Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie
Giuseppe Ungaretti
L’influsso potente di Philip K. Dick sull’immaginario contemporaneo si estende ben oltre i soggetti forniti per la realizzazione dei numerosi film tratti dalle sue opere. Le ipotetiche visioni, “as if” views, o lucide profezie dickiane, riversandosi dalla finzione narrativa ai processi reali, hanno nutrito una produzione cinematografica stagliata sugli orizzonti del connubio simbiotico tra l’uomo e la tecnologia, dell’inserimento del corpo umano nel panorama mediatico, della dissolvenza del naturale nell’artificiale e della dissoluzione del reale consuetamente esperito nelle illusorie immagini offerte dai mezzi di comunicazione.
Nel bisogno di penetrare nei meandri della coscienza, non rimanendone tuttavia prigioniera, nell’ansia irrisolta di fissare i tratti della Storia, nonostante la sua perenne instabilità, e nell’assiduo e pensoso scrutare l’uomo e il suo crearsi, la narrativa dickiana non soltanto rispecchia in maniera critica la realtà sociale, in particolare rivolgendo un’attenzione morbosamente dubbiosa al progresso, ma raccoglie il flusso informe del magma vitale, traducendosi in una teoria dell’esistenza che posa lo sguardo sulle tensioni dell’agire, sulla permanente corruttibilità della materia e sul katastrophikòn in cui si contrae il tempo ingordo e predatore.
L’indagine dickiana sonda le profondità, spesso sconosciute, dell’inner space, scosso da radicate paure e nebulosi desideri, istintuali pulsioni di un’umanità che, attrezzandosi con la tecnologia, progredisce per sconfiggere la propria debolezza, ricolonizza il vissuto per affermare la propria forza, si trasforma molecolarmente e sussume quantitativi sempre più massicci di informazione nel sé concreto della carne, per imprimere un ritmo prolungato al ciclo biologico, per comprenderne e controllarne le scansioni.
I protagonisti dickiani, sradicati dalla dimensione spazio-temporale che segna la realtà ordinariamente percepita, appaiono come tirati da fili che tendono a spezzarsi quanto più sembra di aver colto la vita in un punto preciso, di averne carpito il fine, sia pure caduco, il senso, sia pure effimero, la destinazione, sia pure transitoria. La marionetta di Dick non è più solo destinata a svolgere la funzione di last man in Europe, come accade nell’opera orwelliana (cfr. Panella, 1989), ma trascende al drammatico ruolo di cosmic puppet. Non è data infatti alla conoscenza umana la possibilità di afferrare lo sfuggente reale, mentre lo scenario rimane invariabilmente quello del tempo fuori luogo degli infiniti multiversi, dell’oscuro scrutare che illude e tradisce, del labirinto di morte che intrappola e soffoca e dell’artista di scarti, che, in questa dimora terrena, non può far altro che conservare e attendere:
“la realtà, per me, non si percepisce, si crea. La si crea più di quanto lei crei noi. L’uomo è la realtà che Dio ha creato dalla polvere; Dio è la realtà che l’uomo ricrea continuamente per mezzo delle proprie passioni e della propria determinazione. Il «Bene», per esempio, non è una qualità o addirittura una forza che stia dentro o sopra il mondo, bensì ciò che si riesce a fare con le schegge e i frammenti insensati, inquietanti, deludenti, crudeli e persino letali che ci circondano e ci appaiono come pezzi dimenticati, scartati, di un mondo completamente diverso che, forse, aveva un senso”
(Dick, 1997).
Uno dei romanzi americani più significativi del Ventesimo secolo, Confessions of a Crap Artist (cfr. Williams, 1996), fu scritto da Dick nel 1959 e pubblicato nel 1975. Nel 1992 fu presentata a Cannes una sua trasposizione cinematografica abbastanza fedele col titolo Confessions d’un Barjo, diretto da Jérôme Boivin, e sceneggiato da Jacques Audiard e dallo stesso regista, film sperimentale che ottenne un discreto successo di critica, ma non suscitò l’interesse delle distribuzioni ufficiali. Caratterizzata da un’atmosfera sospesa tra il divertimento surreale e il dramma esistenziale, la pellicola intreccia la tensione metafisica della produzione dickiana alla trama del microcosmo domestico, trasportando la storia dalla società americana della fine degli anni Cinquanta a quella francese dell’inizio dei Novanta.
Questa ricontestualizzazione testimonia, ancora una volta, l’ineludibile potenzialità degli scritti di Dick di rivelarsi puntualmente in ogni traduzione comunque attuali e di offrirsi generosamente a duttili ridefinizioni, grazie all’urgenza interpretativa che li anima, alla consapevolezza ultima dell’impossibilità di accedere a una verità conclusiva e alla profondità burrascosa di riflessioni relative alle assurdità fondamentali della vita:
“La mia opera di scrittore, in toto, rappresenta il mio tentativo di prendere la mia vita, e tutto quanto ho visto e fatto, riplasmarla in modo da conferirle un senso. Non sono certo della mia riuscita. In primo luogo, non posso falsificare quello che ho visto. Vedo disordine e sofferenza, e non posso non scriverne; ma ho visto anche coraggio e ironia, e quindi ci metto anche questo”
(Dick, 1997).
Le ipotesi che riguardano i “massimi sistemi, il destino del mondo, […] le scelte abissali che i personaggi sono chiamati di volta in volta a compiere” (Di Costanzo, 1994) investono il romanzo e il film, orientandone il contenuto, permeato dell’umorismo insinuante del tono narrativo, spesso di vibrato riepilogo, che rende lieve il canto della solitudine, ma non meno incisivo il racconto della pena di vivere, percorso da una carica emotiva scoperta e costante. Sia Dick sia Boivin non sembrano voler commentare le vicende, ma nello stesso tempo non si pongono al di là della storia, aderiscono completamente ai personaggi anche se al contempo se ne distaccano, come si può evincere dai discorsi mentali che si dipanano liberamente, per poi intrecciarsi indissolubilmente nei tradizionali soliloqui, che trascorrono senza soluzione di continuità nello stream of consciousness, e nei monologhi riprodotti dal narratore.
Accadimenti d’amore e morte
Le vicissitudini acquisiscono, per ognuno dei protagonisti, un senso differente attraverso gli spiazzamenti, i ribaltamenti di prospettiva, i capovolgimenti di valore, e la storia raccontata da Dick, pur dispiegandosi con assoluta leggerezza, risucchia gli individui nel gorgo di umani, troppo umani accadimenti d’amore e morte. Fay, tanto sensuale quanto aggressiva e insensibile, è tormentata dalle tipiche nevrosi delle donne borghesi, il marito Charley, pragmatico e incolto, prototipo dell’American self-made man, è torturato da un malessere interiore che diventa insostenibile, Nathan, giovane e spaesato intellettuale, si allontana da una moglie innamorata per lasciarsi stregare dalle lusinghe erotiche dell’affascinante Fay, e il fratello di quest’ultima, Jack, l’artista del titolo, ricrea le forme di vecchi pneumatici, colleziona originali cianfrusaglie e crede in Atlantide, nelle percezioni extrasensoriali e nell’imminente fine del mondo.
Il crap artist Jack Isidore di Seville, California, fa rivivere, nel nome e nelle eccentriche aspirazioni, Isidoro di Siviglia, autore medievale spagnolo “il quale scrisse un’enciclopedia, la più piccola mai composta: circa trentacinque pagine, per quanto ricordo” (Dick, in Williams, 1996), considerata un capolavoro di compilazione erudita per un periodo di tempo, come ritiene lo stesso Dick, “dannatamente lungo” (ibidem). Jack, come Barjo, è attratto da un’informazione-spazzatura ridotta a brandelli, a frammenti di notizie senza fondamento, a cascami di sapere e a detriti di pensiero, riverbero culturale della vorace corruttela, dell’onnivoro disordine che scompone l’universo dickiano rosicchiandolo, accumulando polvere radioattiva, fanghiglia dilagante, avanzi putrescenti e liquame stagnante. Nel nome del crap artist risuona anche la presenza di un altro Isidore, John, lo “speciale” dall’inetto apparato sensorio e dalla psiche minata, prodotto della contaminazione nucleare di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, unico personaggio di questo romanzo a non essere sicuramente un androide, un umano contraffatto, che, nella propria disperata solitudine, cela l’ultima difesa dell’autenticità umana (cfr. Dick. 2020b).
Una “normale” idiozia
Eroe clownesco dall’anima immacolata, smarrito in un idios kosmos assolutamente scevro di preconcetti e totalmente immerso nella frammistione di autentico e immaginario, Jack, così come viene descritto in una lettera di Dick del 19 gennaio del 1975, appare “incapace di distinguere il dato concreto dalla fantasia: vede il mondo attraverso i propri occhi come un’esperienza bizzarra e indimenticabile. Non è un personaggio nella tradizione dei famosi «idioti» di Faulkner e Dostoevskij; la sua idiozia è abbastanza vicina alla nostra normalità da spaventarci” (Williams, 1996). Come la prospettiva principale nel libro è quella di Jack, così nel film il commento off è affidato a Barjo, avvezzo a interrompere i dialoghi con i suoi pensieri e con la lettura dei suoi appunti, annotati compulsivamente, frutto di meditazioni riguardanti l’umano comportamento, flusso coscienziale inesauribile, che aiuta a costruire gli avvenimenti, slargandone i confini temporali. L’attore Hyppolyte Girardot interpreta lo stravagante personaggio del titolo, che, dopo aver accidentalmente incendiato la propria casa durante un esperimento, è costretto ad andare a vivere con la sorella gemella, Fanfan, e suo marito Charles, proprietario di una fabbrica di alluminio. Nella nuova abitazione, Barjo, proprio come Jack, mantiene le proprie confusionarie abitudini, come catalogare vecchie riviste, sperimentare bizzarre invenzioni, aspettare gli extraterrestri e riflettere riguardo alla prossima distruzione della Terra.
Le cronache di questo personaggio naïf, che osserva attentamene gli individui che orbitano intorno alla propria sfera, raccontano dei frequenti scontri tra Fanfan e Charles, e vengono utilizzate dal regista, sulla falsariga di Dick, come singolare punto di vista per rappresentare, da un’ottica ingenua e inusuale, l’insormontabile difficoltà dei rapporti tra uomo e donna. La disarmante visuale di Barjo-Jack, tingendosi di amara comicità, offre una “caleidoscopica galleria degli orrori” (Caramiello, 1987) attraversata da ipocrisie e tradimenti, da una sessualità impietosamente votata all’annullamento dell’altro, anche quando è vincolata alla conciliante istanza riproduttiva, e dalle ottenebranti menzogne, a tratti rischiarate da flebili barlumi di verità mai definitivamente tali, rivelate dall’acida descrizione dickiana di cui Boivin non esita ad appropriarsi. Disadattato e incompreso, incapace di entrare nel gioco che la vita spietatamente gli offre, di sperimentarne le passioni, incapsulato nel bozzolo della propria costituzionale inettitudine, Barjo-Jack simboleggia dunque un’esemplarità di modesta portata, non manifestata dal gesto straordinario, ma dall’esaltazione del quotidiano, che si riconosce nella confessione continua dello stato d’animo, nel racconto della coscienza in fieri e del sentimento del tempo umano.
Incessante scavo nell’inner space
Definito da Dick nella lettera sopra citata “uomo indulgente, capace di valutare senza pregiudizi […] il cuore e le azioni di uomini come lui, […] una specie di eroe romantico” (in Williams, 1996), il barjo crap artist si mostra forse più adatto a ricordare emblematicamente il progressivo sfarinamento della soggettività romantica nel mito dell’uomo decadente, avviluppato nel proprio solipsismo, ripiegato in una tenace introspezione, stretto in un’instancabile analisi dello spazio interiore esplorato a un livello di superficialità solo apparente, che finisce per palesare i germi di un orrifico sfacelo. L’alieno, fondamentale figura nell’opera di Dick, viene così a costituire in questa storia, sia sulla pagina scritta sia sullo schermo, una sorta di “congettura mitologica”, una forma di materializzazione, di proiezione nel vuoto degli archetipi dell’inconscio collettivo (cfr. Jung, 1997; 1998), quelle immagini arcaiche, primordiali, appartenenti al patrimonio comune dell’umanità, risultato di esperienze ricorrenti nella vita, come la nascita, la fuga dal pericolo o la morte (ibidem).
Serie di ologrammi proiettati che agiscono come trasformatori, trasduttori di creature universal-oniriche (Dick, 1997), contenuto subliminale divenuto visibile, insorgenza dell’«inconscio filogenetico» (Dick, 1997), epifania di inquietanti misteri nascosti nella psiche collettiva umana, la presenza aliena si caratterizza come simbolo dell’irruzione dell’incomprensibile nel territorio della realtà ordinaria, e dallo spazio esterno affiora come alienazione nello spazio interno. Nel formicaio delle esistenze, “ombre che fluttuano nell’aria, dirette verso il nulla” (Dick, 1996), si transita verso realtà parallele, mondi alternativi, universi altri, che nelle Confessions di marca americana e francese sono dominati dai ritratti sovrapponibili di Jack e Barjo, abitanti di una riserva non tanto protetta di cui sono al contempo demiurghi e destinatari: entrambi, assorti nella reiterata riflessione, non si scagliano contro la prossimità della fine, attendendo invece con rassegnata trepidazione l’ineluttabile avvenire di estinzione cui è condannata l’umanità, la pervicace opera di fagocitosi che satanicamente corrode materia ed energia, per poi rendersi conto di essersi sbagliati, che il mondo non sarà cancellato, non subito almeno, e riuscire a sopravvivere a questa straordinaria presa di coscienza. Nel conflitto tragico con la realtà brutale della vita balenano patetici guizzi superomistici, che celebrano, con inerme e donchisciottesca disperazione, la volontà di liberazione suprema dall’inanità del vivere, se mai affrettando i tempi, contraendo quella parabola della quale qualcun altro sembra possedere l’intelligenza complessiva, agendo attraverso la sussunzione titanicamente soggettiva dell’inesorabile dissipazione, realizzata dal suicidio rivelatore di Charley:
“Vi fu una luce, invece di un suono. Lui vide, per la prima volta. Vide tutto. Vide come lei [Fay] lo aveva manovrato, come lo aveva portato a quel punto. Vedo, si disse. Sì, vedo. Morendo comprese tutto”
(Dick, 1996).
Le velleità titaneggianti, che, a volte, sferrano un’accanita e inutile lotta alle imperscrutabili forze che deteriorano, alla finitezza umana e all’invalicabilità di quel limite, contrastano al contempo la segreta voluttà di essere annichiliti, la pulsione di morte coltivata gelosamente dall’individuo e dall’umanità intera:
“attratto da tutto ciò che [può] portarlo fuori da sé, in una dimensione in cui la sua identità [perde] i contorni per riconoscersi nella molteplicità di un nulla trascendente, [Dick finisce, così, attraverso tutta la sua opera] per trasformare la fantascienza in una parabola sull’incubo terminale dell’universo – quello di riprodursi, espandersi, moltiplicarsi, dissiparsi fino a un’estatica cancellazione dei propri confini”
(Brolli, 1995).
D’altro canto, la cultura dickiana dell’apocalisse (Pagetti, 1989), e la sua traduzione nel cinema, che utilizzi o meno i canoni della science fiction e che preveda o meno una palingenesi della nostra Terra, rimanda a quella fondamentale, perversa capacità di sopravvivere adattandosi, il più forte potere posseduto dall’uomo: e “non di sopravvivere come bestie, bensì come autentici esseri umani che fanno cose autenticamente umane” (Dick, 1997), continuando a condurre l’esistenza in paesaggi infernali attraversati da catastrofi variamente declinate. Le fiere delle aberrazioni dickiane, oltre ad esibire masse aggrovigliate di organi e carne mutanti, mostri umanoidi dotati di piume, scaglie e code, creature dallo sguardo triste che sbirciano dal corpo di altri esseri, infecondi “vicoli ciechi” (Dick, 2020), offrono alla vista oscene carrellate di morte, con animali domestici accasciati, intenti fino a un attimo prima a brucare placidamente, per poi essere inchiodati improvvisamente al suolo dalla pistola impazzita di un uomo tradito, tra disperati nitriti, striduli belati e strazianti mugolii (Dick, 1996).
L’ironia dissacrante e demitizzante delle Confessions, in versione sia letteraria sia cinematografica, non diluisce dunque l’orrore di un quotidiano unheimlich, non domestico né familiare, contro cui l’unico rimedio appare proprio il totale annientamento, come sembra voler suggerire tristemente Dick, quando nell’ellittica conclusione di Seth Morley, personaggio di Labirinto di morte ribadisce il valore di quella che epistemologicamente e ontologicamente si presenta come la sola realtà possibile: “La nostra sola speranza: la morte” (Dick , 2021a).
E proprio quella levità umoristica, che non stempera però le tinte cupe delle oppressive visioni dickiane, sembra proporsi, sia nel libro sia nel film, come forma di sconsolata salvezza, vista la vanità dell’azione umana, come espressione di una saggezza senza conforto di fronte alle ragioni incontrastabili dell’esistenza, come unico, esile ancoraggio rispetto al naufragio cosmico della vita, che, nonostante i calcoli dell’umana intelligenza, descrive imprevedibili percorsi, lasciando all’uomo la percezione della pericolosità dell’errore e dello scompenso tra progetti e risultati, mentre il terreno della pratica si sgretola sotto il piede che avanza per calcarlo. Contro la vittoria dell’indecifrabilità dell’esistenza a nulla valgono le mistificazioni, le illusioni, le evasioni, perché sempre l’indomabile mistero denuda e pone crudamente dinanzi alla sconfitta. E a nulla vale l’infinita ricerca di un senso, di un senso ultimo, scandagliando i recessi della vita interiore di un uomo che, svestito delle sue spoglie individuali, assurge a simbolo rappresentativo di una condizione che impone un sofferto trapasso senza riscatto. Durante l’attacco di cuore di Charley, foriero di raccapriccianti sventure, assistiamo sgomenti ai tentativi di immersione della vita, non ancora esaurita, nella terra:
“Poi cadde in avanti, e mentre cadeva allungò le mani verso il terreno, poi ve le affondò dentro e le strinse. Strappò pezzi di terra, se ne riempì le mani, li mangiò e li bevve, e ne respirò l’odore, ma perse il respiro, tentando di mandarli giù, dentro i polmoni. E dopo non riuscì a fare più nulla”
(Dick, 1996).
Come in un gioco di dissolvenze, ci sorprenderà, poi, il riaffiorare della vita esanime, il suo rinascere dalla fossa, tra quei fiori rinsecchiti e quelle erbacce ammuffite del cimitero di Forest Knolls, avvolto dalle entropiche ombre di In senso inverso. E ci stupiremo, infine, quando la vita stessa si tramuterà nel suo contrario, per risorgere potentemente, ancora una volta, dal suolo, insieme all’azzurro e spettrale “fiore del futuro” (Dick, 2019), che dissemina degenerazione e disperde esistenza, la Sostanza Morte di Un oscuro scrutare. Tutta la produzione dickiana, come Boivin sembra acutamente cogliere, è attraversata dalla vibrante ripercussione del vuoto: “nulla di ciò che potevano fare aveva importanza. Erano ormai polvere radioattiva, tutti quanti. Solo manciate di polvere bruciata, nera e radioattiva” (Dick, 1996). Jack-Barjo dunque è costretto a rinunciare a garanzie di comodo, come quelle che si fondano sull’idea di potersi affidare a una qualche forma di provvidenzialità, razionalità o necessità: non leggi, né logiche conseguenze di principi sono alla base degli eventi, che si verificano senza regolarità, e dei quali inutilmente si ricerca la causa nei salti di una temporalità discontinua, scardinata, out of joint, o addirittura invertita, upside down, che dunque non procede linearmente, ma per rotture e capovolgimenti.
Le forze cosmiche militano contro l’immutabilità della rutilante realtà, e, con lo sgretolarsi delle costruzioni simbolico-culturali, fugaci e deperibili, l’individuo dickiano si trova improvvisamente ad affrontare il problema di trattare con il mondo al di là del suo Io, del suo consueto sé sociale, e di patteggiare, quindi, con l’altro: il soggetto, incarnato efficacemente da Jack-Barjo, destinato fatalmente alla dissoluzione, diviso dall’ambiente, tende, con tutta probabilità, a divenire sempre più diviso anche da se stesso, sempre più disintegrato e sempre più alienato (Taylor, 1976). Come tutti i romanzi animati da principi etici di affievolita risonanza metafisica, ma radicati nei movimenti e nelle esperienze di vita, Confessioni di un artista di merda, proiettando i suoi potenti riverberi sulle immagini delle Confessions cinematografiche, consuma interamente il proprio significato nel modo stesso in cui inizia:
“Io sono fatto di acqua. […] Anche i miei amici sono fatti di acqua. Tutti quanti. Il nostro problema è che non solo dobbiamo andarcene in giro senza essere assorbiti dal terreno, ma anche che dobbiamo guadagnarci da vivere. In realtà c’è un problema ancor più grosso. Dovunque andiamo non ci sentiamo a casa nostra. Perché?”
(Dick, 1996).
Dall’incipit, ricorso a una tragedia che continua incessantemente a compiersi, l’autore sortisce un epilogo epico, non conciliante come quello del film, ma che, non ignorando lo spaesamento prodotto da un’impotenza così ingiusta, induce a interpretare il romanzo alla luce delle parole conclusive di Jack, pronunciate dopo aver deciso di servirsi dell’aiuto di uno psicanalista selezionato grazie a un calcolo delle probabilità di successo terapeutico:
“Sulla base delle mie scelte passate, mi sembra piuttosto evidente che non posso fidarmi del tutto della mia capacità di giudizio”
(Dick, 1996).
Tutto riprende allora a giocarsi sul proposito di un ricominciamento più responsabile della vita, sulla coscienza dell’inesistenza di quella che potrebbe esser definita una fondamentale sicurezza epistemologica, che non distrugge però la motivazione all’azione, e sulla consapevolezza dell’assenza di certezze ontologiche, legata nel brulichio del microcosmo allo scacco biologico e nel ribollimento del macrocosmo alla propulsione entropica (cfr. Frasca, 1989). Jack-Barjo, uomo assolutamente marginale, outsider dall’anima contemplativa, che sembrerebbe soccombere alla morsa feroce della quotidianità che lo attanaglia, antieroe, che ossessivamente cerca di reperire un significato in qualsiasi accadimento, si adopera come può nel processo di ricostruzione di un senso sempre penultimo da attribuire all’insensata infinità dell’esistenza, non solo per registrare la realtà, ma per contribuire a produrla, almeno provvisoriamente, come struttura logica, attraverso l’osservazione attenta delle storie possibili delle caduche individualità creatrici di valori, chiamate, di volta in volta, a ridisegnare direzioni, riconfigurando destinazioni.
Nel dolente e straziato tentativo di decifrare le irrisolte ambiguità e nel pertinace e maniacale accumulo di scorie del vissuto, l’eccentrico crap artist, solitario barjo, presente alla propria fragilità, ma non meramente appiattito sul rischio dell’esistere, aspira a superare il movimento caotico dell’accadere storico e ad affrontare la labilità della sorte umana.
Si ricapitola dunque dalle origini, e, pur incarnando un sogno d’innocenza, aderisce fedelmente al reale, mantiene il contatto con i contrasti del concreto, non se ne allontana con artifici mistificanti, ma accetta uno stato di perenne precarietà, sentendo il tempo e l’effimero in relazione con l’eterno, nell’ansia costante dell’impossibilità di un definitivo ancoraggio conoscitivo e dell’ineludibilità di un’essenziale, imperitura finitudine.
- Daniele Brolli, Istruzioni per l’uso, in Philip K. Dick, Vedere un altro orizzonte, Bompiani, Milano, 1995.
- Luigi Caramiello, Il medium nucleare, Edizioni Lavoro, Roma, 1987.
- Linda De Feo, Philip K. Dick. Dal corpo al cosmo, Cronopio, Napoli, 2001.
- Philip K. Dick, Confessioni di un artista di merda, Fanucci, Roma, 1996.
- Philip K. Dick, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, (a cura di Lawrence Sutin), Feltrinelli, Milano, 1997.
- Philip K. Dick, Un oscuro scrutare, Fanucci, Roma, 2019.
- Philip K. Dick, E Jones creò il mondo, Fanucci, Roma, 2020a.
- Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2020b.
- Philip K. Dick, Labirinto di morte, Fanucci, Roma, 2021a.
- Philip K. Dick, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2021b.
- Giuseppe Di Costanzo, 1994, Allarme Morte, in Il Mattino, 11 aprile 1994.
- Gabriele Frasca, Non vale far paura, 1989, in Gianfranco Viviani, Carlo Pagetti (a cura di), Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, Editrice Nord, Milano, 1989.
- Carl Gustav Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in Opere volume 9/1, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
- Carl Gustav Jung, Un mito moderno: le cose che si vedono in cielo, in Dopo la catastrofe, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
- Carlo Pagetti, Il sogno dei simulacri, 1989, in Gianfranco Viviani, Carlo Pagetti (a cura di), Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, Editrice Nord, Milano, 1989.
- Giuseppe Panella,“Dreams within Dreams”. Considerazioni sulla realtà illusoria della realtà in Philip K. Dick, 1989, in Gianfranco Viviani, Carlo Pagetti (a cura di), Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, Editrice Nord, Milano, 1989.
- Angus Taylor, Philip K. Dick e l’ombrello della luce, in Philip K. Dick, Le voci di dopo, Fanucci, Roma, 1976.
- Gianfranco Viviani, Carlo Pagetti (a cura di), Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, Editrice Nord, Milano, 1989.
- Paul Williams, Introduzione, 1975, a Dick Ph. K., Confessioni di un artista di merda, Fanucci, Roma, 1996.
- Jérôme Boivin, Confessions d’un Barjo, Centre Européen Cinématographique Rhône-Alpes, France 3 Cinéma, 1992.