“Ho sognato tante volte di scrivere un libro su Parigi che fosse come una lunga passeggiata senza meta, nel corso della quale non si trovano le cose che si cercano ma molte altre che non si stavano cercando”. Così Julien Green (1900 – 1998) introduce il lettore al suo Parigi, prezioso libricino nel quale ormai ottantenne riunì una serie di testi scritti (diciannove) a partire dal secondo dopoguerra e proposti da Adelphi in edizione italiana nella traduzione di Marina Karam, corredata da una serie di fotografie, tutte risalenti agli anni fra le due guerre, alcune con la Senna in piena e i suoi ponti.
È difficile per il lettore rimanere indifferente di fronte a questo invito a girovagare ora nel Marais, ora per Passy, o nel quartiere della Bourse, oppure per Saint-Julien-le-Pauvre, sempre tenendosi a debita distanza dalle mete privilegiate dal turismo, prede predilette del consumo di massa a iniziare dalla Tour Eiffel, aborrita da Green “fin dall’infanzia”, come tiene a precisare in Passeggiata d’estate, uno dei testi raccolti in Parigi. In realtà, è un invito a gironzolare nella memoria di Green, una memoria lunga un secolo, quasi per intero trascorso nella “città della luce” come recita un passo di Paesaggio parigino.
La Parigi dell’infanzia di Julien Green: il XVI arrondissement Paris-Passy, Avenue Kleber, Prise De La Place Du Trocadero.
Green lasciò la capitale soltanto in gioventù per studiare all’Università della Virginia (i suoi genitori erano statunitensi, sua madre da Savannah, Georgia, e suo padre da Prince Edward County, Virginia), dove pubblicò il suo primo racconto, The Apprentice Psychiatrist nel 1920, sulla rivista universitaria, e per l’intera durata del secondo conflitto mondiale, quando rimase bloccato ancora negli Usa dove si trovava allo scoppio della guerra. Fu quello il vero distacco, esilio subìto, imposto dalle circostanze e forse fu allora che presero forma queste istantanee, così minuziose, precise nei particolari, quasi maniacali, ossessive, connaturate alla prosa di Green:
“Durante i lunghi anni di guerra vissuti lontano da Parigi mi sono chiesto tante volte come un’area così piccola del cervello umano potesse contenere una città tanto grande. Parigi era diventata per una città tanto grande. Parigi era diventata per me una sorta di mondo interiore in cui erravo nelle difficili ore dell’alba, quando la disperazione vaga attorno al dormiente sul punto di destarsi; ma mi ci volle un bel po’ per varcare deliberatamente la soglia di quella città segreta che portavo in me, perché all’inizio ci furono le cupe settimane in cui il solo nome di Parigi spezzava il cuore a chi lo udiva”.
Prosa ossessionata dalla perfezione, prima d’ogni altra cosa. Green cattura dettagli, impressioni, atmosfere, restituendo tutto con precisione, è maestro nell’arte dell’intaglio, dà forma a mille tessere di un mosaico ciascuna splendente di luce propria, eppure fabbrica un intero universo. Le meticolose e talora estenuanti descrizioni sono ben più che contesti, paesaggi, sfondi o fondali delle vicende che narra: sono personaggi anch’essi delle sue storie, in più di un caso i veri protagonisti, perché danno corpo ai fantasmi dell’animo umano, si fanno evidenza dei movimenti interiori. È particolarmente evidente nei primi romanzi, Mont-Cinère (1926), Adrienne Mesurat (1927), ma l’attitudine a dar conto finanche delle minuzie non sarà limata nelle opere successive, anzi. È lo stesso Green a far presente (sempre in Passeggiate d’estate) come alcuni luoghi parigini siano già apparsi in passato, un po’ arazzi, un po’ miniature nella sua opera:
“I negozi di seterie, di passamanerie, di vecchi libri, i venditori di soldatini di piombo, di vecchie bambole con capelli veri, rue Vivienne, rue Réaumur fino al passage du Caire, tutto questo l’ho inserito nei miei libri, in Se fossi in te…, in Relitti.”
Le foto della Senna a corredo del volume e uno scorcio di rue Beethoven, rimandano proprio a quest’ultimo romanzo, che scorre lungo le rive della Senna come molta della narrativa greeniana. Relitti, (Épaves, 1929) fu anche il suo primo romanzo ambientato a Parigi. Una vicenda che vede Philippe, il protagonista, sorta di dandy tormentato dai sensi di colpa, dopo aver visto annegare una ragazza nelle sue acque, a seguito di un diverbio con un suo accompagnatore, senza aver fatto nulla per tentare di salvarla (“l’uomo aveva bevuto ed evidentemente la donna temeva che lui la buttasse nella Senna”, Green, 1992):
“la Senna sembrava un abisso nero, profondo come un oceano. Per alcuni minuti egli s’immerse nella contemplazione di quell’acqua greve e silenziosa. Nel buio, indovinava il forte battito dei flutti attorno ai pilastri, e qualcosa in lui rispondeva a quel perpetuo pulsare del fiume, qualcosa di sordo e inespresso”
(ibidem).
C’è sempre del colore impressionista nelle sue pagine e pennellate simili si leggono in Parigi, nel capitoletto Musei, strade, stagioni volti:
“La Senna in piena, di un verde giallastro, pesante, maestosa, copre entrambi gli argini, e le arcate dei ponti sembrano come appiattirsi. È minacciosa, altera. In quei momenti la trovo magica, piena di collera, una collera regale”.
Il fiume conserva memoria dell’intera commedia umana andata in scena nella capitale francese, pullulante di passioni, misteri, sogni e delusioni, vita e morte. “La mia memoria è un vasto caleidoscopio in cui ritroverai tutto ciò che ha fatto la storia del tuo secolo”, si legge nel medesimo capitoletto, ed è il fiume stesso a parlare. In fondo, l’unico altro autentico primattore nell’opera letteraria di Green è il senso di colpa, condanna inflitta a uomini e donne, indifferentemente: il precipitato narrativo della sua omosessualità, un macigno sulla coscienza di Green, educazione puritana, protestante poi convertitosi al cattolicesimo e scrittore dopo aver pensato in gioventù al sacerdozio. Un doppio e il suo dilemma che Green riassunse da par suo in questo passo dal sedicesimo volume del suo monumentale diario (venti volumi) che dal 1926 tenne quasi ogni sera fino alla sua morte:
“Quel che mi interessa sempre di più è sapere chi sono. Dentro di noi c’è sempre una parte sconosciuta, un doppio che con il tempo finiamo per scoprire. Perché questo compagno dell’ombra?”
(Green, 1996).
Un diario che occupa un terzo della sua opera, composta da sessanta opere tra romanzi, racconti lavori teatrali, autobiografia e saggi e il Journal, probabilmente il più voluminoso della storia della letteratura come ha annotato il suo esegeta Wolfgang Matz.
In qualche modo figlio di quelle pagine intime è anche Parigi, tutt’altro che una guida seppur non ufficiale alla metropoli. Piuttosto una raccolta di annotazioni intorno a “una lunga passeggiata senza meta”, un modo di procedere tipico del flâneur. Difficile trovarne in una forma più compiuta ed esauriente quel concetto, quella peregrinazione metropolitana descritta a più riprese da Walter Benjamin. Il filosofo tedesco fu tra i primi ad avvedersi del talento di Green, a parlarne entusiasticamente, a suggerirne la lettura ai suoi conoscenti. Si conobbero nel 1929 a Berlino, quello stesso anno ne definì la sua “opera sconvolgente” (Benjamin, 2010) e recensendo Adrienne Mesurat, scrisse “Green non descrive le persone, le rappresenta al vivo in momenti fatali” (ibidem). In quegli stessi anni, tornando una volta di più sul tema a lui caro, in Il ritorno del flâneur, l’autore dei Passages sembra scrivere una sorta di incipit ombra al futuro libricino di Green:
“Se si volessero suddividere in due gruppi tutte le descrizioni di città esistenti secondo il luogo di nascita dell’autore, risulterebbe certamente che quelle scritte dalle persone native del luogo sono nettamente in minoranza. Lo stimolo superficiale, l’esotico, il pittoresco agisce soltanto sul forestiero. Perché un nativo giunga a rappresentare l’immagine di una città occorrono motivi diversi e più profondi. Motivi che inducono a viaggiare nel passato anziché in luoghi lontani. Se una persona scrive un libro sulla propria città, esso avrà sempre una certa affinità con le memorie; non per nulla l’autore ha trascorso la sua infanzia nel luogo descritto”.
Laddove in Parigi, nel capitoletto Una città segreta, Green scrive:
“Il cuore di un vero parigino batterà più in fretta, quando è lontano da Parigi, al ricordo di certi vasi di fiori sul davanzale di una finestra o di un ritornello popolare che il garzone del macellaio va fischiando in bicicletta. Nel bene e nel male, ciò che esce dalle mani di Parigi è Parigi, che sia una lettera, un pezzo di pane, un paio di scarpe o una poesia […] Ognuno di noi si porta dentro la Parigi della sua infanzia, della sua giovinezza e dei suoi sogni, con una segreta preferenza per la Parigi che custodisce nella memoria e che gli sembra migliore di quella degli altri”.
Ecco, Parigi, appare come una sorta di omaggio postumo, inconfessato quanto intimamente grato al suo sventurato estimatore, un inno alla flânerie dalla prima all’ultima riga. Un ritratto di città lontano anni luce dalla visione turistica contemporanea, attività reale che in fondo è un alibi delle esistenze sui social media, oltre che un’ideale porta d’accesso all’universo letterario di Julien Green. Un atto d’amore verso la città, al tempo stesso, quasi un controcanto alla celebre canzone di Cole Porter, I Love Paris. Come sottolinea Green nel testo intitolato Val-de-Grâce,
“Parigi è restia a concedersi alla gente frettolosa, l’ho già detto, appartiene ai sognatori, a chi sa svagarsi nelle strade senza badare al tempo che passa, anche se doveri impellenti lo reclamano altrove”.
Vale per tutti i luoghi dell’anima.
- Walter Benjamin, Julien Green, in Opere complete, Volume III, Einaudi, Torino, 2010.
- Walter Benjamin, Adrienne Mesurat, in Opere complete, Volume III, Einaudi, Torino, 2010.
- Walter Benjamin, Il ritorno del flâneur, in Opere complete, Volume III, Einaudi, Torino, 2010.
- Julien Green, Relitti, Longanesi, Milano, 1992.
- Julien Green, Pourquoi suis-je moi ? Journal 1993-1996, Les Editions Fayard, Parigi, 1996.