Nel Matrix del 1999 conosciamo una prima simulazione di mondo nella quale Neo è un hacker. Il quarto sequel del 2021 Matrix Resurrections mette in scena una nuova installazione (chiamiamola Matrix 2.0) in cui ritroviamo Neo come game designer e co-fondatore di Deus Machina, impresa hi-tech ai vertici del capitalismo digitale. L’andamento della carriera del protagonista Thomas Anderson descrive bene lo stacco ieri/oggi in termini tecnologici. Non a caso nella nuova simulazione viene ostentato lo skyline di San Francisco, simbolica capitale dell’odierno mondo dei distretti industriali come la Silicon Valley. La saga si sposta tra le scrivanie dove si fabbricano videogiochi e algoritmi per l’intelligenza artificiale, cioè in quelle aziende-macchine dove si lavora all’incessante e irreversibile processo di digitalizzazione di ogni cosa. Cosa è rimasto dell’etica hacker anni Novanta? Quanto è cambiato il concetto di underground e l’atteggiamento anti-sistema nel corso di questi due decenni di internet?
In Matrix Resurrections lo scorrere del tempo lascia segni prima di tutto sui corpi e sulla dissonanza rispetto a ciò che mostra lo specchio. Interessanti i flash in cui Neo si specchia e vede Keanu Reeves mentre il pubblico scorge per un istante un altro Thomas Anderson “pelato hipster”, interpretato da Steven Roy, attore sposato dal 1999 con Carrie-Anne Moss (Trinity). Si punta a un senso di straniamento nel triangolare i vari alter ego dentro e fuori la matrice, in una vertiginosa sovrapposizione tra atomi sottoposti alle leggi della fisica e soggettività sottoposte alle leggi del desiderio. Con le macchine sempre sullo sfondo a promettere una serena immortalità.
Baccelli amniotici e nicchie di consumo
Anche le tecnologie sono molto cambiate in questi vent’anni. Gli umani hanno barattato la privatezza in cambio della facilità di utilizzo. Nel 1999, all’epoca della nascente rete globale, l’idea degli onnipotenti e invisibili hacker destabilizzava perché alludeva alla novità di un tipo di connessione in grado di arrivare ovunque. L’innovazione proveniva dalle fantasie di oscuri programmatori da cubicolo che lavoravano in open space che di open non avevano proprio niente. Si lavorava di notte alla costruzione del nuovo mondo, spesso da pirati ai margini della legge, quasi sempre in nome di una openness sostanzialmente incomprensibile ai più. Nel 2021 il world wide web appare meno selvaggio: un catalogo sterminato di ascolti, visioni e letture si è andato accumulando nei computer fornendo al pubblico un’irresistibile pillola blu. È finito il tempo dei giri di vite contro gli hacker (cfr. Sterling, 2004): le odierne culture nerd fluidificano il consumismo e sono sostanzialmente innocue rispetto al capitalismo della sorveglianza.
“Miliardi di persone che vivono le proprie vite inconsapevoli”, dice l’agente Smith guardando la città dalle vetrate del suo ufficio. Miliardi di corpi maschili e femminili particolarmente longevi ma ridotti a vegetali e cresciuti nei famigerati pod, baccelli individuali pieni di quel liquido sintetico che oggi può fungere da metafora per bolle social, nicchie di consumo o qualsiasi altra forma di intrattenimento.
Quelle pillole filosofiche del primo Matrix hanno avuto dunque un effetto piuttosto blando sugli usi e sui costumi della gente, sopita ogni velleità cyberpunk di quelle rivelazioni. Hanno lasciato un segno importante invece certe innovazioni visive lanciate proprio da quel film del 1999.
Risvegliarsi in un pod con in mano un gamepad
Nel primo Matrix, quando viene presentata a Neo la terrificante realtà dietro al velo della simulazione, la visuale è spesso in prima persona con Morpheus che guarda in macchina e spiega. Uno schema familiare ai videogiocatori: un personaggio funge da mentore nello spiegare le varie possibilità o aiutare a sbloccare situazioni di stallo. Nel 1999 siamo alla vigilia di una nuova era dell’intrattenimento videoludico: sta per affermarsi il gameplay a mondo aperto in cui il gioco di ruolo incontra la grafica tridimensionale. Con Matrix, il mondo scopre lo special effect denominato bullet time: quelle scene in cui Trinity, Neo e l’agente Smith se la spassano con le armi da fuoco tenendo in sospensione le traiettorie dei proiettili mentre un punto di vista indefinito inquadra contemporaneamente da più angoli. Il pubblico comincia ad assaggiare la possibilità di poter governare lo spazio della diegesi tramite un comando magico, di poter entrare nell’audiovisione e agire sul punto di vista in tempo reale. Con il joystick di sinistra mi muovo nello spazio, con quello di destra ruoto la visuale: uno standard ormai consolidato in tutte le interfacce videoludiche e materializzatosi negli attuali gamepad. Le sorelle Wachowski hanno sempre avuto un certo feeling con il videogioco come dimostra una dichiarazione a proposito di The Matrix Online (cfr. Chadwick, 2005).
Esperimento fallito (dichiarato morto dopo pochi anni) che però mostra chiaramente quello che gli autori stessi hanno definito come un naturale sbocco della saga, coerente con l’ideale di un pubblico partecipante attivo e non osservatore passivo. Anche Matrix Resurrections si colloca nel cuore dell’innovazione incardinandosi in una strategia sponsorizzata da Epic Games che vuole lanciare il suo motore grafico Unreal Engine, prevedibilmente alla base di parecchi dei prossimi kolossal videoludici. La demo Matrix Awakens lanciata da Epic in contemporanea con il film si posiziona in maniera convincente ad aprire la next-gen delle nuove console, a guardare verso nuovi orizzonti del fotorealismo videoludico.
Un modale per salvare il mondo (e gli sceneggiatori)
Bugs, una delle nuove leve a capo degli umani contro Matrix 2.0, ricorda a Neo che le scelte (anche fuori dalla simulazione) sono tutte illusorie, ciascuno sa già cosa deve fare. Esattamente ciò che accade nel modale di Neo: per capire meglio una realtà non molto convincente lo sviluppatore crea una simulazione in cui riproduce gli eventi del passato (o quello che sembra un sogno poi trasformato nel popolare videogioco intitolato The Matrix) in attesa di anomalie illuminanti. I personaggi sono vettori predestinati che, collocati all’interno di simulazioni ripetute all’infinito, possono originare collisioni inaspettate e quindi variazioni sul tema. In fondo, come spiega l’agente Smith: “raccontiamo sempre le stesse storie, solo con altri nomi, con altre facce”. Le nuove tecnologie hanno un ruolo nell’alimentare l’evoluzione della narratività in tutti i campi: software e algoritmi possono aiutare nella caccia alle idee con bozze di plot, what if, materiali grezzi da perfezionare e far confluire in storie originali. O meglio storie problematicamente originali. La scelta è un’illusione: in un certo senso anche quella dello sceneggiatore.
Slancio utopico stanco ma ancora necessario
Se nel 1999 Matrix cavalca l’onda dell’innovazione world wide web, permettendosi anche di sponsorizzare ambiziose istanze politiche come l’etica hacker, nel 2021 la tavola rotonda per progettare il nuovo videogioco firmato Thomas Anderson si riduce a un negoziato tra marketing, sceneggiatori e fan del bullet time. Il miraggio di pluralismo e massima diffusione della conoscenza si è disciolto in una rete frammentata e complessa. Si dà per scontato che una Matrix 3.0 debba esistere e che vada governata. Magari nel segno del meticciato uomini-macchine come mostra la città utopica di IO, e comunque uno spazio di simulazione aperto all’impossibile ovvero al non ancora possibile. Il punto di Matrix Resurrections è: mondi virtuali come i videogiochi, sempre più fedeli al mondo fisico, tendono a imprigionare la fantasia dei cervelli biologici o possono invece potenziarla mostrando nuovi possibili punti d’appoggio da cui partire e su cui costruire cose di cui non sappiamo ancora niente?
- Paul Chadwick, The Matrix Online, Paul Chadwick interviews the Wachowski brothers, 11 aprile 2005.
- Bruce Sterling, Giro di vite contro gli hacker. Legge e disordine sulla frontiera elettronica, Mondadori, Milano, 2004.