Un “dramma capillare” è al centro di Questi capelli, memoir atipico e decisamente autoriflessivo a firma di Djaimilia Pereira de Almeida, pubblicato in Portogallo nel 2015 e appena tradotto in italiano per La Nuova Frontiera. Che i capelli siano una delle parti del corpo su cui maggiormente si interviene nel corso della vita è un’esperienza abbastanza comune. Perché allora scrivere “il libro dei capelli”? Il punto è che
“Non ci sarebbe nulla da dire su dei capelli se non fossero un problema. Dire qualcosa significa portare in superficie qualcosa che, per abitudine, non notiamo”.
Attraverso le vicissitudini dei capelli crespi di Mila, Pereira de Almeida narra una storia che rimane spesso sottotraccia, forse perché non è così facile vederla nelle pieghe di una quotidianità impregnata di non detti e di assunti scontati. E nei capelli di una donna figlia di madre angolana e di padre portoghese, nata a Luanda e cresciuta a Lisbona, si nasconde una vera e propria “geopolitica”; una geopolitica postcoloniale. I capelli di Mila sono infatti il risultato delle vicende familiari di quattro generazioni che hanno percorso, in entrambe le direzioni, la rotta tra il Portogallo e l’Angola. Di queste famiglie, portoghesi e angolane, apprendiamo qualcosa attraverso i tanti episodi che vedono al centro proprio i capelli della protagonista: i pellegrinaggi per una serie di parrucchieri nei più diversi quartieri di Lisbona; i tentativi della nonna e delle amiche di modificarli; l’uso di lozioni liscianti e abrasive; la delusione per l’acconciatura nel giorno del matrimonio; i consigli delle vicine di casa. Eppure tutta questa attenzione per i capelli da parte delle altre persone si trasforma in una prolungata, e a lungo non riconosciuta, impossibilità di conoscere sé stessa:
“Nel duemilaundici, con malcelata amarezza, mi sono tagliata i capelli per dimenticarmi ancora un po’ di loro. Naturalmente, ho giustificato a me stessa questa dimenticanza in termini di mero senso pratico: lavarli e uscire, ecc. Quello che non posso fare, come ho ammesso più tardi a me stessa, è dimenticarmi di questi capelli senza dimenticarmi di me e proseguire dritta lasciandomi alle mie spalle come due persone che si perdono a una fiera. All’indomani di quel taglio, ha avuto inizio il desiderio di conoscere la storia dei miei capelli. Il motivo principale si sarebbe rivelato a poco a poco, dopo avere capito, senza sapere come spiegarmelo, che il luogo in cui ero nata, e dal quale sono cresciuta lontano, tornava a me come un luogo di interesse obliquo ma costante”.
Malessere individuale o dramma collettivo?
I capelli crespi di Mila, così come la loro proprietaria, non hanno un’identità definita né delle origini certe: non sono angolani né portoghesi. Sono la ragione per cui Mila si è sentita chiamare “mulata das pedras, una mulatta di seconda categoria con capelli orribili”. Questi capelli rappresenta il tentativo dell’autrice di andare alla ricerca delle proprie origini e della propria identità. Particolarmente interessante è ciò che Pereira de Almeida sembra comprendere proprio attraverso il processo della scrittura: spesso ciò che troviamo non è ciò che stiamo cercando. E dunque il punto di arrivo di questa ricerca non è l’identità, non è la singolarità della storia di Mila, la quale afferma a un certo punto di avere confuso il percorso dei suoi capelli con “un’avventura individuale”, ma che dovrà poi prendere atto del fatto che “la nostra vita è cominciata prima del nostro inizio”.
Djaimilia Pereira de Almeida (foto di Humberto Brito).
La vita di Mila, raccontata attraverso la metafora dei capelli, è radicata nella storia coloniale che lega il Portogallo e l’Angola. Più che raccontare come l’eredità di questa storia provochi forme di razzismo e di esclusione, Pereira de Almeida tratteggia con grande incisività quanto ciò influisca sull’autopercezione delle persone afrodiscendenti che vivono a Lisbona, capitale di un paese che a fatica nasconde la nostalgia per la sua epoca imperialista:
“Questa immagine cattura il suprematista che c’è in me, l’animo dell’aggressore che rovina i miei giorni, per quanto niente o nessuno mi aggredisca o mi abbia aggredito dall’esterno; il suprematista implicito nella timidezza reticente e ferita di tante persone dai capelli crespi che incontro a Lisbona, molto più giustificata della mia, perché a ben vedere ogni sorta di timidezza è sempre stata per me un privilegio naturale e non una reazione alle circostanze. Questo suprematista è l’idea, di questi miei fratelli, per cui la tua timidezza (che nessuno nota) è un peso che deve essere purgato, nel tentativo di trovare, nella coesistenza con il mondo, l’esatta miscela di disprezzo, gentilezza ed espansività”.
Questi capelli apre degli interrogativi complessi sul rapporto tra malessere individuale e contesti storico-sociali. Insomma, la vergogna che Mila ha provato per i suoi capelli per gran parte della sua esistenza ha poco a che fare con un gusto personale; non è un problema individuale. Piuttosto, ha molto a che vedere con un’estetica tendente al razzismo di stampo coloniale, sempre più messa pubblicamente in discussione dal discorso collettivo e transnazionale degli afrodiscendenti nei paesi a maggioranza bianca, in cui la voce di Djaimilia Pereira de Almeida si inserisce. Nelle ultime pagine del libro Mila si chiede: “Come può un dramma interiore aspirare a diventare politico?”.
In Questi capelli non c’è una risposta; il dramma capillare rimane insoluto. Ma probabilmente, per ora, ciò che conta è porre la domanda.