Quando i videogiochi
attivarono il terzo occhio

Philip Kindred Dick
Chicago, 16 dicembre 1928
Santa Ana, 2 marzo 1982.

Philip Kindred Dick
Chicago, 16 dicembre 1928
Santa Ana, 2 marzo 1982.


Deckard si versa uno scotch mettendosi comodo sul divano dopo una lunga giornata a caccia di replicanti. Nel relax della sua tana l’investigatore si immerge in un indizio fotografico con l’aiuto di Esper, un computer a comandi vocali specializzato nell’allargare o restringere la vista magnificando ridicolmente dettagli invisibili. Sul filo dell’inverosimile, la scena di Blade Runner riesce a incalzare i limiti dell’immaginazione tecnologica del 1982 insinuando l’idea che un giorno i computer possano essere in grado di ricostruire interi blocchi di pixel mancanti percuotendo le foto a furia di algoritmi. Pezzi di realtà mancanti e simulate. La tecnologia che apre squarci tra piani diversi del reale giocando con l’invisibile e con le suggestioni del controluce.

Ridley Scott cacciatore di cult
Nonostante i suoi quarant’anni, Blade Runner è un film che invecchia bene, soprattutto per via della straordinaria coordinazione tra plot distopico, ricercatezza scenografica e luce. Per quanto il futuro possa essere il selling point della fantascienza, pochi film del genere si sono presi la briga di disegnarlo con la stessa cura messa da Ridley Scott in Blade Runner. Il regista britannico ha scelto di rendere il futuro strano ma al tempo stesso familiare innestando elementi del passato. Ha saputo tirare fuori il meglio da grandi artisti come lo scenografo Lawrence G. Paull o il designer industriale Syd Mead, dal quale Scott ha preso il raffinato futurismo visuale riprogrammandolo in uno sfondo urbano dal fascino quasi esotico sebbene sostanzialmente invivibile. Ma il merito principale di Blade Runner è senz’altro quello di aver portato alla ribalta il nome dello scrittore Philip K. Dick il cui romanzo Il cacciatore di androidi (Dick, 2020) pubblicato nel 1968 costituisce la base per la sceneggiatura del film. Curioso come la gloria postuma piovuta sullo scrittore continui a crescere soprattutto in virtù di elementi della contemporaneità che si collegano solo indirettamente al merito letterario come per esempio i gadget tecnologici e la percezione della realtà.

Emblematico che Blade Runner, una delle più potenti spallate audiovisive a scuotere le basi del nostro modo di percepire e di conoscere, discenda proprio dalla fantasia di Philip K. Dick, grande perturbatore della quotidianità che ha saputo strappare il tessuto del vedere-sentire-ricordare. Straordinario maestro nel concepire dubbi sulla consistenza del reale, Dick ha prodotto commistioni tra realtà e illusione capaci di competere con la vertigine che danno oggi le tecnologie per comunicare e per trafficare con le immagini sonore. Le investigazioni elettroniche partorite dalla fantasia di Ridley Scott sotto il segno di Philip K. Dick costituiscono snodi leggendari dell’immaginario perché alcune scene si sono rivelate straordinarie anticipazioni di modus vivendi e di avanzamenti tecnologici concreti legati alla cultura audiovisiva nella quale siamo oggi immersi. Il mobile computing sta completando una vera e propria invasione dei sensi collocando monitor, audiovisioni e realtà alternative/simulate in tutti gli interstizi della routine giornaliera e del tempo libero. Oggi, con la realtà aumentata, comincia a essere evidente quanto sia irrinunciabile per gli umani il bisogno di frapporre strati di informazione e di logos tra l’occhio biologico e l’universo dei fenomeni fisici.

L’immagine del reale come stratificazione di significati
L’inquadratura iniziale dell’occhio-specchio in Blade Runner  valga qui come bussola programmatica. C’è un piccolo racconto di Philip K. Dick pubblicato nel 1969 intitolato La formica elettrica (cfr. Dick, 2010) in cui l’androide protagonista Garson Poole decide di investigare sul suo modo di percepire la realtà manomettendo una scheda perforata (oggetti che in quegli anni costituivano gli antenati dei software) collocata nel suo addome. Poole intende mettere alla prova il nastro nascosto sottoponendolo a degli esperimenti. Ciascun foro definisce una precisa esperienza sensoriale. A nuovi fori corrispondono nuove visioni, colori, suoni. PKD ha praticamente inventato la cultura della simulazione decenni prima dei videogiochi immersivi e delle second life. Meglio ricordarlo oggi che dalle discariche della storia tecnologica si stanno cominciando a tirare fuori nuovi-vecchi metaversi. Perché oggi sempre più spesso ci affidiamo ad apparecchiature e sistemi che ci guidano nel navigare la realtà, catturando informazioni dal reale e sovrapponendovi strati di analisi mediate dai computer. In effetti Dick ha sempre giocato con il rapporto problematico tra percezione e realtà scrivendo eroi come investigatori post-noir che riescono a conquistare un pezzettino di verità solo scavando in complessi grovigli ipertestuali.

Nella scrittura di PKD i gadget fantascientifici sono sempre strumenti per navigare visioni: porzioni del presente, come le fotografie “aumentate” da Deckard con l’Esper; porzioni del passato, come le false memorie impiantate nei replicanti di Blade Runner o come il trattamento Rekall a cui viene sottoposto il protagonista di Ricordiamo per voi (breve racconto da cui è stato tratto il film Atto di forza); porzioni del futuro, come quelle catturate dai veggenti precog in Rapporto di minoranza (racconto da cui Steven Spielberg ha tratto il film Minority Report). Pezzi di spazio-tempo non vissuti direttamente ma che possono essere esperiti, ri-elaborati e ri-esperiti grazie alla tecnologia. Un percorso per avvicinare PKD in quanto spirito guida della contemporaneità potrebbe essere il capire le macchine (e i sistemi) che producono quelle visioni, strato dopo strato.

Pittura fiamminga e occhi di cyborg
In Blade Runner, il famoso monologo “ho visto cose” recitato dal morente Roy Batty esemplifica perfettamente le ambizioni di Ridley Scott e il suo discorso sulla percezione. Batty si strugge non tanto per il fatto di dover morire quanto per il fatto di non poter più vedere “i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser”. E si lamenta di non poter più ricordare quei momenti che andranno perduti come “lacrime nella pioggia”. Il replicante si fa dunque interprete degli elementi centrali della poetica di Dick simulando alla perfezione l’uomo e il suo innamoramento per il senso della vista. Roy Batty è “più umano dell’umano”, esemplificando la mission della Tyrell Corp. e di tutte le altre potentissime agenzie del consumismo concepite da Dick: fabbriche di occhi sintetici, di mondi virtuali e di ottimi slogan pubblicitari.
Blade Runner lavora sulla centralità della percezione visiva soprattutto in quelle scene che ruotano intorno agli indizi fotografici raccolti da Deckard e analizzati con il sistema Esper. A proposito delle istantanee di Leon, è straordinaria la risposta empatica che può fruttare la trovata di umanizzare un temibile Frankenstein ribelle semplicemente facendo sapere allo spettatore che costui scatta delle foto per uso personale. Affermazioni tangibili di memoria e quindi, in un certo senso, di identità. Nel contesto narrativo, queste rendono bene l’idea di umanità proprio in virtù della loro imperfezione. Seduto nella sua stanza, il soggetto è inquadrato male, in penombra, tenendo al centro dettagli insignificanti.

Estetica tipicamente amatoriale che esalta il sentimento a dispetto degli standard compositivi. Ma poi entra in scena il computer Esper: il cacciatore di androidi e lo spettatore navigano di dettaglio in dettaglio grazie al lavoro di Douglas Trumbull, supervisore agli effetti visivi. Si arriva allo specchio sulla parete in fondo grazie all’enfasi della fonte luminosa singola. Una composizione che richiama esplicitamente il quadro Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) dell’olandese Jan van Eyck il cui gioco di prospettive sposta il focus da una stanza all’altra. Apre inoltre uno squarcio concettuale nello spazio collocando all’interno dello specchio l’immagine del pittore stesso e di un altro testimone della scena. Proprio quello che fa l’occhio elettronico di Esper che riesce a svelare un’ulteriore presenza nella stanza di Leon frugando tra i pixel e ricostruendo angoli non inquadrati direttamente. Qui Ridley Scott, giocando sui piani della visione, porta alle estreme conseguenze tecnologiche il presentimento dei differenti piani della realtà in Dick.
In quanto illusioni realistiche il videogioco e le odierne tecnologie di augmented reality raccolgono queste intuizioni sulla stratificazione grafica e le rilanciano in nuovi standard industriali. Quello del layer è un concetto molto familiare agli appassionati di videogiochi che vivono in ambienti 3D sempre migliorabili a ogni salto tecnologico. Si parte dall’animazione di poligoni grezzi che si muovono seguendo principi fisici spesso basati sul lavoro del motion capture; al livello superiore ai poligoni si collocano le texture; ancora più sopra si danno le luci alla scena. Dall’introduzione di una foschia fino a un intervento specifico sulla fisica dei peli, sono poi infiniti i livelli di perfettibilità che possono stratificarsi uno dopo l’altro, migliorando il fotorealismo della simulazione.

Il videogioco e l’economia dell’attenzione
Ma quando poi l’ambiente sintetico viene messo al vaglio del gameplay in un videogioco, diventa necessario sovrapporre al tutto un ulteriore strato cognitivo costituito dall’interfaccia utente. Layer che, a differenza degli altri legati alla contemplazione e alla cattura delle immagini, deve necessariamente aprirsi a un dialogo operativo con le cose. Quanto più diventa complessa e fotorealistica la realtà simulata, tanto più i progettisti di software devono mettere in campo icone e sovraimpressioni fondamentalmente bidimensionali per consentire all’utente la comprensione e magari l’interazione con quanto rappresentato.

Nell’era delle tecnologie dell’informazione (cominciata proprio all’epoca dei capolavori anni Sessanta di PKD) all’abbondare dei dati e dei metodi per raccoglierli ed esporli corrispondono perturbazioni nei livelli di attenzione richiesti. Con l’economista Herbert A. Simon, diciamo che “in una società ricca d’informazione” viene per forza a scarseggiare qualche altra cosa e “questo qualcosa è l’attenzione” (Simon, 2019). Sempre all’epoca dei capolavori dickiani e alla vigilia dell’avvento di internet Simon ha parlato di “economia dell’attenzione”, evidenziando la precisione scientifica con cui tendiamo (soprattutto in ambito industriale) a trattare concetti quali l’informazione, l’intelligenza, la memoria, i processi decisionali e, per l’appunto, l’attenzione.
Viviamo in tempi in cui il mondo del lavoro è sempre più mobile e flessibile inseguendo le tecnologie e la scarsità dell’attenzione. Il task lavorativo tende a svalutarsi parallelamente alla diffusione del free­lancing. Si afferma una generalizzata parcellizzazione del lavoro in compiti sempre più piccoli e facili da apprendere. Viviamo in catene di montaggio che sono anche intellettive e che prediligono soggettività duttili e dalla memoria corta, tanto sul piano della capacità di produzione quanto su quello del piacere nel consumo. Un’umanità in sintonia con la mutevolezza dei sistemi produttivi e dei cicli economici.
Oggi quella videoludica è una delle industrie più fiorenti della contemporaneità e se la sta cavando egregiamente con l’economia dell’attenzione, contribuendo tra l’altro a focalizzarne alcuni meccanismi.

Benvenuti in Californium
Il funzionamento di un artefatto videoludico avviene su un crinale molto delicato fatto di informazioni e competenze del consumatore. Da notare che nella storia del videogioco c’è stato un momento in cui Philip K. Dick è stato chiamato esplicitamente in causa: il titolo si chiama Californium e si basa su elementi reali della biografia di PKD. Un punta e clicca tridimensionale dal gameplay farraginoso che però ha il merito di mostrare graficamente cosa accade quando quella superficie che chiamiamo realtà viene gradualmente decorticata lasciando intravedere cosa c’è dietro. La dinamica ricorda gli speciali occhiali da sole del film Essi vivono (1988) di John Carpenter (il dispositivo consente di vedere la realtà senza i filtri subliminali imposti dagli alieni), ma localizzato in porzioni specifiche della scena. Ancora una volta la logica degli strati di realtà tra i quali scavare.

Il punto è: perché il soggetto-giocatore dovrebbe farlo? Quali sono le motivazioni del giocatore nel percorrere il labirinto disegnato per lui? Che senso ha scavare se una cosiddetta realtà non è altro che uno dei tanti punti di vista? La risposta del gameplay di Californium rimanda tautologicamente alla curiosità del giocatore che viene sospinto nell’investigazione da glitches o elementi visivi fuori posto disseminati in scene tridimensionali.
L’arte del narratore-programmatore si esprime sul filo della sfida intellettiva, di ciò che viene mostrato o non mostrato, di quanto è difficile l’enigma per progredire, di come il giocatore possa essere coinvolto nell’intreccio, di come convincerlo a svolgere determinati compiti.

Un tutorial per salire dove osano le aquile
Ultimamente uno dei concept di cui si parla più spesso provando a pronosticare la next big thing in ambito tecnologico è la “realtà aumentata”: una modalità di visualizzazione dell’ambiente che sovrappone in tempo reale uno strato di informazioni al punto di vista del soggetto. Il più grande campo di sperimentazione di questa modalità è il mercato dei videogiochi ovvero laddove bisogna necessariamente prevedere interfacce e gameplay in grado di favorire un accesso universale agli universi sintetici costruiti.
Oggi è familiare a tutti il concetto di tutorial: un vademecum tendenzialmente agile che vorrebbe fungere da guida o libretto delle istruzioni senza però terrificare come una mole di pagine da leggere o come una slide Powerpoint. In un videogioco la curva di apprendimento di cosa si può o si deve fare viene spesso ammorbidita e resa elegante dalla presenza di un personaggio-tutorial concepito allo scopo di accompagnare e fungere da spalla/mentore. Parti di trama e istruzioni operative così disciolte armonicamente nel flusso di gioco-racconto. Ma a seconda della complessità del labirinto da affrontare oppure dello spirito di osservazione richiesto per risolvere certi enigmi ambientali potrebbero rendersi necessari altri strumenti come mappe o capacità percettive addizionali.

Quasi sempre in giochi con ambienti sintetici particolarmente complessi viene inserito un vero e proprio strato di intelligence, una visuale tattica che fluidifica l’azione, in particolare nei giochi in prima/terza persona. Questo layer si presenta quasi sempre come una alterazione cromatica della visualizzazione ordinaria così da mettere più facilmente in evidenza le specifiche informazioni da evidenziare. Spesso si presenta come un’aura che circonda determinati personaggi o come una mappa di calore a far risaltare determinate dinamiche fisiche o psicologiche. La prima vera percezione amplificata rispetto a un ambiente digitale tridimensionale è nella serie Assassin’s Creed, precisamente in quella visualizzazione chiamata eagle vision (“occhio dell’aquila” in italiano). Con la modalità eagle eye, il riferimento all’aquila c’è anche in Red Dead Redemption 2 che costituisce forse la punta più avanzata e compiuta delle avventure grafiche a mondo aperto. Da notare che questi pacchetti di poteri post-umani, facendo riferimento a nomi di animali o a questioni relative alla sopravvivenza del corpo biologico, ripropongono in universi artificiali problematiche già affrontate dal mondo animale: una sorta di animalità di ritorno. Il superpotere cognitivo verrà chiamato “focus” nel caso della protagonista Aloy in Horizon Zero Dawn, “vista acuta” in Immortal Fenyx Rising, “sensi witcher” in The Witcher 3: Wild Hunt. Il tasto R3 del pad attiva la modalità “istinto di sopravvivenza” in Lara Croft (protagonista di Rise of the Tomb Raider) così da evidenziare i passaggi segreti nelle vicinanze nonché i materiali da raccogliere per i potenziamenti.

In questa lista breve e non esaustiva di enhancement percettivi nel videogioco non poteva certo mancare qualcosa riguardante Batman, campione tra gli eroi della serialità novecentesca senza superpoteri di origine biologica e perciò votato alla dipendenza da gadget tecnologici. Nella serie videoludica Batman: Arkham spicca la stealth mode denominata detective che si presenta come un visore termico che garantisce informazioni preziose sui nemici in scena.
Detroit Become Human propone una variante interessante del sesto senso tattico offrendo la possibilità di andare avanti e indietro nel tempo per simulare gli effetti di una determinata scelta.

Siamo tanti piccoli superman con la vista a raggi X
Nella serie The Last of Us appare necessario potenziare l’udito e allora ecco che la percezione dei suoni viene migliorata quando ci si mette in listen mode, ovvero una modalità che consente di localizzare con una certa precisione persone o cose che emettono suoni. Anche attraverso le pareti. In Oltre il senso del luogo, Joshua Meyrowitz sottolinea come i media a schermo abbiano materializzato la possibilità per tutti di avere accesso a situazioni altrimenti invisibili a causa delle separazioni sociali e del distanziamento fisico che ne consegue (cfr. Meyrowitz, 1995). Con l’elettronica di consumo e internet abbiamo capito che i luoghi fisici non sono più le sole porte di accesso alla realtà: gli ambienti digitali e le informazioni che viaggiano nell’etere ridisegnando i perimetri di gruppi sociali e interessi politici. Siamo tanti piccoli superman e le pareti non possono più fermare la nostra vista a raggi X.

Il senso in più trascende i limiti percettivi dei personaggi giocanti ampliandone la prospettiva, analogamente a quanto succede con la suspense cinematografica, nei momenti in cui il regista fornisce allo spettatore elementi in più rispetto a quanto conosciuto dal protagonista. Le dinamiche di gioco stealth basate sulla gestione tattica di informazioni ambientali confermano le intuizioni della realtà stratificata dickiana poi rilanciate dal Blade Runner di Ridley Scott. Viviamo in un mondo sociodigitale e i dispositivi tecnologici tendono a sovrapporre strati di informazione su ciò che vedono i nostri occhi. Quanto più diventiamo abili nel governare questi dispositivi, quanto più questi dispositivi ampliano il nostro raggio d’azione, tanto più siamo in grado di decidere cosa vogliamo o non vogliamo vedere di ciò che abbiamo davanti.

Letture
  • Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2020.
  • Philip K. Dick, Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci, Roma, 2010.
  • Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995.
  • Herbert A. Simon, Il labirinto dell’attenzione. Progettare organizzazioni per un mondo ricco di informazioni, Luca Sossella Editore, Roma, 2019.
Visioni
  • John Carpenter, Essi vivono, Studiocanal, 2019 (home video).
  • Darjeeling e Nova Productions, Californium, Arte, 2016.
  • Guerilla Games, Horizon Zero Dawn, Sony Interactive Entertainment, 2017.
  • Naughty Dog, The Last of Us, Sony Interactive Entertainment, 2013.
  • Quantic Dream, Detroit: Become Human, Sony Interactive Entertainment, 2018.
  • Rocksteady Studios, Batman: Arkham Asylum, Eidos Interactive, Warner Bros Interactive, 2009.
  • Rockstar Studios, Red Dead Redemption 2, Rockstar, 2018.
  • Ridley Scott, Blade Runner (Final Cut), Warner Bros, 2011 (home video).
  • Ubisoft Montreal, Assassin’s Creed, Ubisoft, 2008.