C’era un tempo in cui la gravità quantistica a loop (LQG, loop quantum gravity) non solo non si studiava, ma nemmeno se ne parlava. Era, per usare un’espressione che in seguito malignamente Peter Woit avrebbe affibbiato alla teoria delle stringhe, not even wrong, neanche sbagliata (Woit, 2007). Semplicemente, era inutile. Intanto non aveva la stessa sfrenata ambizione della teoria delle stringhe di candidarsi a “teoria del tutto”, in grado di spiegare in un sol colpo tutti i misteri aperti della fisica teorica: si limitava a cercare di conciliare gravità e meccanica quantistica, il vecchio rovello di Albert Einstein. Troppo banale. Dalle loro audacissime attrezzature matematiche e concettuali, gli stringhisti erano capaci di tirar fuori la teoria della relatività generale come un coniglio dal cappello del prestigiatore: un trucco banale, un esercizio di riscaldamento. Da lì si spingevano a congetturare di universi paralleli, dimensioni nascoste, energia oscura, buchi neri, universi-ologramma.
E poi, la gravità quantistica a loop era portata avanti solo da un manipolo di scappati di casa – nel senso letterale del termine – costretti a vagabondare da un dipartimento all’altro seguendo i pochi fondi a disposizione per finanziare le loro ricerche, mentre la teoria delle stringhe godeva delle luci della ribalta, promossa da grandi best-seller della divulgazione e foraggiata da generosi finanziamenti. Poi, negli ultimi anni, le cose hanno iniziato a cambiare. Mentre nel 1979 Stephen Hawking si diceva sicuro che ben presto la ricerca della teoria del tutto si sarebbe conclusa, guardando ai nuovi sviluppi della supersimmetria e in particolare della supergravità, e nel 1995 il talentuoso Edward Witten risolveva una lunga stasi della ricerca introducendo la teoria M (per “membrana”), che trasformava le stringhe unidimensionali in membrane fluttuanti in un’ulteriore dimensione extra, aprendo così alla speranza di giungere in pochi anni all’agognata teoria del tutto, ben presto iniziarono a emerge nuovi problemi.
Witten era giunto, insieme ad altri, a scoprire il modo di compattificare le dimensioni nascoste necessarie per il funzionamento della teoria attraverso una complessa serie di forme geometriche (gli spazi di Calabi-Yau). Sarebbe bastato scoprire la geometria di compattificazione in grado di descrivere il modello standard per far emergere il nostro universo dalla teoria delle stringhe: ma si scoprì che di spazi di Calabi-Yau era possibile ottenerne un numero spropositato, superiore alle particelle dell’universo, ognuno in grado di descrivere un possibile universo con leggi diverse. Juan Maldacena, sviluppando un’audace congettura detta AdS/CFT, scopriva nel 1998 che la teoria delle stringhe sembra descrivere un universo anti-de Sitter (AdS), dove cioè la geometria è iperbolica e la costante cosmologica negativa, esattamente l’opposto del nostro. In seguito, l’acceleratore di particelle LHC falliva nel tentativo di confermare la teoria delle supersimmetria scoprendo le attese particelle predette dalla teoria; e più di recente, nel 2018, il fisico Cumrun Vafa – uno dei maggiori stringhisti in circolazione – dimostrava l’impossibilità di ottenere dalle diverse soluzioni di compattificazione delle dimensioni nascoste un universo con costante cosmologica positiva come il nostro, dove cioè l’energia oscura agisce accelerando l’espansione dell’universo anziché portarlo a curvarsi su sé stesso sotto l’effetto della gravità: ergo, le versioni attuali della teoria delle stringhe non sembrano in grado di descrivere il nostro universo.
Da qui il ritorno in auge delle alternative. Era bastato scoprire Edward Witten leggere nella biblioteca del suo dipartimento gli articoli sulla teoria dei twistor di Roger Penrose per diffondere nella comunità degli stringhisti la convinzione che bisognasse necessariamente iniziare a cercare altrove i pezzi mancanti del puzzle. La gravità quantistica a loop non aveva un grande ascendente: non prevedeva nessuna nuova particella, rispetto allo zoo di squark, fotini, wini e zini che richiedeva la supersimmetria; non aveva bisogno di postulare dieci o undici dimensioni spaziali, ma solo le tre che conosciamo; faceva a meno di brane, spazi di Calabi-Yau e multiversi; partiva piuttosto da un concetto molto semplice: lo spazio in cui ci muoviamo non è continuo, ma discreto. È un insieme di minuscoli quanti di spazio, che insieme determinano lo spazio-tempo che conosciamo. Ciascuno di essi ha una dimensione molto vicina alla più piccola possibile, la lunghezza di Planck. Quantizzando lo spazio-tempo, che la relatività generale descrive in termini di geometria, diventa possibile ottenere una teoria di gravità quantistica e unire così insieme le due grandi descrizioni dell’universo, quella einsteiniana e quella quantistica.
Le cose, per la verità, sono più complicate di così, come spiega Jim Baggott in Quanti di spazio. Mentre i precedenti testi divulgativi sulla LQG erano stati scritti dai padri della teoria – Three Roads to Quantum Gravity (2000) e L’universo senza stringhe (2006) da Lee Smolin, La realtà non è come ci appare (2014) e L’ordine del tempo (2017) da Carlo Rovelli – Baggott è un giornalista e divulgatore scientifico, autore di testi di grande rigore sulla fisica, ma anche noto fustigatore dei costumi disinibiti di molti fisici teorici che, pur di difendere le loro teorie, non esitano a sacrificare gli stessi fondamenti della scienza (è la tesi di Farewell to Reality: How Modern Physics Has Betrayed the Search for Scientific Truth, pubblicato nel 2014). A differenza, quindi, degli autori precedenti, che in quanto scienziati hanno tutto l’interesse a far passare le loro teorie come prive d’imperfezioni, Baggott mette la teoria sotto osservazione e, dopo aver raccontato le avventurose vicende personali dei suoi protagonisti e ricostruito i percorsi intellettuali che hanno portato al suo sviluppo, ne analizza anche i limiti e i vicoli ciechi.
Proprio un vicolo cieco era stato il punto di partenza della LQG: ci erano finiti dentro John Wheeler e Bryce DeWitt nel loro tentativo di ottenere la funzione d’onda dell’universo, ossia la tipica descrizione dinamica di un sistema quantistico applicato però all’intero universo. Era un passo necessario se si voleva sviluppare una teoria di gravità quantistica secondo la proposta wheeleriana di geometrodinamica; ma l’equazione di Wheeler-DeWitt otteneva come risultato una visione stazionaria del mondo, un universo immobile, perché privo della variabile tempo. Non poteva essere diversamente: una particella quantistica agisce in un intervallo di tempo che è dato dal suo sistema di riferimento (per esempio quello del laboratorio che effettua l’esperimento), ma al di fuori dell’universo non esiste alcun sistema di riferimento con cui misurare il passare del tempo. Julian Barbour, un fisico indipendente che viveva in un cottage seicentesco nei dintorni di Oxford, aveva accettato la sfida di Wheeler-DeWitt e, approfondendo il principio di Mach, che non prevede sistemi di riferimento privilegiati, pervenne all’idea, poi ripresa da Lee Smolin, secondo cui
“la teoria cercata poteva essere intesa solo come una rete di relazioni che evolvono in modo dinamico, dalla quale in qualche modo emerge lo spazio-tempo come lo conosciamo”.
Nacque così l’idea di linee di forza che formano anelli (loop) chiusi, i quali non esistono nello spazio – ciò sarebbe incompatibile con la descrizione della relatività generale – ma le cui relazioni definiscono lo spazio. Lo spazio, dunque, emergerebbe dall’interazione reciproca tra linee di forza quantizzate che formano anelli chiusi: i quanti di spazio.
“Questi rappresentano i costituenti dello spazio, formato da un tessuto – in realtà più simile a una maglia d’acciaio fatta di anelli concatenati, che un lenzuolo fatto di fili intrecciati”.
I nodi degli anelli definiscono il volume, le linee di forza le aree: un’idea derivata dalle reti di spin di Penrose, un tentativo di costruire una descrizione di spazio granulare e relazionale. Restava il problema della dinamica. Come avvengono i processi fisici in una simile descrizione della realtà? Dov’è il tempo nel quale avvengono i processi fisici? Si può avere cambiamento in assenza di tempo? Accogliendo la concezione relazionale ispirata al principio di Mach, la risposta è sì: il cambiamento è dato dalle trasformazioni della geometria di una rete di spin, cioè dal cambiamento nel numero di nodi e collegamenti della rete. “La «tracciatura» dell’evoluzione dei nodi e dei collegamenti descrive una transizione tra diversi stati quantistici dello spazio”, la cosiddetta schiuma di spin: “schiuma”, per sottolineare che questo processo non è continuo ma discreto, ossia quantizzato.
“Lo spazio evolve a scatti, «saltando» da una configurazione all’altra”. Un’idea – quella della schiuma quantistica – dovuta a Wheeler, che l’aveva coniata per descrivere “uno spazio-tempo gonfiato in una spuma di geometria distorta”
(Wheeler, 1998 cit. in Baggott).
Il bordo di una regione di schiuma di spin, vale a dire la sua area, contiene l’informazione su tutte le possibili configurazioni di quella regione, considerata come un unico sistema quantistico, secondo la formulazione dovuta a Richard Feynman per cui la dinamica dei sistemi quantistici può essere descritta come l’insieme di tutti i suoi cammini (per esempio quelli tracciati da una particella dalla sua emissione al suo assorbimento). Ecco dunque che diventa possibile ottenere una fisica dinamica anche nella gravità quantistica a loop. Resta però il problema della dinamica delle particelle all’interno della LQG. In che modo è possibile ricavare dalla teoria il modello standard delle particelle, come punta a fare la teoria delle stringhe? Il fatto è che quest’ultima – ci ricorda Baggott – “è essenzialmente una teoria delle particelle”, mentre la LQG è “una teoria della geometria spaziotemporale”, il che si scontra con il fatto evidente che “la natura non è solo geometria spaziotemporale” ma comprende anche molte altre cose.
Il limite con cui si è scontrato lo sforzo dei teorici della LQG negli ultimi anni consiste nel fatto che quando i campi quantistici fermionici – ossia i campi di energia che esprimono le particelle che compongono la materia che conosciamo, i fermioni – sono fissati a un reticolo come necessario nella LQG, si ottengono particelle aggiuntive, un fenomeno detto “raddoppiamento fermionico”. Questi doppioni dovrebbero cancellarsi in qualche modo che però rispetti la curiosa preferenza dell’interazione debole per i solo fermioni sinistrorsi con i quali interagisce, rompendo la simmetria di parità. Ma la formulazione canonica della LGQ non riesce a riprodurre questo comportamento e secondo Smolin “questo rappresenta un ostacolo notevole alla plausibilità della LQG come descrizione della natura”. Ciò non toglie che la LGQ continui a generare idee nuove e rivoluzionarie: come con la teoria delle stringhe, molte di queste potrebbero rivelarsi sbagliate, o magari “neanche sbagliate”, ossia sostanzialmente inutili, mentre altre potrebbero rivelarsi intuizioni in grado di illuminare nuovi campi della conoscenza. La concezione relazionale della LQG è oggi alla base di una riformulazione della meccanica quantistica nota appunto come “meccanica quantistica relazionale”, che promette di risolvere molti dei paradossi tipici della teoria.
Inoltre, il fatto che lo spazio non sia assoluto ma discreto, e che dunque esista una “unità minima” di spazio oltre il quale non è possibile spingersi, implica la scomparsa delle singolarità, ossia dei punti dello spazio in cui la densità della materia dovuta alla contrazione gravitazionale raggiunge valori infiniti, come al centro dei buchi neri e al Big Bang. Ne consegue che i buchi neri non dovrebbero contrarsi all’infinito, ma “rimbalzare” una volta che la contrazione ha raggiunto il volume minimo di spazio possibile, generando ciò che Carlo Rovelli e Francesca Vidotto chiamano “stella di Planck”, il cui nucleo rimbalza in un tempo che, per un osservatore esterno, è praticamente infinito, a causa della dilatazione gravitazionale prodotta; ma ne consegue soprattutto che il Big Bang viene sostituito da un “grande rimbalzo”, il Big Bounce. La LGQ fa quindi solo apparentemente a meno della congettura del multiverso. Non implica, come la teoria delle stringhe, almeno 10500 universi diversi, ma suggerisce che “l’universo attuale potrebbe essere stato creato dall’universo che esisteva prima del rimbalzo”. E poiché dopo un rimbalzo il nuovo universo sarà leggermente diverso da quello precedente, non è detto che queste variazioni – che si sostanziano in valori delle costanti di natura leggermente difformi a quelle che conosciamo – non assomiglino ai diversi universi descritti dagli spazi di Calabi-Yau. Non è infatti da escludere che alla fine teoria delle stringhe e LGQ si rivelino aspetti di un’unica grande teoria ancora da scoprire (o inventare), come sospetta Lee Smolin, che le descrive come “gemelli siamesi, nel senso che esprimono la stessa idea fisica di dualità tra campi quantistici e oggetti stessi”. Conciliazione a cui Rovelli non ha mai creduto fino in fondo, ma su cui ammette di star cambiando idea, come rivela al termine del libro di Baggott.
La comunità dei teorici delle stringhe sta infatti virando, negli ultimi anni, sullo studio della corrispondenza AdS/CFT di Maldacena, che presuppone una descrizione olografica dell’universo, in cui dall’informazione inscritta sul bordo dell’universo emerge lo spazio-tempo che conosciamo a più dimensioni, e nello studio della congettura ER = EPR proposta da Leonard Susskind e Maldacena nel 2013, secondo cui la connessione tra particelle legate dal fenomeno dell’entanglement quantistico avverrebbe attraverso wormhole spazio-temporali, il che rappresenterebbe una possibile connessione tra meccanica quantistica e relatività generale. Entrambe le ipotesi si reggono su idee che la LQG sta già esplorando da molti anni: la descrizione dei cammini di Feynman sul bordo delle schiume di spin rispetta la proprietà olografica, mentre le linee di forza dei loop che possono collegare punti distanti dello spazio attraverso l’entanglement quantistico preconizzano la relazione ER = EPR. Sembra dunque che la teoria scartata dagli stringhisti possa essere destinata a diventare pietra d’angolo di una nuova descrizione della realtà.
- Jim Baggott, Farewell to Reality: How Modern Physics Has Betrayed the Search for Scientific Truth,
- Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano, 2014.
- Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
- Lee Smolin, Three Roads to Quantum Gravity, Orion, Londra, 2000.
- Lee Smolin, L’universo senza stringhe. Fortuna di una teoria e turbamenti della scienza, Einaudi, Torino, 2007.
- John A. Wheeler, Geons, Black Holes, and Quantum Foam: A Life in Physics, W. W. Norton & Company, New York, 2010.
- Peter Woit, Neanche sbagliata. Il fallimento della teoria delle stringhe e la corsa all’unificazione delle leggi della fisica, Codice, Torino, 2007.