Per lo spettatore italiano, il primo e più inquietante insegnamento di Sesso sfortunato o follie porno (Babardeală cu bucluc sau porno balamuc) di Radu Jude, vincitore 2021 dell’Orso d’Oro a Berlino e troppo brevemente apparso in sala l’anno scorso (lo ha ripresentato il 3 dicembre la Casa del Cinema di Roma nell’ambito del Balkan Film Festival, che alla sua quinta edizione propone il meglio del cinema balcanico dell’anno passato, e che più o meno dichiaratamente ha imperniato i temi trattati in concorso quest’anno proprio su questo film, non a caso premiandolo come miglior film e dunque vincitore della rassegna in quanto “racconto importante della realtà in questo momento”), è la raggiunta indistinguibilità tra Roma e Bucarest, la presa di coscienza che l’Italia è ormai urbanisticamente, esteticamente, culturalmente identica alla Romania (la quale ha quantomeno dalla sua la scusa di dittature e rivoluzioni da cui è uscita sì e no trent’anni fa, e non quasi cento come noi). Se sulle prime si resta spiazzati (“fa sul serio?”), man mano il piacere cresce (“sì!”), soprattutto a confronto con la deplorevole stasi cinematografica nostrana, dove appare appunto rivoluzionario un film che, senza pensarci troppo, mette assieme con brio i cocci già mezzo ammuffiti di un fenomeno contemporaneo in corso già da trent’anni o più, cioè, se volessimo abbreviarlo in una definizione, il declassamento dell’Europa e forse dell’Occidente a provincia apocalittica di scatafascio e squallore umano-culturale. Balcanizzazione, appunto.
Se si legge la sinossi, si entra in sala pronti ad assistere all’ennesima storiella moraleggiante: una povera insegnante screditata dal leak di un porno girato in casa dovrà riguadagnarsi la fiducia degli innocentissimi bambini di scuola e soprattutto dei loro genitori. Invece, dopo un preludio di sesso tutt’altro che invogliante (si intravede un pene depilato e anche un po’ moscio), parodia degli infiniti video amatoriali che ormai non guarda più nessuno, forse neanche gli stessi che se li girano in casa, osserviamo semplicemente una donna che cammina – con la mascherina. E già questo fa un po’ sobbalzare: la realtà attuale e non edulcorata al cinema ci pare quasi provocazione. Difatti è impossibile immaginare un film italiano venturo ambientato in questi anni dove i personaggi portino con naturalezza la mascherina – a meno che non si tratti di una fiction lacrimevole incentrata proprio soltanto sui drammi del Covid coi medici in corsia. Resterà una traccia visibile di questo periodo della storia (e di quello che ci aspetta) nel nostro cinema laccato e fuori dal tempo? Per quanti anni ancora vedremo in tv ragazzini che vanno al conservatorio o escono a bere come fosse il 2003, mentre fuori dalla finestra il mondo precipita?
Nella prima parte del film (diviso in tre da cartigli che fanno il verso al froufrou di Wes Anderson, tutti pastelli e ghirigori – ma appunto, dopo un porno amatoriale), questa donna attraversa parecchie strade del centro di Bucarest, e a ogni inquadratura la macchina da presa se la lascia alle spalle e si sofferma invece sulla città (proprio quello che noi non facciamo più, perché c’è sempre qualcosa da fare sullo smartphone), e – sorpresa sorpresa – scopre solo squallore e abiezione e disumanità e disgusto, una decadenza che non è più l’elegante décadance fin de siecle (anni Novanta, del secolo che si preferisce), ma proprio orlo del precipizio, incuria, sporcizia, inciviltà, disordine, indigenza, trascuratezza, sordidezza, desolazione, povertà sotto tutti gli aspetti, fisici e meta-, e trasversale per tutte le classi sociali: rumori assordanti sempre e ovunque, clacson e ambulanze, jackpot e sale slot, urla, insulti, trivelle, lavori edili perennemente in corso, traffico anche nelle stradine più marginali, passanti che si squadrano solo in cagnesco, pronti ad aggredire anche solo per uno sguardo, parcheggi in divieto, pubblicità enormi e rivoltanti, cambio-oro affilati lungo tutto l’isolato, volgarità pervasive, negozi abietti, insegne contro qualsiasi buon gusto, palazzi storici lasciati in macerie, con le finestre chiuse dal compensato e gli alberi che crescono dentro, vetrine di librerie che espongono esclusivamente libri su Gesù, gente in canottiera o con felpacce luride, sporchi, o in minigonne che ballano per strada alle fermate degli autobus – difficile dire se siano figli di ricchi in perenne vacanza o prostitute trans o barboni eroinomani, tram sferraglianti a due all’ora (ma sembrano migliori dell’Atac).
Non solo, poi ci sono i discorsi della gente: inutili, vuoti, lenti, sempre già sentiti, autoreferenziali, patentemente idioti, ovunque ci si trovi: al bar tra adolescenti, negli scambi tra clienti in fila, tra gli sturbi alle casse dei supermercati, con gli insulti per strada; e ancora la delinquenza ormai normalizzata, sicura di farla franca sempre, che non sente neanche più l’esigenza di mascherarsi (“Non dovrebbe parcheggiare sulle strisce.” “Se no che fai?” “Chiamo i vigili.” „Chiamali, chiamali…” “Insomma si tolga” “Ma vaffanculo, succhiami il cazzo”; o ancora il pedone: “Non vedi che sto attraversando?”, e l’autista lo investe direttamente). Di finto, di messo in scena per la macchina da presa non c’è poi molto. Come continuiamo a dire tutti (ma nessuno lo fa), “basta guardarsi attorno”. Una buona selezione ben montata da YouTube e Instagram potrebbe generare un film sull’Italia migliore di tutte le coproduzioni Rai Cinema degli ultimi dieci anni almeno.
Il regista Radu Jude l’ha capito, e decide di uscire allo scoperto, perché dopo quaranta minuti di questi muti indugi che parlano da sé, con un altro cartello rosa shocking ci annuncia una Parte II che rinuncia completamente allo spunto narrativo, e affastella invece un glossarietto di termini rumeni accompagnati da brevi filmati, spezzoni, immagini, materiale d’archivo, citazioni, aneddoti, cifre, paragoni. Insomma siamo nell’opera aperta (finalmente!, si respira!), nel film contenitore, nell’accozzaglia di frammenti, accostati in ordine alfabetico come vengono vengono, senza pudori. E il regista i suoi studi li ha fatti, e li vuole giustamente far fruttare: Walter Benjamin, Hermann Broch, Umberto Eco, Virginia Woolf, strano che manchino Roland Barthes e Ferdinand de Saussure. E poi tanta storia rumena più e meno recente, episodi e statistiche serie ma che suonano quasi come punch lines, ironia educata, vagamente moralizzante ma carica di sarcasmo.
Accorpando queste due parti si pensa quasi a Ennio Flaiano e a quel suo motteggio civile sempre disillusissimo ma garbato, le frasi fulminanti (aprendo La solitudine del satiro a caso si può leggere: “Le dittature hanno questo di buono, che sanno farsi amare”), o quegli appunti descrittivi su cui non c’è bisogno di aggiungere altro: Fregene 1970. Un bambino “compra la pistola ad acqua e la prova a lungo, senza ridere, e infine non ne sembra soddisfatto. Un ragazzetto benestante in vacanza, sui dodici anni… Ha già la sua motocicletta e non si muove che in motocicletta” […] “Un signore dalla gran pancia aspira l’ultima boccata della sua sigaretta e la butta nel mare, come in un vasto portacenere naturale”), e soprattutto l’orrore del rumore e delle automobili. Non fu proprio Flaiano a redarre, in modo del tutto analogo, un Dizionario della makina dove prevale l’amarezza, forse perché sapeva di combattere una guerra destinata non solo a essere persa, ma addirittura ignorata nel tripudio dei motociclettari (vedi il finale della Roma di Federico Fellini)? Del resto bisogna mettersi l’anima in pace: le persone hanno bisogno di fare rumore (lo dicono anche a Sanremo con grandi applausi commossi), ci sono troppo abituate, impazziscono nel silenzio; anche nei lockdown, le strade finalmente zittite si compensavano con le strida dentro gli appartamenti strapieni (che a loro volta dovevano sostituire in piccolo migliaia di bar).
A questo punto tocca alla terza e ultima parte, dove l’insegnante (è una professoressa di storia) deve affrontare a scuola la riunione d’emergenza dei genitori scandalizzati perché il video amatoriale col marito è finito in rete. Facile prevedere che adesso tutto finirà in caciara, e il regista ci accontenta (forse avrebbe potuto sbizzarrirsi anche più) proponendo addirittura tre finali diversi (opera aperta par excellence): uno è quello che segretamente ci aspettiamo, con la protagonista che si trasforma in Atena (la mascherina diventa una specie di lamina orfica) e con un dildo al posto della spada forza la bocca di ciascun partecipante. Le alternative: la maggioranza dei genitori vota per dimetterla, e lei se ne va; e l’ultima, forse tutto sommato la migliore, in cui a sorpresa la maggioranza accetta di lasciarla in carica, ma comunque lei viene alle mani con la più agguerrita delle madri. Insomma non se ne esce, nonostante l’illusione della scelta.
Anche qui non c’è avanzamento narrativo, ma un raduno di tipi tematici, ciascuno con la sua opinione, che all’occorrenza leggono dal cellulare citando altri autori (e si va sempre dalla storiografia a Slavoj Žižek). C’è il difensore della patria vestito da comandante, il prete, la ragazza-immagine con la bocca dipinta sulla mascherina, il businessman incarognito, l’effemminata che non dice nulla ma fa la faccia indignata, il progressista, il poliziotto complottista, la musulmana, il nero, insomma proprio tutti (e da un’inquadratura all’altra cambiano posto, non ci si ritrova mai).
Naturalmente si dichiarano tutti inorriditi e pretendono che l’insegnante si dimetta, altrimenti ritireranno i figli, opponendo i più vieti veti moralistici come nel felliniano Le tentazioni del Dottor Antonio (anche qui si respira molta Italia, siamo ancora a “Che altro ti aspetti da una depravata che frusta il marito a letto?”), tra un selfie con lo stick (“Riprendo per i genitori del gruppo WhatsApp che non sono presenti”) e un “Questa mascherina è un bavaglio”, mentre un’inserviente sullo sfondo spolvera il busto di Eminescu (“Dobbiamo igienizzare gli ambienti”) e un altro si presenta a intervalli regolari per accendere luci e smuovere cavi sullo sfondo, perché stare un attimo in pace mai e c’è sempre qualcosa che non va. Controbattere razionalmente alle idiozie dei convenuti è impossibile, non c’è modo, la distanza è diventata incolmabile (“Non capisco perché non interviene la legge” chiede un genitore scioccato, “Questa è pedopornografia!”, “Ma faccio semplicemente sesso con mio marito” risponde l’insegnante incredula – “Sì ma lo vedono i bambini, quindi è pedopornografia”). Anche il supposto progressismo liberale si mostra più granitico di una dittatura (un nonno di sinistra, che per altri versi difende l’insegnante, la accusa però perché in un’occasione si era dichiarata contraria ai matrimoni gay – “Ma è una mia opinione” risponde lei educata, e lui non sa più come controbattere), e insomma, se vogliamo il succo è che bisogna arrendersi a una generalizzata, ignorante stupidità.
È inutile continuare a ripetere che casomai il problema non è l’insegnante o la divulgazione involontaria del video porno, ma come mai questi bambini vi abbiano accesso, e insomma ammesso che ci sia un colpevole sono proprio i genitori… La donna finisce completamente travolta dalle opinioncine e dalle frasi fatte o lette su Facebook, proprio come vediamo succedere attorno a noi ogni giorno, fuori e dentro gli schermi. Su tutto, a intervalli sempre più brevi, sempre più insopportabile, qualcuno tra i presenti continua a ripetere gratuitamente l’eloquentissima risata di Homer Simpson.
- Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, Adelphi, Milano, 1996.
- Ennio Flaiano, Dizionario della makina, Henry Beyle, Milano, 2015.