“Pier Pà è troppo!” Più o meno in questi termini Sergio Citti, secondo il ricordo di Pupi Avati, esternava il proprio stupore all’ascolto delle intuizioni di Pier Paolo Pasolini, durante la stesura della sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ispirato al romanzo del marchese Donatien-Alphonse-François de Sade (cfr. Avati, 2019), ma trasposto nel “1944-45 nell’Italia settentrionale durante l’occupazione nazifascista”, come recita la didascalia iniziale. Per la realizzazione, come già per le precedenti opere della “trilogia della vita”, il regista si affidò alla fotografia di Tonino Delli Colli e per le scene e i costumi, rispettivamente, ai futuri premi Oscar Dante Ferretti e Danilo Donati: se ne scorgono i volti (o se ne sentono riecheggiare i nomi) nel backstage curato dal giornalista e documentarista Gideon Bachmann, il cui materiale è custodito dall’associazione culturale Cinemazero. Dagli archivi di quest’ultima scaturiscono i contributi del dvd e del blu-ray proposti da Cecchi Gori Entertainment insieme al film, oggetto di un considerevole recupero nel 2015, effettuato dal laboratorio L’Immagine Ritrovata e premiato con il “Leone per il miglior film restaurato” alla LXXII Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. L’operazione, favorita dalla Cineteca di Bologna e dalla Cineteca Nazionale, si è avvalsa della collaborazione di Alberto Grimaldi e della supervisione di Carlo Tafani, rispettivamente, produttore e uno dei due operatori dell’ultima fatica pasoliniana in celluloide: quando ci fu la prima proiezione pubblica di Salò, il 22 novembre 1975 a Parigi, l’intellettuale era stato assassinato all’idroscalo di Ostia una ventina di notti prima.
Da Boccaccio a Sade, passando per Dante: genesi di un film
Fu l’addetto stampa Enrico Lucherini, rammenta Avati, a incoraggiare la produzione di pellicole stimolate da temi boccacceschi, proprio in seguito al successo de Il Decameron diretto da Pasolini, uscito nelle sale nel 1971. In quello stesso anno Avati ne incontra il regista per portargli una copia dell’allora introvabile romanzo di Sade. Da Le 120 giornate di Sodoma Avati aveva già tratto, con Claudio Masenza e Antonio Troisio, una sceneggiatura per conto della Euro International Film, suggerendo di affidare le riprese a Sergio Citti, per superare gli inevitabili ostacoli della censura ricorrendo, all’occorrenza, all’aiuto di Pasolini. Quest’ultimo, che disapprovò quella stesura, gli propose di riscriverla con lui e Citti: l’apporto dato al lavoro dello scrittore si limitò, in realtà, al fatto che Avati ne annotava le idee, mentre Citti si abbandonava a ruspanti manifestazioni di sbigottimento. Dopo il fallimento della casa di produzione, seguì l’investimento di Grimaldi, con Pasolini dietro la macchina da presa.
Dal Decameron, che aveva ispirato il primo capitolo della “trilogia della vita”, si approdò dunque a una rivisitazione de Le 120 giornate di Sodoma, col quale avrebbe avuto inizio una “trilogia della morte”. A meravigliare non è solo una distanza temporale, quegli oltre quattro secoli che separano le cento novelle di Giovanni Boccaccio dalla pubblicazione del marchese libertino, quanto quella nei contenuti: si passò da una “scelta decisa dal cineasta scrittore che voleva recuperare ed esaltare i valori del corpo, e in prima linea del vitalismo sessuale” (Casiraghi, 1995), caratteristico delle pagine del certaldese, a quell’esplorazione dell’azzeramento della personalità attraverso l’azione del potere sul corpo umano, illustrata da Sade, come confidato in un incontro sul set con Bachmann (Pier Paolo Pasolini: l’intervista sotto l’albero, secondo “extra” presente nella nuova edizione).
La costruzione del film è, tuttavia, influenzata dal capolavoro di un altro insigne trecentista, ma quello nei riguardi della Divina Commedia è un debito che è indizio di un legame profondo con Dante Alighieri, che, a partire dalla prima metà degli anni Sessanta, condusse a La Divina Mimesis, rifacimento pasoliniano dell’opera dantesca, interrotto ma ugualmente dato alle stampe incompiuto nel 1975, l’anno in cui Salò compariva nelle sale (cfr. Escobar, 1976). Il confronto con la prima cantica è una vera esigenza comunque dal punto di vista formale per assecondare la necessità di “chiudere come in una specie di involucro le cose terribili di de Sade e del fascismo. Per ottenere questo [occorre] una struttura che mantenga un ritmo ben preciso, ben determinato [,] dal carattere dantesco […] che poi [per Pasolini] era già nelle intenzioni di de Sade, dividendolo in gironi proprio come il verticismo teologico nell’inferno di Dante (Bachmann, Gallo, 1975).
All’interno di tale ordine avviene l’appagamento dei malvagi desideri di quattro “signori”: conservando i nomi e quasi gli stessi titoli del testo sadiano, essi sono il Duca Blangis (Paolo Bonacelli), suo fratello il Vescovo (Giorgio Cataldi, al quale il poeta Giorgio Caproni presta la voce), Sua Eccellenza il Presidente della Corte d’Appello Curval (Uberto Paolo Quintavalle), il Presidente Durcet (Aldo Valletti, doppiato dal regista Marco Bellocchio), espressioni, rispettivamente, del potere nobiliare, religioso, giudiziario e finanziario. Firmatari, nell’antinferno, di un rigido quanto abbominevole regolamento, essi sposano ciascuno la figlia di uno degli altri per unire per sempre i loro destini, conseguenze di quei patti terribili.
All’antinferno seguono i gironi delle manie, della merda e del sangue, componendo, nell’insieme, le quattro sezioni che articolano la pellicola. Quattro, numero ricorrente in Sade, sono anche le megere (tre che raccontano e una che suona il piano e la fisarmonica), le quali, oltre a procacciare le prede, rievocano, una per girone, turpi esperienze passate, attraverso una “narrazione [che] ha l’obiettivo d’infiammare l’immaginazione”, scandendo allo stesso tempo un crescendo di crudeltà negli aguzzini e di disperazione nelle vittime, immancabili ingredienti di ogni esperienza sadica.
Le centoventi giornate di Salò
“Quando decido di fare un film, lo decido perché ho una specie d’illuminazione che è l’idea formale del film. È la sintesi del film, […] e questo lampo l’ho avuto nel momento in cui ho deciso di trasporre Le 120 giornate di Sodoma nella primavera del ’44 e ho visto quindi la coreografia fascista”, aveva rivelato il regista a Bachmann. Agli ultimi anni del regno di Luigi XIV sono perciò preferiti quelli della Repubblica sociale italiana, cornice temporale ideale per una tragedia, mentre il Silling, l’immaginario castello circondato dalla Foresta Nera, è sostituito con una tenuta in Italia, emblema di quei luoghi di sevizie presenti nel centro-nord della penisola, ricordati genericamente con il nome di “Villa triste”. Lo fu, tra le altre, la Pensione Jaccarino, uno dei luoghi di tortura della banda del famigerato Pietro Koch e nella quale fu detenuto pure Luchino Visconti, fermato a Roma mentre, sotto falso nome, portava con sé delle armi (cfr. Bencivenni, 1995). Altrettanto eloquente è la visione del cartello stradale che indica il passaggio per Marzabotto, simbolo degli orrori della ferocia nazifascista.
Nel mezzo di una sanguinaria guerra civile, il bestiale sfogo dei signori e dei loro sodali si scatena contro le prede acciuffate soprattutto fra la prole degli oppositori al regime, traditori dunque della volontà del duce, come i dannati di Dante furono rei di aver violato le leggi del Creatore, equiparazione che di per sé rammenta quel peccato di blasfemia che stabilisce la condanna di tutti i cesari da parte della Chiesa. In Salò, tuttavia, si consuma quell’infedeltà dei quattro perversi protagonisti ai tre capisaldi della formazione fascista dello Stato, esaltati, ma sostanzialmente mortificati, nella fase monarchica del governo mussoliniano: Dio è bandito ed è punito con la morte ogni atto religioso (come in de Sade), mentre le messinscene del Vescovo appaiono più vicine a una sinistra ritualità pagana; la patria, soggiogata agli ordini del führer che alla dittatura del duce aveva regalato soltanto la parvenza di una seconda vita, è assente dagli interessi dei quattro signori, ispirati più da vendette personali; la famiglia, già umiliata nelle storie raccontate dalle megere, specialmente se coinvolgono minori, è calpestata dagli atteggiamenti ultralibertini stimolati dalla follia distruttrice.
Di quest’ultima il regista non risparmia nulla allo spettatore, sebbene due “extra” (un backstage e un montaggio degli scatti della fotografa di scena Deborah Beer con l’audio registrato da Bachmann), incentrati sulle riprese di una delle sequenze più raccapriccianti, propongano un alternarsi fra scena e retroscena con un Pasolini che, nel mentre, è impegnato perfino a organizzare uno dei tanti incontri di calcio nei quali era appassionato giocatore. Il fascino del gioco del calcio lo aveva ovviamente sedotto sin dagli anni della scuola, quando pure lui respirava l’atmosfera del regime del quale aveva vissuto alcune tappe del processo di educazione della gioventù fascista, inclusa la partecipazione, da universitario, ai Littoriali della Cultura e dell’Arte.
Una lunga indagine sul potere
“L’unica vera, grande assoluta Anarchia, è quella del potere […] qualsiasi cosa ci venga in mente, la più folle e inaudita, la più priva di senso, possiamo scriverla in questo quadernetto, ed essa diviene perfettamente legale; se poi saltasse in mente di cancellarla, essa diverrebbe immediatamente illegale. Le leggi del potere, non fanno altro che sancire questo potere anarchico, […] e ciò vale per qualsiasi potere”.
Tali parole, attribuire nella sceneggiatura a Curval e dirette a Blangis, mettono in risalto l’essenza arbitraria del comando, ma esso è anche codificatore e ritualistico: il regista spiegò, infatti, a Bachmann che se, in Salò, aveva lasciato che s’incrociassero due ritualità, quella piccolo-borghese e quella militaresca nazifascista, al documentarista ugualmente sottolineò che ogni civiltà ha i suoi riti, ai quali l’uomo aderisce perché conformista, una qualità sociale che contrasta e vince quella biologica che è narcisistica e ribelle.
Scrutare l’umana attitudine a sopraffare l’altro caratterizza buona parte della filmografia, e non solo, di Pasolini. Innocenti Totò (Totò) e Innocenti Ninetto (Ninetto Davoli), in Uccellacci e uccellini (1966), non sono forse intermediari, in qualità di carnefici o di vittime, a seconda delle circostanze, di quella forza che caratterizza relazioni sociali notevolmente diseguali? Il corvo, figlio del dubbio e della coscienza e loro compagno di viaggio, li avverte, però, dell’eventualità che, da divoratori di pesci piccoli, si trasformino in pasto per quelli più grossi e voraci, come immancabilmente avviene.
Sono anelli di una catena lunga quanto il mondo, da quando esistono i “falchi che sono prepotenti [e i] passerotti che sono umili”, le due classi (è menzionato proprio tale termine) ai quali frate Francesco aveva chiesto di predicare rivolgendosi a frate Ciccillo e frate Ninetto (sempre Totò e Davoli): in un racconto nel racconto, questo collocato nel Duecento, il santo di Assisi preannunciava, inoltre, l’arrivo di “quell’uomo dagli occhi azzurri” cui attribuisce le parole di papa Paolo VI sul progredire della giustizia capace di risvegliare la società circa le disuguaglianze che affliggono l’umanità.
Il pianeta, tuttavia, ha accelerato, nel frattempo, la produzione dei mezzi impiegati anche per commettere soprusi di vario genere, perpetuando quanto succede nell’episodio di Porcile (1969) ambientato agli albori dell’età moderna, come suggerisce l’elmo e l’arma che uno dei protagonisti (Pierre Clémenti) ha sottratto a un cadavere, prima dell’incontro con l’altro (Franco Citti): i due, attraverso la micidiale combinazione di più uomini e più strumenti di morte, moltiplicano la potenza omicida, interrotta solo da una miscela più consistente di quelli elementi, ma alla fine loro avversa. Meno visibilmente cruenta, ma non meno spietata, è l’altra vicenda narrata nel film, in cui un potente industriale (Alberto Lionello) fronteggia il suo avversario (Ugo Tognazzi) che gli si presenta con un perentorio: “Io sono qui come concorrente. Vengo a distruggerla, com’è nella regola, per non farmi distruggere da lei”. Lo scontro resta solo verbale e conduce a un finale sodalizio all’insegna di un reciproco ricatto che in parte rievoca un passato orribile, lo stesso di Salò, poiché uno di essi non è altro che un luminare un tempo al servizio del Terzo Reich, tornato alla ribalta letteralmente con un volto nuovo grazie a una plastica facciale. Il consolidamento delle fortune dei due colossi pare confermare certi ragionamenti del marchese espressi nel romanzo sulle sventure della virtù: “La civiltà, pur sovvertendo le leggi di natura, non le ha tolto i suoi diritti”, afferma Dalville, lo spregevole falsario, ennesima figura crudele in cui s’imbatte la triste Justine.
“L’uomo più ricco divenne il più forte, il più povero il più debole, ma per quanto riguardava la determinazione del potere, la prevalenza del forte sul debole fu sempre nelle leggi di natura, per la quale era indifferente che la catena del debole fosse tenuta dal più ricco o dal più forte e che essa incatenasse il più debole o il più povero”
(Sade, 2015).
È questo secondo episodio di Porcile, però, a tirare in ballo, attraverso il tormento del giovane Julian (Pierre Léaud) e l’ostinazione della caparbia Ida (Anne Wiazemsky), quella nemesi contro il sopruso perpetrato dal comando, che è quell’opposizione alle sue regole, vera vocazione del poeta civile Pasolini, ma che spesso può risultare sterile o incoraggiare una reazione ancora più schiacciante, come scolpito sulla lapide che appare nella prima inquadratura del film: “Interrogata ben bene la nostra coscienza abbiamo stabilito di divorarti a causa della tua disubbidienza”.
Dispotici privi di pietà, i quattro signori, con le megere e collaborazionisti assortiti, banchettano senza che negli altri presenti non vi sia che rassegnazione a ordini tanto brutali: è assente un confronto tra le parti, se non basato sulla subordinazione, come invece accade nell’altro pranzo, quello nuziale delle prime immagini di Mamma Roma (1962), nonostante si celi anche lì, seppure tra grosse risate e stornelli, una storia di sopraffazione, quella tra lo sfruttatore Carmine (Franco Citti) e la protagonista (Anna Magnani), che vuole tirarsi fuori dal suo passato di prostituta. Se nell’Angelo sterminatore (1962) di Luis Buñuel, che in un certo senso Salò richiama per quell’atmosfera claustrofobica di morte, è la situazione surreale a far cadere la maschera delle cortesi forme iniziali della civiltà, nella pellicola tratta da Sade si sa sin da subito chi comanda e cosa voglia. Del resto, “per tutto quanto riguarda il mondo voi siete già morti”, aveva tuonato il Duca alle prede catturate, riproponendo così il dantesco monito “Lasciate ogne speranza voi ch’intrate” in quell’inferno preparato con dovizia di particolari e dal quale una liberazione sembra possa avvenire solo con il trapasso.
- Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, Il Castoro, Milano, 1995.
- Ugo Casiraghi, Il Decameron, in inserto redazionale al supplemento al numero 191 del 19/8/1995 de L’Unità, supporto integrativo al n. 29 dell’opera Capolavori italiani.
- Roberto Escobar, Pier Paolo Pasolini. Salò o le 120 giornate di Sodoma, in Cineforum, n. 153, aprile 1976, Bergamo.
- Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis, Mondadori, Milano, 2019.
- Gideon Bachmann, Donata Gallo (a cura di), Conversazione con Pier Paolo Pasolini, in Filmcritica, anno XXVI, n. 256, agosto 1975, ITER, Roma.
- Donatien-Alphonse-François de Sade, Justine ovvero Le disgrazie della virtù, Newton Compton Editori, Roma, 2016.
- Donatien-Alphonse-François de Sade, Le 120 giornate di Sodoma, Newton Compton Editori, Roma, 2016.
- Andrea Sanseverino, Visioni infernali: il cinema italiano e l’Inferno di Dante, in Roberto Colonna (a cura di), Simbolismo e laicità in Dante e nelle opere di ispirazione dantesca, in Pagine inattuali, n. 2, Arcoiris, Salerno, 2012.
- Pupi Avati, La vita è un film – Pupi Avati e le 120 giornate di Sodoma, Cinemazero, 2019.
- Pier Paolo Pasolini, Il Decameron, Koch Media, 2014 (home video).
- Pier Paolo Pasolini, Porcile, Mustang Entertainment/CG Entertainment, 2019 (home video).
- Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, Warner Home Video, 2013 (home video).