Il privilegio bianco,
il razzismo che non si vede

Lilian Thuram
Il pensiero bianco.
Non si nasce bianchi,
lo si diventa
Traduzione di Marco Aime

e Maria Elena Buslacchi
Add Editore, Torino, 2021
pp. 288, € 18

Reni Eddo-Lodge
Perché non parlo più
di razzismo
con le persone bianche
Traduzione di Silvia Montis

Edizioni e/o, Roma, 2021
pp. 240, € 16,50

Nadeesha Uyangoda
L’unica persona nera nella stanza
66thand2nd, Roma, 2021

pp. 176, € 15

Olivette Otele
Africani europei
Una storia mai raccontata
Traduzione di Francesca Pe’

Einaudi, Torino, 2021
pp. 216, € 27,00

Lilian Thuram
Il pensiero bianco.
Non si nasce bianchi,
lo si diventa
Traduzione di Marco Aime

e Maria Elena Buslacchi
Add Editore, Torino, 2021
pp. 288, € 18

Reni Eddo-Lodge
Perché non parlo più
di razzismo
con le persone bianche
Traduzione di Silvia Montis

Edizioni e/o, Roma, 2021
pp. 240, € 16,50

Nadeesha Uyangoda
L’unica persona nera nella stanza
66thand2nd, Roma, 2021

pp. 176, € 15

Olivette Otele
Africani europei
Una storia mai raccontata
Traduzione di Francesca Pe’

Einaudi, Torino, 2021
pp. 216, € 27,00


Il 2020 passerà alla storia come l’anno che ha segnato l’inizio di una pandemia che la maggior parte delle persone pensava potesse verificarsi solo in un film distopico. Il mondo occidentale, però, era già intrappolato in ciò che la giornalista britannica Reni Eddo-Lodge, nelle pagine conclusive del suo Why I’m no Longer Talking to White People about Race (2017), definiva come un vero e proprio “film dell’orrore”. La Brexit, l’elezione di Trump, il successo crescente di partiti di matrice xenofoba e fascista in tutta Europa, la proliferazione di tesi complottiste sulla “sostituzione etnica” e il “genocidio bianco”, sono solo alcune delle scene più inquietanti. Temporaneamente in ombra nei primi mesi di pandemia, la questione razziale negli Stati Uniti torna alla ribalta in seguito all’uccisione di George Floyd e all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, caratterizzato dall’uniforme bianchezza dei suoi partecipanti. Anche in Europa, anche in Italia, questi fatti riattivano l’opinione pubblica. Non è un caso che il libro di Eddo-Lodge venga tradotto e pubblicato in italiano dalla casa editrice e/o proprio nel 2021, con il titolo Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche. Dopo l’uccisione di Floyd il libro, vincitore del British Book Awards nel 2018, diviene il manifesto di proteste antirazziste in tutto il mondo. Nello stesso anno viene tradotto per add editore anche Il pensiero bianco. Non si nasce bianchi, lo si diventa, uscito l’anno prima in Francia a firma dell’ex calciatore francese originario della Guadalupa Lilian Thuram, campione del mondo nel 1998 e campione europeo nel 2000, e da diversi anni impegnato nella lotta antirazzista. In entrambi i titoli è contenuta una declinazione dell’aggettivo “bianco”, poiché la tesi di fondo è che il razzismo sia prima di tutto “un problema della mentalità bianca che i bianchi devono assumersi la responsabilità di risolvere” (Eddo-Lodge, 2021) e che sia urgente “mettere in discussione una categoria che non viene mai messa in discussione: la categoria bianca” (Thuram, 2021).

Vedere il sistema
Di solito quando le persone bianche parlano di razzismo – ammesso che ne riconoscano l’esistenza – si soffermano su atti di violenza eclatanti, attribuiti a individui “patologici” da cui è facile prendere le distanze. Ciò che è implicito in questo modo di affrontare la questione è che il razzismo sia un problema morale e individuale di chi lo mette in atto, una patologia appunto, che ha conseguenze negative per l’individuo a cui, casualmente, capita di diventarne bersaglio. Ma c’è qualcosa di profondamente sbagliato in questa visione, perché il razzismo non è fatto di episodi isolati; è piuttosto un sistema di relazioni di potere in cui le persone nere si trovano in una posizione svantaggiata e da cui le persone bianche, tutte, anche coloro che non compiono atti razzisti, traggono vantaggio.

Nelle prime parti dei rispettivi testi, Eddo-Lodge e Thuram tracciano le coordinate entro le quali il dibattitto sul razzismo andrebbe collocato per comprenderne la portata sistemica che troppe persone bianche non riescono o si rifiutano di vedere. Entrambi partono dalla Storia, e dalle rimozioni e amnesie che ne inficiano la narrazione. Per esempio, Reni Eddo-Lodge ammette di essere venuta a conoscenza dell’esistenza di una storia britannica nera solo al secondo anno di università. La prima parte del libro si sofferma perciò su alcuni dei suoi avvenimenti chiave, come la “commercializzazione del bestiame nero” in epoca coloniale o il risarcimento attribuito in seguito all’abolizione della schiavitù ai possessori di schiavi, e non alle persone che erano state private della libertà per secoli.
In modo analogo anche la prima sezione del libro di Thuram è dedicata alla storia della schiavitù e del colonialismo, questa volta francese. In particolare l’autore afferma la necessità di tenere insieme due storie francesi tra loro contemporanee che continuano a essere separate, quella dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese da un lato e quella del colonialismo e della schiavitù dall’altro; mentre la prima è il fulcro della storiografia e dell’orgoglio nazionale, la seconda ha ancora uno status ambiguo nella memoria collettiva. Per la giornalista britannica inquadrare le radici storiche del razzismo è il primo passo per imparare a vederlo dentro il sistema, nello Stato, incarnato in ciò che chiama il privilegio bianco; per l’ex calciatore francese è necessario per capire da che punto di vista ciascuno vede e osserva il mondo, per smettere di “pensare bianco”.

I pilastri del sistema razziale
Il privilegio bianco e il pensiero bianco possono essere intesi come i pilastri del sistema razziale: ne reggono le fondamenta e si caratterizzano per la loro invisibilità agli occhi delle persone bianche; sono quindi particolarmente insidiosi da mettere fuori combattimento. Il motivo per cui per le persone bianche è così difficile vedere il privilegio bianco Eddo-Lodge lo spiega molto efficacemente:

“Come posso definire il privilegio bianco? È così difficile descrivere un’assenza. E il privilegio bianco è un’assenza delle conseguenze negative nel razzismo. Un’assenza di discriminazione strutturale, un’assenza del fatto che il tuo colore venga visto anzitutto come un problema, un’assenza di «ho meno chance di riuscire perché non sono bianca». Un’assenza di sguardi straniti nella tua direzione, perché si crede che tu sia nel posto sbagliato, un’assenza di aspettative culturali, un’assenza di violenze subite dai tuoi antenati per il colore della pelle, un’assenza di una vita sottile di emarginazione e alterità – l’esclusione, insomma, dalla narrazione di essere umano”
(Eddo-Lodge 2021).

In cosa consiste esattamente allora questo privilegio? Con una strategia narrativa particolarmente efficace l’autrice invita i lettori a mettersi nei panni di un giovane bambino nero britannico, fiducioso che sarà sufficiente impegnarsi nello studio per costruirsi un bel futuro. Affiancando però alla nostra immaginazione i dati raccolti in diverse ricerche e statistiche, appare evidente che questo “giovane amico” vive in un sistema programmato per farlo fallire. Rispetto ai suoi coetanei bianchi, ha tre volte più probabilità di essere espulso da scuola, prende voti sistematicamente più bassi, viene convocato meno spesso per un colloquio di lavoro, fa molta più fatica a trovare una casa in affitto, è più frequentamente perquisito dalle forze dell’ordine. Il punto è cruciale: discriminazioni e privilegi sono speculari, non esiste alcuna forma di discriminazione nera che non produca un privilegio bianco; questo è il vero rovesciamento di prospettiva che Eddo-Lodge invita a compiere. Per ogni persona nera che non viene chiamata a un colloquio di lavoro o a cui non viene affittato un appartamento, c’è una persona bianca che non si misura con queste barriere, ed è dunque avvantaggiata. Su una cosa però l’autrice è molto chiara: parlare di privilegio bianco non significa sostenere che le vite dei bianchi siano facili e prive di discriminazioni, quanto riconoscere che il concetto di razza ha un impatto positivo sulle loro esistenze. Perché allora, si e ci chiede, i bianchi sono convinti di non essere razzializzati?

È proprio a questa domanda che Thuram presta particolare attenzione, il privilegio bianco sparisce alla consapevolezza di chi ne gode perché è intrappolato nel pensiero bianco. Come recita il sottotitolo del suo libro, non si nasce bianchi, lo si diventa. Evidente è l’eco della tesi esposta ne Il secondo sesso di Simone de Beauvoir (2008); frequente è infatti da parte dell’autore l’analogia tra i meccanismi che fondano le costruzioni razziali e di genere. Essere bianchi – così si intitola la seconda sezione del volume – non significa tanto avere la pelle bianca, ma avere abbracciato la costruzione sociale e politica della bianchezza, ovvero dell’identificazione del colore bianco con la norma; se il bianco è il colore dell’umano, il non-bianco è il colore della razza.
Le reazioni prevalenti, quando si prova a smantellare gli assunti del pensiero bianco e a rendere il privilegio evidente, sono l’incomprensione e il rifiuto. Attraverso un insieme di strategie, più o meno consapevoli, i bianchi evitano di ascoltare le persone nere che parlano di razzismo e di fare i conti con il proprio essere parte del gruppo dominante. Uno dei loro argomenti principali è che il vero problema non sarebbe il razzismo ma la questione sociale. Del resto, nota Thuram, il razzismo serve anche a mettere i più poveri in competizione tra loro, poiché il privilegio bianco è l’unico vero vantaggio rimasto ai bianchi che non sono al potere. Ma forse la stessa nozione di classe andrebbe ripensata:

“Dovremmo rivoluzionare l’immagine che ci viene in mente ogni volta che pensiamo alla classe operaia. Anziché un uomo bianco con un berretto, una donna nera che spinge una carrozzina”
(Eddo-Lodge 2021).

Individuando un bersaglio nelle minoranze e nei flussi migratori si evita che a essere messi in discussione siano i privilegi della classe medio-alta e si ottiene che ogni conquista verso l’uguaglianza razziale venga considerata come un danno per la “classe operaia bianca”. La diretta conseguenza di questo argomento è che possa esistere un razzismo anti-bianchi. Ma, chiede Thuram ai lettori, “Avete mai sentito uno scienziato nero teorizzare la superiorità dei neri per sfruttare i bianchi e saccheggiare le loro materie prime?”. Probabilmente no, a meno che non si pensi alle pagine della distopia rovesciata di Bernardine Evaristo, il romanzo Radici bionde, in cui sono i “nehri” ad avere colonizzato i “bianki” e a sfruttare “l’Europia” (Evaristo, 2021). Un esercizio di immaginazione radicale a cui vale la pena sottoporsi per mettere definitivamente in crisi la propria bianchezza e rendersi conto del fatto che non esiste nessun razzismo anti-bianco, perché non esiste alcun privilegio nero.

Figli neri di paesi bianchi
La bianchezza produce società color blindness, razzialmente daltoniche perché incapaci di riconoscere gli effetti positivi e negativi che la categoria della razza gioca nella vita delle persone. Questa riflessione è al centro del recente saggio di Nadeesha Uyangoda, pubblicato per 66thand2nd, L’unica persona nera nella stanza. Questo testo, per molti versi affine a quello di Eddo-Lodge, contestualizza in Italia il tema del privilegio bianco e si focalizza sulla questione della rappresentazione delle persone nere in Italia e delle modalità attraverso cui hanno spazio del dibattitto pubblico. Solitamente sono le uniche persone nere nella stanza in un paese in cui il razzismo è prevalentemente “narrato, interpretato, giudicato e assolto da persone bianche” (Uyangoda, 2021), e in cui la presenza delle persone nere nel dibattitto pubblico assume i tratti del tokenismo, ovvero quel diffuso atteggiamento per cui i gruppi maggioritari reclutano esponenti delle minoranze per lanciare un messaggio di inclusività, senza però essere realmente interessanti al loro punto di vista.
Secondo Uyangoda una specificità del daltonismo razziale italiano ha a che fare con la nozione ambigua di italianità:

“In Italia i bianchi non hanno più ripensato, nel corso degli anni, a cosa significhi essere italiani. Hanno sempre dato per scontato che essere italiani significasse essere come loro, bianchi caucasici, convinti che la loro idea di italianità fosse universale perché il binomio tra il colore della pelle e la nazionalità è nella norma. Eppure il concetto di italianità non può essere fermo, immutabile e fisso – è già cambiato, sta cambiando”
(Uyangoda, 2021).

Ciò è particolarmente evidente ai figli dei migranti, che come l’autrice sono nati o cresciuti nel paese, e che quotidianamente devono interfacciarsi con una serie di “micro-aggressioni”: dalle domande sulle loro origini e sui loro genitori alle altrui ipotesi che possano tornare nel “loro paese”, dove magari non hanno mai messo piede; dallo stupore suscitato dal loro perfetto utilizzo della lingua italiana alla meraviglia per la loro relazione stabile con un partner bianco.

In un contesto come questo, sui figli degli immigrati grava una pesante spinta alla performatività. Sia Uyangoda che Eddo-Lodge raccontano della convinzione illusoria, spesso generata dai loro stessi genitori, che eccellere nello studio sia l’unica via per ottenere quella mobilità sociale che ai figli dei migranti viene negata sin dalla nascita. Ma il privilegio di classe o un elevato livello di istruzione non possono proteggere del tutto dal razzismo. Non è sufficiente neanche essere una stella internazionale del calcio, come mostrano diversi esempi riportati da Thuram. Nel 2011 la Federazione francese di calcio aveva provato a istituire un sistema di quote informali per limitare il numero di giocatori di doppia nazionalità, meno “corrispondenti” alla cultura francese. In un’intervista rilasciata a Sud Ouest, il 5 novembre 2014, l’ex allenatore del Bordeaux Willy Sagnol ha affermato che il merito del giocatore africano è di essere poco costoso e fisicamente prestante, “ma il calcio non è solo questo, è anche tecnica, intelligenza, disciplina. Serve tutto. Serve anche qualcuno del Nord” (cit. in Thuram, 2021).
Thuram stesso si è sentito dire più volte da un compagno di squadra bianco: “Pensa se alla mia intelligenza potessi aggiungere anche le tue qualità fisiche”. Senza discostarsi di un millimetro dalla logica coloniale, osserva Thuram, nella Francia contemporanea i calciatori neri sono percepiti come corpi robusti, utili se in numero limitato, ma le “teste pensanti” sono bianche.

Africa e Europa: una storia antica
L’esistenza di cittadini europei neri è meno recente di quanto si possa immaginare. Ne dà prova Olivette Otele, storica di origine camerunense cresciuta in Francia, con il suo Africani europei. Una storia mai raccontata, pubblicato l’anno scorso e da poco tradotto in italiano per Einaudi. Raccontando in modo accurato la storia di personaggi neri influenti in Europa, ma la cui nerezza è stata rimossa dall’immaginario collettivo o la cui personalità è stata ammantata di un’aurea di straordinarietà, Otele mette in questione il paradigma storico dell’eccezionalismo. Un approccio che dice molto dello sguardo europeo sulla nerezza: la valutazione positiva attribuita ad alcune figure storiche nere deriva dall’idea che fossero personaggi eccezionali, e che in qualche modo la loro esistenza fosse stata trasformata proprio dall’incontro con gli europei. Nel bene la persona nera è eccezionale, non rappresenta il gruppo, come accade invece quando si valutano negativamente le sue azioni. L’autrice però si riappropria di queste storie per capire come sono state costruite.

Ciò che risulta particolarmente originale di Africani europei è la scelta di adottare una visione di lungo periodo. La storia dei rapporti tra Africa e Europa non ha inizio, come spesso accade in molti manuali di storia, con la colonizzazione. Otele si spinge molto più indietro, raccontando le storie di personaggi che possono essere considerati a tutti gli effetti afro-romani. Un esempio su tutti è San Maurizio che, originario della regione tra l’Egitto e il Sudan, diventò perfino il patrono del Sacro Romano Impero. Le rappresentazioni del suo personaggio suggeriscono che la sua nerezza non fosse un problema per i suoi contemporanei e per gran parte del Medioevo. Successivamente, quando inizia a prendere forma il concetto di razza, le rappresentazioni del santo ne risentiranno e si diffonderà l’idea che si sia salvato, nonostante fosse un africano, perché cristiano, diventando così un individuo eccezionale. La storica propone poi un cambio di prospettiva particolarmente interessante, ragionando sull’impatto che l’Africa, il continente colonizzato, ha esercitato sull’Europa, il continente colonizzatore. Ed è qui che entrano in gioco le storie degli africani europei:

“Oltre alle materie prime, ai manufatti e alle piante, il segno più visibile e durevole che l’Africa ha lasciato sull’Europa è costituto dalle persone”
(Otele, 2021).

Molte di queste persone non sono però mai state pienamente considerate parte del paese in cui hanno trascorso la propria esistenza, e spesso sono state cancellate dalle memorie nazionali. Nel XVIII secolo in Francia i colonizzatori di ritorno, che rientravano con i propri figli di doppio retaggio, rappresentavano un problema, perché mettevano la culla dell’Illuminismo di fronte alla sua implicazione nella tratta e nello sfruttamento di esseri umani, pratiche accettate nelle colonie ma che si preferiva non vedere in madrepatria.
È il caso di Joseph Boulogne (1739, Guadalupa-1799, Parigi). Figlio di un nobile francese proprietario di piantagioni e di una donna senegalese schiavizzata, si trasferisce in Francia dall’età di nove anni insieme al padre e al fratello. Il padre di Joseph ritenne che il modo migliore per proteggere il figlio dal colore della sua pelle fosse quello di investire in un’educazione aristocratica. Con l’appellativo “Il Cavaliere di Saint-Georges”, Joseph divenne il musicista più famoso della Francia e con i suoi concerti attirò pubblico da tutte le capitali europee. Pochi anni dopo la sua morte, Napoleone ristabilì la schiavitù in tutte le colonie francesi e vietò la musica del cavaliere di Saint-Georges; la sua storia sparì completamente dalla memoria nazionale. È solo grazie alle comunità afro-caraibiche francesi se nel 2001 gli viene intitolata una via di Parigi. E, finalmente, nel 2014 in una commemorazione pubblica sull’abolizione della schiavitù, Hollande ne ricorda la storia e la sua musica viene suonata nuovamente.
Theodor Michael (1925-2019), invece, nacque in Germania da un migrante coloniale di origine camerunese e una donna tedesca, che morì un anno dopo la sua nascita. Nonostante fosse tedesco di nascita, gli venne negata la cittadinanza e durante l’infanzia lavorò negli zoo umani che avallavano gli stereotipi sugli africani. Ma la sua vita “racconta la storia di successo di un uomo che è riuscito a innalzarsi al di sopra del ceto e della razza” (Otele, 2021). Fu uno dei pochi afroeuropei ad averla raccontata in autobiografia, testo da cui emerge la lotta identitaria che caratterizza le persone di doppio retaggio in Europa:

“Quando le persone dicevano “noi”, non intendevano me”. E quando mi guardavo allo specchio vedevo che era proprio così. […] Oscillavo tra il rifiuto, il dubbio, l’odio per me stesso e l’orgoglio di essere diverso dagli altri. […] Non avevo un solo posto al mondo! Né nella società tedesca, né in Camerun”
(cit. in Otele, 2021).

Theodor Michael pensava che il razzismo fosse un fardello di cui dovevano farsi carico i razzisti, e negli ultimi anni della sua vita, grazie alla scoperta delle comunità afro-tedesche, composte per lo più da giovani generazioni, riuscì a uscire dalla solitudine che aveva sperimentato per gran parte della sua esistenza.

Femminismi, tra ostilità e utopie
Nelle ultime parti del suo volume Otele si concentra proprio sulle tante comunità afroeuropee presenti oggi in Europa, e in particolare sull’attivismo nero impegnato a documentare la presenza nera nella storia europea attraverso processi di produzione collettiva della conoscenza. E qui la dimensione europea del suo sguardo è davvero interessante, poiché se sappiamo qualcosa di più delle vicende coloniali britanniche e francesi, e di conseguenza sulla presenza nera contemporanea in questi paesi, molto meno si sa di paesi come la Germania, l’Olanda, la Svezia, l’Italia o la Grecia. E Otele ci conduce in tutti questi luoghi per mostrare che:

“Mentre nel XVIII secolo quasi tutti gli afroeuropei dovevano camminare in punta di piedi, riluttanti ad affermare la propria presenza, nel XXI secolo le afrofemministe francesi e gli altri afroeuropei rivendicano il diritto di autodefinirsi, rimodellano i discorsi sulla razza, sul femminismo e sulle loro stesse vite”
(Otele, 2021).

Sono soprattutto le donne a impegnarsi in queste operazioni. Le afrofemministe contestano l’idea che la maggioranza (bianca) abbia il potere di definire le identità delle minoranze. Le studiose nere mettono in discussione gli approcci degli atenei in tema di “inclusione e diversità” e rendono evidente il paradosso dell’assenza delle donne nere nei dibattiti accademici sulla parità. Queste donne “hanno occupato posti che non erano stati assegnati loro” (Otele, 2021).
Come si legge più volte ne Il pensiero bianco, il patriarcato e il razzismo in quanto strutture politiche seguono una logica simile, per questo Thuram ritiene che le donne bianche siano più propense a comprendere il funzionamento del razzismo. Paradossalmente, però, sono proprio molte femministe bianche a mostrarsi ostili nel declinare in chiave antirazzista la battaglia contro il patriarcato. È questo un aspetto che a Thuram sembra sfuggire, sebbene sia molto attento e consapevole del dominio maschile, e riesca a vedere il sessismo razzializzato di cui sono bersaglio le donne nere da parte di uomini neri e bianchi. Ciò che non mette a fuoco è l’ostilità delle donne bianche: a suo avviso il pensiero bianco è maschile. Più complessa appare invece la posizione di Eddo-Lodge, Uyangoda e Otele, dovuta anche alle loro esperienze di donne nere in paesi europei. Gli uomini neri e le donne bianche hanno forse esperienze più simili di quanto si possa immaginare: in un mondo bianco e maschile hanno entrambi uno svantaggio e un vantaggio. Del tutto diversa è invece l’esperienza delle donne nere.

Reni Eddo-Lodge dedica ampio spazio al rapporto tra femminismo e bianchezza. Il femminismo, afferma, è all’origine del suo pensiero antirazzista, perché le ha dato una struttura mentale per capire il mondo. Probabilmente crescere in una società che fa della bianchezza la norma, e che evita il più possibile di nominare la razza, rende più immediato e meno problematico identificarsi come donna che come persona nera. Tuttavia, nota l’autrice, se i bianchi difendono i loro spazi e il loro mondo monocolore, le femministe si sono accomodate nella bianchezza come chiunque altro. Il femminismo, dicono, non è il luogo in cui discutere la questione razziale; come se si potesse separare il fatto di essere donna dal fatto di essere nera. Una precisazione va fatta: Eddo-Lodge non ritiene che questo atteggiamento riguardi tutte le femministe bianche, ma solo coloro che riescono a coniugare la politica femminista con quella della bianchezza, che è una politica strutturalmente razzista. Un connubio ai suoi occhi ossimorico:

“Il femminismo ha bisogno di pretendere un mondo che ammetta l’esistenza di una storia razzista assumendosene le responsabilità, in cui le riparazioni sono distribuite in maniera equa, in cui il concetto di razza venga decostruito da cima a fondo. So bene che queste richieste sono utopiche e irrealistiche. Ma credo che il femminismo debba essere utopico e irrealistico, lontanissimo dal mondo in cui viviamo”
(Eddo-Lodge, 2021).

Uyangoda assume una posizione affine, sostenendo che in Italia sulla questione femminista siamo migliori, mentre in tema di razzismo siamo molto indietro. In particolare si focalizza molto sul termine intersezionalità, e sul processo di whitewashing che sta subendo per mano dell’accademia italiana. Se infatti l’intersezionalità è quello strumento che, invitandoci a tenere simultaneamente presenti razza, sesso e classe, ci consente di capire dove ciascuna è collocata all’interno di un sistema di oppressione, è paradossale che le femministe e le accademiche bianche se ne servano unicamente per comprendere e analizzare l’oppressione dell’altra e non la posizione di vantaggio in cui loro stesse si trovano. A questo Uyangoda, cresciuta in Italia con una madre immigrata, è molto attenta: le assemblee femministe, così come i convegni accademici di studi di genere, sono pieni di donne libere di prendervi parte perché a casa c’è un’altra donna, solitamente immigrata, che pulisce le loro case e si prende cura dei loro bambini. Il peso dell’emancipazione delle donne bianche non è stato spostato su un’equa ripartizione del lavoro domestico con gli uomini, ma sulle spalle delle donne nere e di colore. Come è possibile non problematizzare questo elemento nei movimenti femministi? Forse, conclude Uyangoda, “la conoscenza e la pratica della decolonialità si esauriscono nella sua bibliografia”.

Se il privilegio pesa come un macigno
Assumere la prospettiva del privilegio bianco implica un rovesciamento del modo in cui siamo soliti pensare al razzismo: vedere non soltanto cosa accade a chi lo subisce, ma anche e soprattutto chi ne trae giovamento. Qual è, allora, la responsabilità di chi, pur non mettendo in atto pratiche e comportamenti razzisti, si trova in una posizione privilegiata, garantita dall’esistenza stessa del razzismo? La prima responsabilità è la riluttanza, se non il rifiuto, ad ascoltare ciò che le persone nere hanno da dire sul razzismo. Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche è un titolo che potrebbe ingannare, sembra suggerire che sia Reni Eddo-Lodge a voler troncare la conversazione sul razzismo con le persone bianche. In realtà la sua è una risposta a tutti coloro che non intendono riconoscere la dimensione strutturale del razzismo.

Guardare in faccia il privilegio bianco è doloroso, e forse anche imbarazzante, perché “costringe persone che non si sono mai rese responsabili di razzismo attivo a fare i conti con la loro complicità nella sua esistenza” (Eddo-Lodge, 2021). Tuttavia, le persone bianche, specialmente coloro che intendono essere antirazziste, non hanno forse al momento altra strada che accettare il disagio che deriva dalla presa di coscienza, senza pretendere che possa esserci una soluzione rapida e indolore al razzismo; perché questo, afferma con forza la giornalista britannica, al momento non è possibile.
Accettare il disagio tuttavia non significa in alcun modo crogiolarsi nei sensi di colpa. Eddo-Lodge e Thuram insistono molto su questo aspetto: i loro testi non hanno lo scopo di puntare il dito contro qualcuno, ma di porre le basi per una comprensione profonda di cosa sia effettivamente il razzismo, affinché le società tutta – non solo le persone nere – possa farsene carico:

“Non si tratta di ergersi a giudici e proclamare solennemente: vi dichiarate colpevoli? Si tratta di chiedere: accettate che le cose siano chiamate con il loro nome? Siete pronti a sentire che la vostra responsabilità individuale e collettiva è parte in causa e che prima o poi bisognerà che lo affrontiate? Accettate di riconoscere che l’inferiorizzazione dei non-bianchi ha permesso ai vostri antenati, e continua a permettere a voi, di godere di vantaggi considerevoli nella guerra dei posti?”(Thuram, 2021).

Qualsiasi forma di azione possibile deve necessariamente passare per questa accettazione. Ai bianchi che hanno preso coscienza del loro privilegio, e a cui questo privilegio “pesa come un macigno”, Eddo-Lodge suggerisce di usarlo in molti modi: fornendo supporto amministrativo ed economico alle battaglie antirazziste; parlando di razzismo con altre persone bianche, servendosi della propria voce in tutti i luoghi di potere in cui può essere ascoltata. Tutto ciò può contribuire affinché nessuno sia più L’Unica Persona Nera nella Stanza e a riaprire la storia dell’Europa per riconoscere al suo interno un posto che troppo a lungo è stato negato, quello degli africani europei. Non tutte le persone bianche, evidentemente, desiderano essere antirazziste e i più cinici potrebbero chiedersi perché, in fin dei conti, i bianchi dovrebbero rinunciare al loro privilegio in favore di un mondo più equo e più giusto. È forse il caso allora che questi ultimi leggano con attenzione quanto ha da dire Lilian Thuram nella terza sezione del suo libro, intitolata Diventare umani.

Il pensiero bianco, fondamento del privilegio che ne deriva, ha delle conseguenze nefaste anche sulle persone bianche. È un modo di vivere che non può sopravvivere senza violenza, senza mettere ai margini della società i più fragili. È anche funzionale allo sfruttamento dei bianchi che non sono al potere: il razzismo offre loro un nemico affinché non si ribellino contro chi li sfrutta davvero. Inoltre, le sue conseguenze sono molto più estese di quanto si possa immaginare, poiché non riguardano solo le relazioni di potere tra le persone, ma anche la sostenibilità dell’impatto umano sulla Terra. Molti parlano infatti di un’antropocene bianca. Anche l’identità bianca, come quella nera, è assegnata. Imparare a vederla è un atto di libertà. Fare antirazzismo significa non condannare le persone bianche all’unico punto di vista che una società strutturalmente razzista ha dato loro.
Ciascuno di questi libri è il frutto di voci incisive. Le conoscenze e il sapere di cui sono espressione non intendono più essere di nicchia, né tantomeno rimanere riservati agli addetti ai lavori, il che si riflette peraltro in uno stile di scrittura che, pur trattando temi estremamente complessi, non rinuncia a essere alla portata di tutti. La loro lettura incrociata consente di percepire che non siamo di fronte a voci isolate, ma a un movimento trasversale e con un enorme potenziale trasformativo:

“Io non voglio essere inclusa. Voglio chiedere, invece, chi ha stabilito la norma. Dopo una vita passata a incarnare la diversità non ho nessun desiderio di essere uguale. Voglio decostruire il potere strutturale che mi ha marchiato come diversa. Non desidero essere assimilata allo status quo. Voglio essere liberata da tutti i preconcetti negativi associati a ciò che sono. Non sono io che devo cambiare. È il mondo intorno a me”
(Eddo-Lodge, 2021).

Se a questo cambiamento intendiamo contribuire tutti, la messa in questione della bianchezza è un passo che non possiamo più permetterci di rimandare.

Letture
  • Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2008.
  • Bernardine Evaristo, Radici bionde, Sur, Roma, 2021.