francese, intellettuale originale e impegnato. Era ancora vivo il 19 gennaio 1945. Si trovava nel campo di concentramento di Gross-Rosen, poi più nulla. Ci resta la data fittizia del 15 maggio 1945 a indicarne la morte. Anarchico pacifista, impegnato in attività di resistenza con il Fronte Nazionale dal 1941, venne arrestato nel 1943 iniziando un’inesorabile discesa agli inferi. Nella prima edizione della sua Storia della fantascienza (1973), Jacques Sadoul lo ignorò bellamente. Omissione imperdonabile. Messac era uno scrittore e un appassionato di fantascienza, ma anche un suo illuminato propugnatore. Quinzinzinzili inaugurò la prima collana di libri dedicati al genere in Francia: Les Hypermondes da lui diretta. L’edizione italiana riporta anche la prefazione a Quinzinzinzili che Messac scrisse per presentare la collana e spiegare il suo senso del meraviglioso e i suoi ipermondi:
“Sono i mondi fuori dal mondo, accanto al mondo, al di là del mondo, inventati, presagiti o intravisti da individui ricchi d’immaginazione, poeti. Per visitarli, bisogna intraprendere viaggi immaginari, viaggi impossibili”.
La collana ebbe breve seguito. Uscirono soltanto altri due volumi, un’antologia di racconti dello statunitense David Henry Keller (La guerre du lierre) e un secondo romanzo, decisamente distopico dello stesso Messac, La Cité des asphyxiés, ma in cantiere c’erano altri dieci titoli. La follia omicida nazista si portò via nel mucchio, come si è detto, anche uno scrittore dalla fantasia fertile e dalla forte coscienza critica, che aveva avuto sentore eccome dell’imminente mattanza proprio in Quinzinzinzili.
Co-protagonista nelle vesti di un tragico testimone oculare, voce narrante delle piccole gesta degli umani del futuro, è un tale Gérard Dumaurier, o meglio colui che un tempo si chiamava così. “Adesso non so più chi sono né se sono”, confessa. Era un precettore salvatosi per caso assieme a dei bambini, l’umanità di domani, aspiranti tubercolotici in cerca d’aria buona sui monti della Lozère e capitati per caso a esplorare una grotta proprio al sopraggiungere della nube tossica.
Dumaurier non crede più negli adulti, autori di un suicidio collettivo, e non ripone nessuna fiducia nei piccoli eredi del pianeta, che osserva alla stregua di un antropologo che opera al rovescio, perché non si è spinto indietro fino alle origini del mondo ma è giunto al suo capolinea. La tribù che vede evolversi giorno dopo giorno non sa più neanche se possa ancora definirsi erede del genere umano, “questa manciata di monelli, ignoranti, idioti, viziosi, superstiziosi e impauriti!”. Meglio ancora, si pone come un grottesco entomologo che si dedica “a studiare questi degenerati come si studierebbe una colonia di formiche”. Dumaurier non è tenero con la piccola orda, a più riprese esprime disgusto nei loro confronti e ne stigmatizza i comportamenti postumani. Esemplare il ritratto di Ilayne, un tempo Helène, unica bambina e dunque destinata a dare seguito alla razza umana. Sorta di Grande Madre in sedicesimo,
“Venere, questa ragazza aspra e asprigna, vecchia nel guscio della sua adolescenza mancata, e così brutta da credere che un demiurgo l’abbia fatto apposta a plasmarla così” […] Puah! Mi disgusta”
[…]
“La regina, l’ape regina, l’ovaiola, la madre feconda, la depositaria della stirpe, l’insostituibile […] Puah!”.
Inevitabile andare a Il signore delle mosche di William Golding, anticipato di circa vent’anni e rispetto al quale Quinzinzinzili si pone come la versione più pessimista, sorretta da una prosa non altrettanto cristallina, priva del benché minimo happy end e altrettanto inesorabile nel descrivere il lento degrado degli elementi costitutivi la civiltà occidentale, l’affermarsi di logiche ancestrali, il sorgere di una tribù, i suoi riti, costumi e finanche la lingua. Si è detto del titolo davvero sorprendente e indecifrabile, pura invenzione linguistica e tale è, perché si tratta della deformazione del secondo verso del Padre nostro, ai tempi recitato in latino: qui es in coelis. Nascerà una nuova lingua, una rimasticatura selvaggia. Gli stessi nomi propri saranno deformati (Helène diventa Ilayne) e la parola magica che dà il titolo al romanzo si incarnerà in una divinità onnipotente, nonché in una parola universale (quasi una scheggia arcaica del puffare). “È sbalorditivo come questa parola Quinzinzinzili abbia accezioni diverse” annota Dumaurier. Romanzo di genere apocalittico, di sopravvivenza, vanta più precedenti discostandosene con personalità: dall’invenzione di Daniel Defoe, il Robinson padre di tutti i sopravvissuti moderni (e Dumaurier lo cita nel corso delle sue ruminazioni) al Lionel dell’Ultimo uomo di Mary Shelley e soprattutto all’Adam de La nuvola purpurea di Matthew P. Shiel, di cui appare diretto erede.
Cronaca del disastro come ne seguiranno a frotte, anche se la sua singolarità è data dal ruolo centrale dei bambini. Un romanzo a ben vedere ucronico, perché Messac dedica nella prima parte alla ricostruzione degli eventi che conducono al conflitto, una vera e propria storia alternativa redatta da Dumaurier fino al suo ricordo di un tragico annuncio, l’ultima frase di un notiziario, prima di non saper più nulla di quello che sta accadendo sul pianeta: “L’Africa non risponde più”. Anche Messac a un certo punto smise di dare segnali di sé e rimase ignorato in seguito (Sadoul) dalla sci-fi transalpina, che va detto ha fatto del proprio meglio soprattutto nel fumetto. Grazie proprio alla nona arte, in una saga di Serge Lehman, Fabrice Colin e Gess, La Brigade Chimérique (2009), Messac è tornato da autentico revenant. Lo scenario è la vigilia della seconda guerra mondiale, i protagonisti sono dei superuomini e compaiono personaggi inventati e altri storici, tra i quali a un certo punto l’intero gotha della fantascienza transalpina (un’idea degna di Philip J. Farmer), a partire da J. H. Rosny aîné, il numero uno d’anteguerra. Si incontra con Jean Ray, Maurice Renard, Jacques Spitz, René Daumal, René Barjavel e lo stesso Régis Messac. Si ritrovano tutti in un salotto letterario diretto proprio da quest’ultimo: il Club de l’Hypermonde. Le strategie oblique della storia conducono all’insolito. Dal culto immaginario di una parola/feticcio a un autore che accenna a diventare di culto e anche il ghigno si fa sorriso.
Serge Lehman, Fabrice Colin, Gess, La Brigade Chimérique, vol. I – VI, Editions L’Atalante, Nantes, 2015.