Mitologie del presente
e dei tempi che verranno

Peppino Ortoleva
Miti a bassa intensità
Racconti, media, vita quotidiana
Einaudi, Torino, 2019

pp. XXX – 360, € 25,00

Peppino Ortoleva
Miti a bassa intensità
Racconti, media, vita quotidiana
Einaudi, Torino, 2019

pp. XXX – 360, € 25,00


Distinguendo tra miti ad alta e a bassa intensità Peppino Ortoleva propone nel suo ultimo lavoro, Miti a bassa intensità, una stimolante metafora per esemplificare didatticamente i passaggi di stato nell’evoluzione del mito. Il mito è inteso come articolazione culturale che ci costringe (e probabilmente continuerà a costringerci ancora per molto) al confronto con interrogativi per definizione irrisolti. Cosa accade dopo la morte? Esiste un aldilà? Esistono creature superiori (o comunque radicalmente diverse) rispetto all’umano? Il mito è un ponte tra il vissuto dell’eroe (per estensione logica il vissuto di chiunque) e il cosmo (inteso come l’invisibile e l’inesperibile motore del mondo degli avvenimenti collettivi).

La centralità del mito
Miti a bassa intensità chiarisce anzitutto perché il mito è (ancora) così centrale in tutte le culture. Non importa se si tratta di storie vere o immaginarie: il mito risponde a un’esigenza di narratività universale, emersa sin dalle prime pitture rupestri in cui l’uomo raffigurava scene di caccia desiderando/auspicando (rivolto verso il futuro) o raccontando (al passato) qualcosa collocato altrove. Viviamo in un’epoca in cui si ritiene di aver portato a compimento quella lunga fase di disincanto che ha accompagnato e sostenuto lo sviluppo del logos occidentale nel corso degli ultimi secoli.
L’età contemporanea sembra orfana del mito e tendiamo a banalizzare la complessità delle culture pre-moderne (cfr. Brelich, 2003). Ma i miti non sono una esclusiva di culture prescientifiche (cfr. Leghissa, Manera, 2015). Non possiamo illuderci di poter fare a meno del mito come guida esistenziale grazie alla scienza perché anche quest’ultima si costruisce e si puntella attraverso narrazioni e quindi contribuisce alla produzione del mito. Ci sono dunque nodi cruciali irrisolti da cui scaturisce l’unico elemento costante in tutte le culture (moderne o pre-moderne) caratterizzate da miti o da narrazioni: il narrare come bisogno umano universale.

Il concetto di intensità
I miti ad alta intensità sono forme narrative che si manifestano attraverso riti e apparati di trasmissione persistenti nel tempo. Narrazioni antiche come la mitologia greca o le religioni, in quanto connessione tra l’uomo e l’invisibile, erano caratterizzate da alta intensità perché catalizzavano una fortissima partecipazione collettiva e, attraverso l’opera di numerose generazioni di scrittori e intellettuali, hanno lasciato una traccia persistente dalle origini fino ai giorni nostri.


La centralità del mito come presidio dell’immaginario collettivo (illustrazione: White Castle di Yuri Shwedoff).

I miti contemporanei al contrario tendono ad essere a bassa intensità perché trasmessi sostanzialmente tramite i canali del commercio e richiedono una partecipazione meno impegnativa dal punto di vista dell’appartenenza identitaria. La distanza (nello spazio e soprattutto nel tempo) tra l’altrove mitico e la nostra vita quotidiana sarebbe dunque la variabile in correlazione diretta con l’intensità del mito. I racconti ad alta intensità mostrano l’uomo alle prese con l’aldilà o con forze cosmiche onnipotenti; i racconti a bassa intensità si svolgono nel nostro mondo e sono fortemente antropocentrici. Il consumo sostituisce il rito, le traiettorie capitalistiche prendono il posto delle politiche culturali. Il più alto livello di intensità del mito si colloca storicamente come tipologia unica del narrare. Così il rito può essere un elemento cruciale per conservare lo status quo sociale.
Al contrario lo scopo dei miti a bassa intensità è quello di dare piacere (mercato del loisir) a un certo pubblico in un tempo più o meno limitato e non ambiscono a diffondere sacralità. L’accento posto da Ortoleva dunque non è tanto sul fatto che le storie siano ritualizzabili o meno quanto sul fatto che tali rituali abbiano una qualche rilevanza collettiva.
In pratica la bassa intensità sostituisce ciò che il mito perde in termini di coinvolgimento collettivo e potere istituzionale, con la presenza (in certi casi ossessiva) delle narrazioni in ogni piega della nostra giornata, favorita dalla penetrazione del digitale. Alta e bassa intensità non sono altro che due forme diverse di ingerenza praticata dal mito sulle nostre vite.

Scenari del West che rivestono oramai un ruolo analogo a quelli dell’antichità a iniziare dall’Olimpo.

Ispirandosi in parte all’intuizione di Marshall McLuhan (cfr. 2013) che parlava di media caldi e freddi e in parte ai tipi di autorità in Max Weber (cfr. 2012), il concetto di intensità di Ortoleva ci aiuta a navigare tra le categorie proposte dal libro e nello stesso tempo a collocare in una prospettiva storica il mito pur ammettendo la possibilità di stratificazioni e commistioni.

Luigi Tenco, il tempo libero e l’industrializzazione del mito
Molte delle narrazioni contemporanee si offrono come frutto di un tempo che la persona può finalmente dedicare a occupazioni non strettamente finalizzate al successo economico. Mettendo sullo sfondo la disponibilità di tempo libero per dialogare con sé stessi offerta dall’industrializzazione e dal panorama mediale ecco che i testi della canzone di Luigi Tenco “Mi sono innamorato di te” assumono per Ortoleva un importante riflesso mitico a bassa intensità: “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare” collocano con brutale precisione l’amore romantico nella società dello spettacolo.
Tra l’altro l’amore romantico è uno dei topos in cui si vede meglio il confronto tra bassa e alta intensità. L’amore è un mito nel quale crediamo perché ci è stato trasmesso da diverse fonti e in diverse salse. Siamo circondati dall’amore: canzonette, musica più o meno leggera, favole, video, narrazioni.
Mito interessante anche perché non può essere intercettato efficacemente né dalla scienza né dal senso comune: non si può parlare di falso in amore ma semmai di illusione che può avere un valore intrinseco tutt’altro che negativo.


I miti della frontiera sono inscritti nell’immaginario collettivo e da questo vengono riscritti.

Non a caso questo mito viene usato per alzare il tiro anche nel campo dei riti, della religione e di tutti i miti ad alta intensità. L’amore romantico riesce a far da ponte con il cosmo perché trascende i limiti del quotidiano e del visibile. L’incontro con l’altro è posto oltre ciò che è limitato dal tangibile. Come modello narrativo associato al romanzo, il magnetismo dell’amore nasce con la modernità e quindi curiosamente è coevo alla potente accelerazione conferita alla cultura alfabetica dall’industrializzazione. Hollywood in quanto macchina del mito per eccellenza è sempre riuscita a cambiare pelle cavalcando le novità dell’industria e delle tecnologie per comunicare.
Non a caso oggi che viviamo una intensa rivoluzione del mediascape si fanno avanti le rarefazioni digitali dell’io, narrazioni non propriamente fantascientifiche o fantastiche che vincono la morte del corpo attraverso la tecnologia. Film come Her (Spike Jonze, 2013) o serie tv come Black Mirror (2011 – in corso) situano identità sintetiche al centro di una rete di rapporti e di affinità oltre i limiti fisici. Ma non vi è immortalità in senso classico: colui che non è (o non è più) in quanto coscienza artificiale sembra vivere (o continuare a vivere) per corrispondere a quei legami digitali istantanei che la tecnologia e il commercio vanno promettendo da anni. Questi contatti umani che millantano immortalità sono resi tascabili e maneggevoli dalla tecnica, perfettamente sovrapponibili alla descrizione dei miti a bassa intensità.

I sentieri selvaggi dell’epica tra alta e bassa intensità
Il western è perfetto per esemplificare stratificazioni e convivenze tra alta e bassa intensità essendo “il genere che nel tempo della bassa intensità più ha mantenuto in vita l’epos”. Pensiamo a quanto incorpora questo genere: i suoi tratti visivi caratterizzanti rimandano a un passato pre-moderno o comunque alle origini della cultura tecno-scientifica, delle città, dell’identità occidentale. Spesso sullo sfondo dell’azione si stagliano scenografie cosmiche come la Monument Valley, chiaro rimando all’altrove del mito tradizionale. Queste azioni certe volte hanno incorporano addirittura un valore documentaristico mostrando come si viveva all’epoca o come si sopravviveva all’addiaccio e sotto un tetto di stelle.

Icone di una nuova mitologia sono quelle legate all’abbigliamento tipico del cowboy.

Nel loro saggio sui miti come semi immortali che generano le narrazioni moderne e postmoderne, Jordi Ballò e Xavier Pérez notano l’anomalia di Furore (1940) del grande regista hollywoodiano John Ford. Anomalia perché lo schema epico classico del western viene riletto e in parte clamorosamente criticato tramite quel “crudo realismo sociale che la tematica di Steinbeck esigeva” (Ballò, Pérez, 1999).
Insomma il regista che più di ogni altro ha dato forma al genere western, ci offre una visione disincantata e a bassa intensità del mito della frontiera. Le vicende della famiglia di Tom Joad sono molto vicine al quotidiano di migliaia di famiglie scottate dalle crisi economiche e che per questo sono costrette a mettersi in movimento verso un altrove che si rivelerà tutt’altro che mitico. Già nel cuore della fabbrica hollywoodiana di metà Novecento, possiamo apprezzare il fremito dei miti a bassa densità che verranno. La lezione di John Ford, passando per eredi quali Steven Spielberg, persistono anche nella contemporaneità e le tecniche espositive del cinema oscillano tra un realismo più o meno accentuato e sistemi di metafore più o meno raffinate.

We can be cowboys, just for one day
Forse proprio la progressiva perdita di centralità del western nell’immaginario occidentale contemporaneo è uno dei rivolgimenti che più ci costringono a ragionare su un cambio di passo nell’evoluzione delle forme mitiche. Ma il senso di marcia non è univoco. Bisogna per esempio notare come Westworld (2016 – in corso), uno dei maggiori successi della televisione commerciale degli ultimi anni, sia un esempio di quanto qualsiasi mito del passato possa essere improvvisamente riattualizzato toccando sapientemente parametri del codice genetico delle narrazioni più antiche.
In questo caso l’apparato western serve a prendere per mano il pubblico e a condurlo nel polveroso paesino di frontiera chiamato Sweetwater dove avviene un proficuo incontro tra il western e le ultime frontiere dell’intrattenimento immersivo immaginate dalla fantascienza. Un esempio simile è anche Il trono di spade (2001 – 2019) che riattualizza luoghi e personaggi del fantasy e ricostruisce forme antropologiche tipiche del medioevo.

La figura dell’eroe sempre più classica e in continuo rinnovamento: quella del cowboy.

Qualunque siano le sorti dei miti e delle saghe che abbiamo conosciuto finora resta il fatto che un cambio di passo nella trasmissione dei miti c’è stato e Ortoleva ne parla in più punti nella seconda parte del libro. Tra le rivoluzioni e i momenti di uscita dalla Storia, ecco l’esplosione dei media digitali. Qualunque mito sia al centro dell’immaginario, la tecnologia può rinforzarlo aumentandone la saturazione sensoriale. Ma la definizione dell’immagine e del suono sono solo alcuni dei tanti aspetti tecnici della diffusione mediale: il punto della bassa intensità non è la qualità del segnale o dell’immagine, ma le mutate caratteristiche del consumo, in particolare la pervasività dei monitor grandi o piccoli che siano e il fatto che chiunque possa commentare un’opera rivolgendosi ad un pubblico virtualmente infinito. Come nota Ortoleva:

“L’industria culturale che ha presieduto all’originario sviluppo della nebulosa della bassa intensità era l’industria dei contenuti, tra fiction e giornalismo, in un compromesso sempre delicato e sempre indispensabile tra la ripetitività delle tecniche di produzione e ri-produzione e la ricerca, da parte del pubblico, di sorprese e di attualità”.

Oggi con la viralità social è il pubblico stesso a garantire la scintilla della novità e mostrare ai produttori cosa piace nel momento vivente. L’industria dispone di sondaggi di opinione con statistiche sempre aggiornate. Deve solo stare attenta a mantenere il passo. Quando Ortoleva cita David Bowie e la sua canzone Heroes, utilizza l’immagine dell’eroe-per-un-giorno allo scopo di esemplificare la progressiva individualizzazione dei palinsesti e dei percorsi di consumo culturale preferiti dal pubblico. Questa libertà implica anche la perdita di riferimenti collettivi. Tra questi proprio l’epica western.

La svolta ludica nell’evoluzione del mito
Nel quinto capitolo di Miti a bassa intensità Ortoleva mette in evidenza come le svolte tecnologiche abbiano reso precaria la forma del racconto, rendendo film, libri e arti grafiche articolazioni provvisorie del mito, pronte a cambiare “passando da un medium all’altro o venendo rielaborati e ri-raccontati, nell’infinito gioco di adattamenti, remake, rimescolamenti”. Se prendiamo i generi narrativi, specie quelli cinematografici e televisivi, come giochi dotati di regole (seppure non fissate per sempre) allora avremmo forse l’anello che congiunge il pensiero mitico alla forma mentis ludica che si sta affermando nella comunicazione contemporanea. Uno spostamento della narratività che ha già incoronato l’industria del videogioco come centro assoluto delle attenzioni capitalistiche, scalzando brutalmente il cinema e le serie televisive.

Rielaborazione permanente del mito: il western si presta benissimo a queste riconfigurazioni.

Il gioco regolato e la costruzione mitica hanno molto in comune. Sono entrambi elementi che cambiano insieme alla tecnologia. E come il mito, la cultura della simulazione è diventata cruciale come funzione conoscitiva. L’umanità si fabbrica giocando e ciò non vale solo per i giovani: molta socialità adulta e addirittura certi ambiti professionali fanno ampio uso del gioco per comunicare. Anche il raccontarsi tramite i social media costituisce uno sconfinamento della disposizione ludica nel quotidiano. Gioco, videogioco e gamification della vita sarebbero dunque miti a bassa intensità anche perché vi si entra e vi si esce con estrema facilità e senza alcun passaggio rituale.
I dispositivi elettronici aiutano il bricolage del senso e consentono all’individuo di mettere insieme autonomamente universi di significati. L’estrema immediatezza dei flussi comunicativi digitali in entrata (ma anche e soprattutto in uscita) riservati all’individuo dotato di smartphone ridiscute i termini di quella “cultura del montaggio” di cui si parla nel capitolo 12 e venuta in luce proprio grazie alle economie del digitale.

La riattualizzazione del mito attraverso il digitale e la transmedialità (illustrazione: Trojan Horse di Beeple).

Pensiamo allo streaming sui social e ai giovanissimi che usano il cellulare con spontaneità e senza troppi modelli per raccontarsi. In Miti a bassa intensità di Peppino Ortoleva viene affermato con chiarezza il ruolo della ludicità nel favorire la diffusione dei nuovi miti. Potrebbe essere questa la nuova frontiera della mitologia: non narrare universi ma insegnare a costruirli giocando. Persiste la disposizione a creare narrazioni ma senza alcuna pretesa divulgativa.
Ma fin dove si può abbassare l’intensità dei miti senza mettere a rischio la disposizione alla narratività (e quindi al mito) delle generazioni future? Il cinema si discioglierà nella bassissima intensità dei canali YouTube? E quale sarà la sorte della sala cinematografica visto che l’esperienza diretta e la consistenza fisica del rito collettivo sembrano sempre più marginali? Il futuro del mito trasmesso per via audiovisiva passerà dunque solo per le stories sui social, trasmesse in formato verticale a favore di cellulari tenuti con una mano sola mentre si va a scuola o al lavoro?

Letture
  • Jordi Ballò, Xavier Pérez, Miti del cinema, Ipermedium Libri, Napoli, 1999.
  • Angelo Brelich, Come funzionano i miti. L’universo mitologico di una cultura melanesiana, Dedalo, Bari, 2003.
  • Giovanni Leghissa (a cura di), Enrico Manera (a cura di), Filosofie del mito nel Novecento, Carocci Editore, Roma, 2015.
  • Marshall McLuhan, Capire i media. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 2013.
  • Max Weber, Economia e società, Donzelli, Roma, 2016.
Visioni
  • David Benioff, D.B. Weiss, Il trono di spade. Stagioni 1 – 7, Warner Home Video, 2017 (home video).
  • David Benioff, D.B. Weiss, Il trono di spade. Stagione 8, Sky Atlantic/HBO, 2019.
  • John Ford, Furore, A&R Productions, 2016 (home video).
  • Spike Jonze, Her, Warner Home Video, 2013 (home video).
  • Jonathan Nolan, Lisa Joy, Westworld. Stagione 1 Warner Home Video, 2017 (home video).
  • Jonathan Nolan, Lisa Joy, Westworld. Stagione 2 Warner Home Video, 2018 (home video).