Mercanti di verità:
i virologi superstar

In tempo di crisi, affidarsi agli esperti diventa essenziale. Ma gli esperti del momento, i virologi, sembrano non aver imparato le lezioni del passato su come comunicare la scienza in modo efficace, spacciando ipotesi per verità assolute e trasformandosi in star dei social, con tanto di followershaters.

In tempo di crisi, affidarsi agli esperti diventa essenziale. Ma gli esperti del momento, i virologi, sembrano non aver imparato le lezioni del passato su come comunicare la scienza in modo efficace, spacciando ipotesi per verità assolute e trasformandosi in star dei social, con tanto di followershaters.


“Hai letto il tweet di Burioni?”; “Ma Pregliasco dice…”; “Io mi fido solo di Crisanti”; “Ma di Tarro, che pensi?”; “Ho letto che Capua…”. Non sono calciatori, cantanti o politici, e nemmeno influencer di moda: sono i virologi, le superstar indiscusse del 2020, i cui nomi, volti, teorie, espressioni, frasi e battute abbiamo mandato a memoria in questi mesi. Qualcuno ha addirittura pensato di mandare in Rete un fotomontaggio di un album Panini, con le foto dei virologi al posto di quelle dei calciatori; ora che il campionato probabilmente si chiuderà anticipatamente, non è nemmeno una cattiva idea.

La fiera delle vanità
Alcuni di loro godevano di grande notorietà già prima della pandemia: per esempio Roberto Burioni, il “blastatore seriale” degli anti-vaccinisti, era partito con i migliori pronostici. Aveva vinto a suon di sfuriate su Twitter la battaglia sui vaccini, convincendo il governo nel 2017 a promuovere un decreto che rendeva obbligatorie dieci vaccinazioni che negli ultimi anni molti genitori, bombardati da campagne pseudoscientifiche, avevano iniziato a far saltare ai figli. È stato il primo a finire sull’ambita poltrona di ospite di Fabio Fazio, dal cui pulpito però è stato inizialmente rassicurante: “In Italia il rischio è zero”, garantiva, mentre l’epidemia (non ancora pandemia) infuriava in Cina, venti giorni prima che il coronavirus facesse la sua prima ufficiale comparsa nel nostro paese.

I fatti lo hanno sonoramente smentito, ma Burioni ha fatto presto a riconquistare la sua patente di Cassandra lanciando proclami drammatici su Twitter, paventando che quando la pandemia finirà lui ormai sarà già morto, ma facendosi così tanto prendere la mano da twittare anche una foto fake del Lungotevere pieno di gente, convincendo la sindaca di Roma a mandare le pattuglie della municipale che non hanno trovato nessuno: era il rendering di un progetto urbanistico di qualche anno fa. Non il massimo per colui che, lanciando il sito Medicalfacts, ha fatto del contrasto alle fake news una bandiera; ma nessuno è perfetto.
Non è andata meglio agli altri. Quando i contagi iniziano a salire in Italia, è il turno di Maria Rita Gismondo dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano. Il suo post su Facebook è costernato: “A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale”. Subito rilanciata dai tanti minimizzatori di quei giorni, trova però sulla sua strada un Burioni in piena conversione sulla via di Damasco: alla “signora del Sacco” (Burioni non è nuovo a uscite definite dai suoi critici “sessiste”) consiglia di riposarsi, perché il coronavirus è molto più pericoloso di un’influenza. Ma Gismondo in quei giorni trova sponda nel suo collega Massimo Galli, prossimo a diventare una superstar: al Corriere della Sera non si sottrae a una comparazione con l’influenza stagionale, ricordando che solo in Europa miete ogni anno circa 40.000 vittime. Non poteva, certo, il povero Galli immaginare che di lì a poco le vittime in Europa di Covid-19 avrebbero fatto impallidire quei numeri. Di recente, in un’intervista a Vanity Fair ha comparato il coronavirus ad Alien: “Adesso lo abbiamo imprigionato. Ma se lo rimettiamo in libertà potrebbe succedere di tutto”.

La verità, vi prego, sul coronavirus
Mentre si contano i primi casi in Italia, Ilaria Capua – la più celebre virologa insieme a Burioni – sceglie invece la via di mezzo al programma di Lucia Annunziata: “Non c’è da piangere ma nemmeno da ridere”. Profetizza che scomparirà “a primavera inoltrata o prima dell’estate”, ma di recente ha cambiato idea: “Zero possibilità” è la sua ultima risposta alla domanda se il virus scomparirà col caldo. Sono intanto i giorni in cui sui social si scatena un’altra mania: quella delle curve del contagio. Basta un programmino come Excel e un’infarinatura di statistica di base per realizzare grafici con i dati della Protezione Civile e cercare di indovinare il “punto di flesso”, il momento in cui la curva esponenziale diventerà funzione logistica. Impazza il toto-picco: ogni previsione, sistematicamente, fallisce. Ci provano fisici, matematici, economisti, sociologi, geologi, statistici, gli immancabili ingegneri in pensione. Ognuno cerca di conquistare un suo pubblico, che attende come un vaticinio oracolare la previsione del giorno.

Il ministro per gli affari regionali, Francesco Boccia, esasperato, chiede alla scienza “certezze”, non ipotesi, ma la task force medico-scientifica del governo di tutta risposta gli confeziona 98 scenari diversi su quello che potrebbe accadere nella fase 2. I politici non sanno a che virologo votarsi.
Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha il suo oracolo di fiducia: Andrea Crisanti, dell’Università di Padova. Sconosciuto ai più, nelle ultime settimane è in testa alla classifica data la buona performance del Veneto nella lotta alla pandemia. La sua idea è sempre la stessa: “testare, tracciare, isolare”. Un mantra rilanciato in lungo e in largo sulla socialsfera in questi giorni da coloro che ritengono di aver trovato la soluzione salvifica alla pandemia.
Tamponi, test sierologici, app di tracing: ma poi i tamponi danno falsi positivi o falsi negativi, di test sierologici non se ne trovano due che diano lo stesso responso, non si sa come interpretare gli anticorpi trovati nei test se poi alcuni si infettano di nuovo, mentre alla task force che deve valutare le app arrivano 391 proposte, ciascuna con i suoi vantaggi e le sue falle.

Vezzi da superstar
In questo clima in cui si aspetta, letteralmente, l’aiuto del cielo, in molti si affidano alle rassicuranti parole di Giulio Tarro, virologo in pensione del Cotugno di Napoli, già noto alle cronache locali per presunte “candidature” al premio Nobel e per dichiarazioni sopra le righe. I suoi post vengono rilanciati in lungo e in largo: il virus scomparirà con l’estate, inutile cercare un vaccino, potremo tutti andare a farci il bagno in sicurezza. Lo invitano in TV, gigioneggia, mentre Burioni lo blasta: “Tarro è candidato al Nobel come io a Miss Italia”. Poi lo scoop: già il 14 ottobre Tarro aveva inviato all’International Journal of Recent Scientific Research uno studio sul “nuovo coronavirus dalla città cinese di Wuhan”. Quasi tre mesi prima che il mondo venisse a conoscenza del Sars-CoV-2. Non è un virologo, è un veggente! Ma si scopre che la testata è una rivista farlocca (“predatoria”, in gergo accademico: pubblica qualsiasi cosa in cambio di soldi; forse, per la stessa cifra, può anche retrodatarne gli articoli). Ma la boutade paga. L’Istituto Noto tiene settimanalmente il “borsino” dei virologi. I più popolari, al momento, sono quindici: la loro credibilità è superiore al 50% per gli intervistati (un campione rappresentativo della popolazione italiana, non di scienziati).
In testa ci sono Giuseppe Ippolito dello Spallanzani di Roma e lo stesso Crisanti. Segue Capua, Giovanni Rezza dell’Istituto Superiore di Sanità, poi Burioni, ma c’è anche Tarro. Burioni è primo nella classica dei virologi più noti, seguito da Galli, Capua e Silvio Brusaferro dell’ISS. Li conoscono più dell’85% dei rispondenti: percentuali che non si raggiungono nemmeno tra i ministri dell’attuale governo.
Tra le altre star della classifica c’è Paolo Ascierto, che in realtà si occupa di tumori al Pascale di Napoli, ma è colui che ha messo in piedi il protocollo con un farmaco considerato molto promettente per la riduzione della sintomatologia del Covid-19, il Tocilizumab (parola che gli italiani hanno imparato a pronunciare correttamente, insieme all’altrettanto impronunciabile Remdesivir, il farmaco antiretrovirale contro l’Ebola). Ascierto è stato oggetto di un murales di Jorit, lo street artist che a Napoli è diventato l’artista ufficiale dell’amministrazione De Magistris, immortalando sugli edifici della città volti come Maradona, Che Guevara e San Gennaro. In un servizio televisivo Ascierto si è rivelato fan della Juventus, peccato capitale che i napoletani gli hanno perdonato, prova dell’eccezionalità dei tempi che viviamo; i suoi totem sono la maglietta di Cristiano Ronaldo e una statuina di Padre Pio. Gli fa eco il primario di pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, che sperimenta le infusioni di plasma dei pazienti guariti. Nel suo profilo Facebook indossa – grazie a un fotomontaggio molto dozzinale – la tuta di Iron Man mentre combatte contro grossi coronavirus.

Il supermarket della scienza
Mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con i suoi ritardi nell’intervenire, la sua comunicazione confusa su ogni aspetto della pandemia (dall’inutilità delle mascherine, oggi diventate obbligatorie, ai tamponi solo per i sintomatici, poi estesi a tutti; dalle lodi al “modello cinese” a quelle per il “modello svedese”, del tutto divergenti tra loro), ha perso ogni credibilità agli occhi dei cittadini, il suo posto è stato prontamente preso dai nuovi protagonisti della cronaca italiana.
Eppure, di errori, passi falsi e défaillance anche loro ne hanno commessi. “È la scienza, bellezza”, ha pensato di rispondere qualcuno alle richieste di Boccia di avere risposte chiare dalla scienza; ma se è vero che il metodo scientifico procede per prove ed errori, gli esperti sui media ci hanno abituati a ricevere certezze, non possibilità.

Davanti a una telecamera, a un microfono, a un politico, l’esperto sa che l’ultima cosa che il pubblico vuole sentire è una lezione su Thomas Kuhn o Robert Merton. E allora le probabilità diventano dati di fatto, le possibilità dogmi di fede, la scienza scientismo. Come nel supermarket delle religioni, dove ciascuno prende dalle fedi sul mercato quel che più si adatta alle sue convinzioni, nel supermarket della scienza c’è un esperto per ogni ideologia e un virologo per ogni orientamento.
Non è servita, insomma, la lezione del terremoto dell’Aquila, quando la Commissione Grandi Rischi della Protezione civile, che includeva sismologi di primissimo piano, minimizzò sulla possibilità di un imminente terremoto che invece uccise oltre trecento persone. Il processo che ne seguì fece scalpore nella comunità scientifica, perché quegli scienziati finirono alla sbarra: ma non furono processati perché avevano sbagliato le loro previsioni; furono processati perché avevano spacciato delle probabilità per certezze.
Nel 2010 Erik Conway e Naomi Oresker pubblicarono un libro molto discusso, Mercanti di dubbi, sul ruolo di alcuni scienziati nell’insabbiare le prove della connessione tra fumo e cancro o tra combustibili fossili e cambiamento climatico; la loro strategia era di disseminare dubbi di fronte alle certezze della comunità scientifica. Oggi invece dobbiamo guardarci dai mercanti di verità, che disseminano certezze mentre i dubbi intorno a noi aumentano. In entrambi i casi, a perderci è la scienza.

Letture
  • Erik Conway, Naomi Oresker, Mercanti di dubbi, Edizioni Ambiente, Milano, 2019.