L’Oriente, un Oriente lontano e favoloso, è la sede di ogni possibile meraviglia in un testo latino dalle origini problematiche: la famosa Lettera del Prete Gianni. Si tratta di una delle leggende più suggestive appartenenti all’immaginario medievale, relativa a un re-sacerdote, invano cercato dai viaggiatori europei e dagli esploratori, e localizzato in una delle “Indie”. Una vicenda articolata e suggestiva da cui si dirama la vicenda raccontata dal bel libro di Maurizio Paolillo, Un enigma medievale al tempo di Marco Polo. La storia prende il via grazie a Giovanni da Montecorvino (1247-1328), missionario francescano che lasciò l’Italia nel 1289, come inviato in Oriente del papa Niccolò IV (Girolamo Masci, 1227-1292). In una delle sue lettere dal Catai, datata 8 gennaio 1305, Giovanni da Montecorvino descrive la conversione dal nestorianesimo al cattolicesimo di un “Re Giorgio”, capo degli Öngüt, “della stirpe di quel grande Re che fu detto Presbitero Giovanni”. La conversione avrebbe portato all’edificazione della prima chiesa cattolica in Asia Orientale: qui, secondo la narrazione di fra Giovanni, il Re Giorgio, dopo aver ottenuto gli ordini minori, avrebbe concelebrato la Messa. Gli Öngüt apparterrebbero infatti proprio a quelle genti turco-mongole convertite al verbo nestoriano. Occorre tenere presente che il nestorianesimo è una fede non propriamente in linea con il credo romano. Centro della predicazione nestoriana fu la città di Edessa in Siria. In seguito alla condanna di Nestorio nel Concilio di Efeso (nel 431), la scuola persiana di Edessa rimase per qualche tempo il centro spirituale del cristianesimo siriaco orientale.
Il Prete Gianni sul trono in una mappa dell’Africa Orientale (da un atlante del 1558).
Nell’anno 489, tuttavia, la Scuola di Edessa fu chiusa dall’imperatore Zenone (425 ca.-491) e, dopo il suo ingresso nella Mesopotamia romana, da allora in poi la letteratura nestoriana si sviluppò prevalentemente nell’ambito della chiesa dello Stato sasanide, espandendosi sino all’interno dell’Asia. Il credo nestoriano affermava che in Cristo convivevano non solo due nature, l’umana e la divina, ma anche due persone; negava quindi l’unione ipostatica, cioè l’unione tra la parte divina e quella umana di Gesù. Di conseguenza si negava a Maria l’appellativo di “Madre di Dio” (Theotokos), ritenuta genitrice solo della persona umana di Gesù e non di quella divina. Segmenti autonomi della fede nestoriana si svilupparono quindi anche in Mongolia e in Turkestan, e in tutti quegli spazi dell’Asia centrale dov’è più facile ritrovare i fondamenti ideologici e culturali della Lettera del Prete Gianni. Nel Milione di Marco Polo, il Prete Gianni è protagonista di uno scontro mortale con Gengis Khan, che lo vedrà soccombere. Proprio qui troviamo un importante riferimento al Re Giorgio. Nella versione latina del manoscritto poliano, Giorgio è definito come un suo discendente di quarta generazione; in quella francese troviamo, accanto alla definizione chiarissima di Mungoli, l’etnonimo Ung, sovrapponibile foneticamente a Öngüt.
La fusione dei due poteri
Il Re Giorgio sembra poi aver realizzato nella sua persona quel connubio sacro tra funzioni temporali e sacerdotali che era attributo principale della figura del Prete Gianni – a cui sia Giovanni da Montecorvino che Marco Polo lo ricollegano. Se dall’ambito pragmatico dei moventi storico-politici passiamo ad analizzare le possibili ascendenze simboliche del tema della comunione dei due poteri nella tradizione occidentale, troviamo un chiaro riferimento in uno dei personaggi più enigmatici della Bibbia, il quale raccoglie in sé entrambe le funzioni: Melkiṣedeq, Re di Salem; una figura che è il modello su cui si fonda sia il sacerdozio cristiano (Salmi 110, 4), sia l’idea tutta esoterica (e poi complottista) del Re del Mondo. Vicenda dunque appassionante, fiorita, come si diceva, da una storia il cui ramo principale è costituito dall’intreccio tra verità storiche e leggende intorno alla figura del Prete Gianni.
Un personaggio favoloso
Il nucleo storico del misterioso personaggio, conosciuto come Prete Gianni (in latino, Presbyter Johannes), da cui le forme derivate Presto Giovanni, Prete Ianni, Prete Giannio oppure Prestre Ioon, sembra risalire a un Giovanni, patriarca degli Indi, giunto a Roma, durante il pontificato di Callisto II (Gui de Bourgogne, 1060 ca.-1124), nel 1122. A questo Prete Gianni si attribuisce la scrittura della sovracitata Lettera, in cui è raccolta un’ampia descrizione di un meraviglioso regno orientale. Le versioni latine più antiche di tale documento, vergato da un autore sconosciuto, risalgono alla metà del XII secolo. Il Prete Gianni si autodescrive nella Lettera come un sacerdote cristiano, sovrano delle tre Indie, estese da Babilonia in Occidente sino al Paradiso terrestre in Oriente, e dal Polo Nord sino all’Equatore. Nella lunga descrizione di tale sterminato regno sono compendiati gran parte delle mirabilia che troveranno posto nell’immaginario dell’Occidente medievale. Sin dalla sua comparsa, la Lettera è stata molto popolare: del testo latino esistono all’incirca duecento manoscritti e quattordici edizioni in stampa, mentre ne sono state trasmesse numerose traduzioni in quasi tutte le lingue europee, persino in ebraico e in russo. Spesso si notano parecchie differenze fra i vari testi.
Meraviglie e visioni: il contenuto della Lettera
La storia del Presbyter Johannes ha inizio nel 1165 quando all’imperatore bizantino Manuele I Comneno (1118-1180) viene recapitata una strana Lettera, scritta in un perfetto latino, poi inviata per conoscenza, a Roma, al papa Alessandro III (Rolando Bandinelli, 1100 ca.-1181), e in Germania, all’imperatore Federico Barbarossa. Lo scrivente, rivolgendosi al Comnemo, si qualifica come “Giovanni, Presbitero, grazie all’Onnipotenza di Dio, Re dei Re e Sovrano dei sovrani”, discendente di uno dei tre Re Magi e “signore delle tre Indie”, dove la tradizione voleva localizzata la tomba dell’apostolo Tomaso. Afferma di avere sconfitto le masnade islamiche di Persia e, offrendo i propri servigi per una guerra contro i nemici comuni, manifesta l’intenzione di riunire tutti i cristiani per liberare Gerusalemme assediata dalle truppe del Saladino e il Santo Sepolcro di Cristo. Il misterioso monarca non si risparmiava nell’elargire dettagli, tutti nell’ordine del meraviglioso e del favoloso, a proposito del proprio regno, descritto con particolare riguardo alle sue ingentissime ricchezze e alle meraviglie che vi si trovavano, invitando l’imperatore e con lui, lo sottintendeva, anche gli altri re europei, a verificare di persona visitando il suo regno.
Un primo avvistamento
Il primo europeo a citare il Prete Gianni è Ottone, vescovo di Frisinga (1112 ca.-1158), nella Chronica sive Historia de duabus civitatibus, completata nel 1157. Ottone raccontava di aver appreso dell’esistenza di un re nestoriano in Oriente, durante un incontro tenutosi a Viterbo nel novembre del 1145, presso la corte pontificia di Eugenio III (Pietro Bernardo dei Paganelli, 1080-1153). L’arrivo improvviso del vescovo siriano da Gabala, annunciava un evento importante per la cristianità: l’anno precedente Edessa era caduta nelle mani dell’atabeg selgiuchide Imād al-Dīn Zangī (1085 ca.-1146), pretesto più che sufficiente per giustificare la preparazione di una seconda Crociata. La città costituiva infatti un punto strategico per gli Stati crociati, lungo il confine con la Siria. L’intento dell’incontro era quindi il reperire alleati contro il dilagare delle armate islamiche; ed è così che il vescovo avanzò l’ipotesi di coinvolgere il potentissimo sovrano che regnava ad Est del nemico, stringendo quest’ultimo su due fronti con una mossa sicuramente vincente. Va precisato che nella notizia di Ottone, il Prete Gianni è identificato come “nestoriano”, come si è visto una fede non allineata con la fede romana.
L’irresistibile ascesa della potenza mongola
In ogni caso, con il XIII secolo, l’interesse dell’Occidente nei confronti dell’Asia venne determinato anche dall’irruzione sulla scena politica ed economica della potenza mongola, alla quale si guardava come una possibile alleata contro l’Islām. È papa Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi di Lavagna, 1195 ca.-1254) a inaugurare una serie di tentativi diplomatici, inviando alla corte del Gran Khan, dopo il concilio di Lione del 1244, un missionario francescano di nome Giovanni da Pian del Carpine (1182 ca.-1252). Anche se la missione non ebbe esiti positivi, il resoconto di viaggio del monaco è forse la prima vera testimonianza diretta di un’area geografica sino ad allora sconosciuta. Proprio nel resoconto del suo viaggio in Mongolia, l’Historia Mongalorum, troviamo importanti riferimenti al Prete Gianni, ancora strettamente legato al continente indiano. Sembra, infatti, che uno dei figli del Khan, fosse stato inviato contro gli Indiani, e una volta superati gli Etiopi, fosse giunto finalmente nell’India Maggiore, e lì sconfitto dagli eserciti del Prete Gianni. È verisimile, però, una confusione operata da Giovanni da Pian del Carpine tra esperienze vissute in prima persona e narrazioni registrate durante il viaggio. L’India appare smisuratamente grande, estesa sin nelle regioni afgane, nel Turkestan e Khwārezm, ad Est dell’odierno Iran, dove effettivamente esistevano principati turchi di fede cristiano-nestoriana. Alcune fonti fanno ipotizzare che il nome Prete Gianni derivi dal titolo wang khan: un composto dal cinese wang re e dal turco khan “principe”; ovvero il titolo del regnante la regione turco-mongola alla fine del XII secolo, che all’orecchio di un occidentale poteva facilmente suonare “Johannan”.
La versione di Marco Polo
Dopo Giovanni da Pian del Carpine è, come si è anticipato, Marco Polo ne Il Milione a parlare del Prete Gianni, questa volta non più sovrano dell’India. Secondo il mercante veneziano, il Prete avrebbe rifiutato con sdegno la proposta di sposare una delle figlie del Khan, suscitando così l’ira dei Tartari e la battaglia che gli costò la vita. Anche in questo caso possiamo notare il tentativo di far coincidere le proprie conoscenze, derivate per lo più da racconti e leggende intorno alla figura di Gianni, con l’apprendimento sul posto di eventi storici realmente accaduti, riveduti alla luce di nuove categorie interpretative. Qui il veneziano allude probabilmente alla vittoria di Temüjin (che diventerà per l’appunto Gengis Khan), sul suo vecchio compagno d’armi il Wang Khan Togrul, detto anche Togril, sconfitto effettivamente intorno al 1200, e i cui discendenti vassalli nella regione di Tenduc, continuavano a sposare tradizionalmente le figlie del Gran Khan. La notizia permette quindi stabilire un legame diretto tra la dinastia gengiskhanide e quella cristiana dei Mongoli Kerait, uno dei cinque maggiori gruppi tribali convertitisi al nestorianesimo nell’XI secolo, e dominanti nell’area a Nord dell’India, grossomodo in corrispondenza dell’odierno Tibet.
Cambio di rotta… e di pelle
Una fase successiva della leggenda del Prete Gianni vede lo spostarsi dell’interesse etnografico all’Etiopia. Giordano Catalani di Séverac (1280 ca.-1330 ca.) nei Mirabilia Descripta del 1329 circa, parla dell’Etiopia e quando si riferisce a Gianni, ricorda come il nome sia stato coniato dagli occidentali per indicare il sovrano locale, noto come Zān (da cui Gianni). In questa terra la conversione al cristianesimo risale al IV secolo, ma l’espansione dell’Islām in area egiziana e del Sudan, aveva interrotto i contatti con il resto d’Europa, contribuendo alla commistione di diverse influenze dell’eterodossia cristiana, in particolare gnostica. Uno scritto importante, la Historia trium regum (del 1370 ca.) del carmelitano Giovanni di Hildesheim (1315 ca.-1375), relaziona la figura dei tre Magi evangelici al Prete Gianni. Gli avvenimenti dovrebbero svolgersi nella città di Sāweh in Persia, alla frontiera della provincia di Hamadān, una città nota a Marco Polo come Sava e a Giovanni da Hildesheim (†1375) come Seuva, piuttosto che nella regione etiopica dello Scioa.
Mappa dell’Africa e del regno del Prete Gianni dal Theatrum Orbis Terrarium… di Ortelius (1573).
Il mutato spazio geografico implica anche una mutazione etnica. La carnagione di uno dei Magi cambia quindi di colore: all’inizio è Balthasar, il Re Mago barbuto e in età adulta, ad avere la carnagione più scura. Altre, numerose rappresentazioni vanno però in senso contrario, e il Re Mago dalla pelle nera è il più giovane e imberbe, Gaspare. Così, per esempio, lo dipingono Rogier van der Weyden nel 1450 e Albrecht Dürer nel 1504. Gaspare è il Re dell’India o dell’Asia, un mondo lontano e sconosciuto che l’Occidente medievale recepisce nei modi e nelle forme descritti nella Lettera del Prete Gianni. Il fantasmatico Regno del Prete Gianni diventa quindi l’Etiopia, terra di meraviglie paradisiache. Gianni cambia così colore di pelle oltre che ambiente, ma questo non attenua minimamente l’attrattiva esercitata sull’Occidente europeo. Sembra quindi abbastanza logico che il principe iranico (sistanico), il terzo Re Mago, raccolga questa eredità, tingendo la propria epidermide con il colore che l’immaginario collettivo pensava per il popolo asiatico.
Variazioni sul tema
Ci sono poi alcune fonti che proverebbero l’esistenza storica di altri “prete Gianni”. Un personaggio particolarmente interessante è l’orafo toscano Marco di Bartolomeo Rustici (1392 ca.-1457), autore del Codex Rustici, famoso codice miniato compilato nel tra il 1447 e il 1448 che riproduce il suo pellegrinaggio. Il Rustici partì da Firenze a metà agosto 1441, e rimase in Egitto e Terrasanta fino alla Pasqua 1442 (I aprile). Se tale ricordo corrispondesse al vero, proverebbe l’esistenza di un altro prete Gianni e di una sua ambasceria. Ma l’Occidente aveva già sentito parlare di un patriarca Gianni asiatico ancor prima della diffusione della Lettera. Difensore della tomba dell’apostolo Tomaso, egli si presentò, attraverso una relazione anonima già nel 1122, anno in cui sostenne di aver fatto visita al papa Callisto II, meravigliando l’intera corte con la descrizione dei territori nei pressi del Pison, a lui assoggettati. Nello stesso anno, Odone, abate di Saint-Remi a Reims, confermò con una lettera, in veste di testimone oculare, l’arrivo dell’arcivescovo indiano a Roma, accompagnato da una delegazione bizantina. Nonostante il misterioso ospite resti anonimo, troviamo un racconto di miracolo che si ripete annualmente, a riprova della santità del corpo dell’apostolo Tomaso. Quest’ultimo infatti, verrebbe tirato fuori dalla tomba ed esposto nella cattedrale: al momento delle offerte egli alzerebbe il braccio per ricevere le offerte solamente di quanti siano nella giusta fede.
Il Prete Gianni in India, dalla mappa del cartografo italiano Vesconte de Maiolo (1516).
Negli Atti di Tomaso, un apocrifo vergato in siriaco tra il III e IV secolo proprio nella città di Edessa, snodo della cristianità aramaica d’impronta nestoriana, si narra di come nel momento in cui gli Apostoli si riunirono per decidere a chi competeva evangelizzare questo o quel paese, a Tomaso, intimo di Gesù, capitò in sorte l’India. Finirà i suoi giorni nei territori a nord dell’attuale Afghanistan, probabilmente, dove verrà massacrato a pugnalate dai soldati, un Tomaso ormai beatificato si ricongiungeva col padre celeste. Dopo il martirio la tradizione vuole che l’Apostolo sia stato sepolto in una tomba regale dal figlio di Mazdai, Vizān, convertito al cristianesimo; mentre lo stesso Mazdai anch’egli alla fine si convertirà al verbo cristiano (Acta Thom. 13, 170). È fattibile che, con il tempo, il nome Vizān si sia trasformato in Gian, appellativo del nostro mitico Presbitero; etimologia forse più comprensibile dell’etiopico Zān. Gianni, con le sue varianti linguistiche, è quindi un nome molto diffuso, sia in ambiti religiosi che politici. Tuttavia, le confuse nozioni geografiche, che mal distinguono una netta separazione tra i due continenti, e ancor più le relazioni marittime, rendono plausibile la conoscenza da parte delle comunità cristiane dei re dell’Africa orientale. Tutta la leggenda del prete Gianni, potrebbe quindi prendere le mosse da un bisogno della cristianità di ribadire le proprie origini, di ristabilire la propria supremazia in uno sfondo culturale che vede sempre più forte e vicina la presenza islamica.
Il discendente convertito
Un vero e proprio arazzo di storie sempre in bilico tra realtà e immaginazione, dentro il quale si colloca come si è detto la vicenda di Re Giorgio, la cui biografia, come rivela con acribia il Paolillo, è contenuta nel Yuanshi, la storia della dinastia mongola degli Yuan, dove egli è indicato con la trascrizione cinese Kuolijisi, corrispondente al siriaco Gīwargīs. Giorgio era figlio di Aibuqa, che con il fratello Kunbuqa regnava sugli Öngüt. Sua madre, Yüräk (o Üräk), era una delle figlie di Qubilai Khan (1215-1294), ed era senza dubbio nestoriana. Giorgio sposò prima Qutadmiš, figlia di Ĵingim, figlio di Qubilai, e poi dopo la sua morte Ayamishi, figlia di Tämür Ölĵaitü, figlio di Ĵingim.
Quanto alla verità della conversione operata su Giorgio dal missionario italiano, essa ha i tratti di una chimera, ma ciò riveste un’importanza sicuramente minore rispetto al valore di una possibile testimonianza archeologica di uno straordinario contatto tra Occidente e Oriente rimesso in luce dal libro di Maurizio Paolillo.
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