Proviamo a fare un esperimento mentale, di quelli che gli storici chiamano “storia controfattuale” e gli appassionati di fantascienza “ucronia”. Immaginiamo che la scoperta della fissione nucleare, avvenuta nel 1938 in Germania, non si fosse verificata alla vigilia della Seconda guerra mondiale ma, poniamo, dieci anni prima. Siamo stati abituati a immaginare un mondo in cui Hitler ottiene l’atomica prima degli americani, come quello tratteggiato in L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick (1962) e nella serie televisiva che ne è stata tratta, perché era l’incubo che ossessionava gli uomini di Los Alamos e che anche dopo Hiroshima e Nagasaki li convinse ad aver agito bene: se non lo avessero fatto, se Albert Einstein e Leo Szilard non si fossero impegnati a convincere il presidente Roosevelt a investire nella fabbricazione della bomba, vivremmo – si diceva – in un mondo dominato dal nazismo. Eppure, per quanto a lungo si sia favoleggiato di possibili sabotaggi da parte degli scienziati atomici tedeschi del programma nazista per la bomba atomica, la verità più prosaica era che persino Werner Heisenberg, che ne guidò gli sforzi, si convinse che difficilmente una reazione a catena potesse sostenere altro che un reattore per la produzione di energia, come mostrano anche le registrazioni dei dialoghi dei fisici tedeschi prigionieri a Farm Hall dopo la caduta del Terzo Reich, che mostrano l’incredulità alla notizia dei bombardamenti atomici americani. No, i nazisti non stavano costruendo una bomba e l’idea fu liquidata da Hitler e dal suo ministro degli armamenti Albert Speer come una fantasia da scienziati pazzi.
Immaginiamo invece l’altro scenario. Alla fine degli anni Venti, la stragrande maggioranza dei fisici teorici viveva ancora in Europa e anche quelli americani, come J. Robert Oppenheimer, non potevano far altro che trascorrere lunghi periodi di studio e lavoro nel vecchio continente, dati i modesti sviluppi della ricerca in America. La comunità scientifica era pienamente internazionalizzata: possiamo immaginare una delle celebri conferenze Solvay, dove si riuniva la comunità dei fisici (l’ultima si tenne nel 1933), dedicata a discutere delle implicazioni di quella scoperta. Nel film Oppenheimer di Christopher Nolan, vediamo la notizia arrivare in America e Robert Oppenheimer e Ernest Lawrence comprendere immediatamente la principale implicazione della reazione a catena prodotta dalla fissione di un nucleo di uranio: una bomba.
In quel periodo di corsa al riarmo, di tensioni internazionali, di bellicismo imperante, l’idea di una bomba precede quella di produrre energia per usi civili. Eppure, i fisici tedeschi, che pure ne intuirono la possibilità, non la inseguirono, e preferirono sviluppare un reattore (destando una genuina sorpresa a Los Alamos quando videro gli schemi: i nazisti volevano buttare un reattore su Londra? Tanto era fisso e ossessivo il pensiero dell’uso militare della scoperta). Anche Emilio Segrè ricordò che, nonostante nei laboratori di via Panisperna a Roma la prima fissione fosse stata realizzata già nel 1934, nessuno se ne rese conto, nemmeno Enrico Fermi, e considerò sempre questa cecità come qualcosa di misterioso e provvidenziale (“Per me, tutta la storia del nostro insuccesso rimase un mistero”, cit. in Davis, 1970). Ma la verità è che solo la drammatica coincidenza di una scoperta epocale avvenuta alla vigilia di una guerra mondiale di ineguagliata brutalità, in cui tutte le nazioni civili persero ogni freno morale, poteva portare al progetto Manhattan. Una scoperta realizzata dieci anni prima avrebbe cambiato per sempre le sorti del mondo: una comunità di fisici coesa che, resasi conto delle potenziali implicazioni militari, avrebbe deciso di condividere le scoperte a livello internazionale; un organismo come la Società delle Nazioni che avrebbe istituto una commissione per la gestione congiunta dell’uranio e delle tecnologie di arricchimento; le fondamenta di una collaborazione europea – come sarebbe avvenuto nel 1957 con l’Euratom – gettate prima dell’avvento del nazismo; un mondo libero dall’incubo della corsa agli armamenti atomici. Se si confronta questo scenario con quello che il personaggio di Oppenheimer, tragicamente impersonato da Cillian Murphy nel film di Nolan, immagina negli istanti finali del film, che ancora oggi rappresenta un possibile futuro per la civiltà umana, ancor di più emerge il dramma che ha rappresentato il progetto Manhattan e le conseguenze ancora vive dell’immenso deragliamento del corso della storia prodotto da Hitler (troppo spesso si dimentica che l’Europa di oggi, contesa per cinquant’anni tra due superpotenze, ridotta ad ancella politica, svuotata di tutta l’intelligenza del popolo ebraico, è una diretta conseguenza dei dodici anni di incubo nazista). Questo dramma è rappresentato dal confronto tra lo stesso Oppenheimer, un uomo che, come riassume una frase-chiave del film, “non ha avuto dubbi fino al 1945, e moltissimi dopo il 1949”, e quanti invece provarono a realizzare un altro futuro libero dall’incubo della bomba atomica.
Il primo fu Leo Szilard, che apre la monumentale opera di Richard Rhodes, L’invenzione della bomba atomica (1986):
“Szilard scese dal marciapiede e mentre attraversava la strada il tempo gli si squarciò davanti: vide una via verso il futuro, vide nel mondo la morte e tutto il nostro dolore, vide la forma di cose di là da venire”
(Rhodes, 1990).
Impersonato da Máté Haumann, lo vediamo nel film cercare vanamente di convincere Oppenheimer a presentare una petizione di fisici al presidente Truman, per impedire l’uso militare della bomba. Sappiamo che quando la petizione giunse a Los Alamos, Edward Teller – che era inizialmente intenzionato a firmarla – la portò in visione a Oppenheimer, che reagì bruscamente: “Che cosa ne sanno loro della psicologia giapponese? Come fanno a giudicare in che modo deve finire la guerra?” (Monk, 2014). Fu così che a Los Alamos la petizione fu lasciata cadere, e l’ultima possibilità che gli scienziati atomici ebbero di coalizzarsi intorno alla bandiera della non violenza scemò. Ma non c’era solo Szilard. In Oppenheimer – che a dispetto del titolo è un’opera davvero corale, che lascia il giusto spazio agli altri protagonisti del progetto Manhattan – vediamo anche i vani sforzi di Isidor Rabi (impersonato da David Krumholtz) di dissuadere Oppenheimer dal portare avanti il progetto: “Fai cadere una bomba ed essa finisce sui giusti e sugli ingiusti” (Monk, 2014: frase citata anche nel film). Vediamo Niels Bohr (nel film impersonato da Kenneth Branagh), giunto dopo un’avventurosa fuga dalla Danimarca a Los Alamos, condividere le informazioni riguardo il programma atomico nazista e poi prendere da parte Oppenheimer per parlargli delle implicazioni politiche della bomba.
Bohr fu tra i primi, già nel 1944, a mobilitarsi per impedire l’idea di un monopolio politico della bomba. Grazie all’enorme stima di cui godeva, ebbe facile accesso alle stanze del potere a Washington e propose al presidente Roosevelt la sua idea della “complementarità” della bomba: come la complementarità da lui scoperta per la fisica quantistica, in cui un elettrone può essere particella e onda al tempo stesso, così la bomba poteva essere la peggiore e la migliore invenzione dell’umanità. Affinché però prevalesse la seconda opzione, occorreva una piena condivisione delle conoscenze relative alla fabbricazione della bomba a livello internazionale. Roosevelt e Churchill ne rimasero inorriditi, al punto da mettere il fisico sotto sorveglianza continua per evitare che passasse informazioni ai russi (Churchill arrivò persino a suggerire che venisse tenuto confinato per un po’). Bohr non fece nulla del genere, ma, come sappiamo, ci pensò Klaus Fuchs, che era stato membro del gruppo britannico di fisici inviato a Los Alamos e che grazie alle informazioni passate ai sovietici permise di ristabilire l’equilibrio di potenza nel 1949.
Una scena del film ci rivela che a Los Alamos il dibattito sull’effettivo impiego della bomba arrivò dopo la resa della Germania. Il vero scopo del progetto Manhattan, la grande corsa contro il tempo per evitare che i nazisti – che si credette a lungo essere più avanti degli Alleati, e che disponessero di una città gemella rispetto a Los Alamos – si dotassero della bomba, era venuto meno. Nessuno si preoccupava davvero del Giappone: nonostante Pearl Harbor, la superiorità militare americana rispetto a quella nipponica non era mai stata messa in discussione e la resa era solo questione di tempo. Ma a quel punto si pose un tremendo interrogativo:
“Come si poteva rinunciare spontaneamente all’impiego del prodotto del forsennato lavoro, durato per anni, di centocinquantamila uomini attorno a un’arma che aveva richiesto una spesa di due miliardi di dollari?”
(Jungk, 1958).
Oppenheimer non la poneva forse in quei termini, ma il generale Leslie Groves sì. E man mano che Los Alamos passò dall’essere un centro di ricerca a diventare una base militare, e Oppenheimer si lasciò persuadere dalla necessità di sottostare alla leadership dell’esercito (una scena ce lo mostra in divisa militare, convinto della necessità che gli scienziati debbano “arruolarsi”, venendo poi freddamente dissuaso da Rabi e ritornare all’iconico look da civile), l’esito non poteva che essere uno solo. Il dramma di Oppenheimer, che Christopher Nolan ha voluto cogliere nel film, è quello di un uomo di immensa intelligenza che troppo tardi si accorge di essere stato solo l’ingranaggio di un’enorme fabbrica di morte, colui che ha permesso alla scienza di “conoscere il peccato”, come avrebbe poi dichiarato in seguito. È la vertigine che inesorabilmente colpisce quando il pensiero, come avrebbe scritto nel 1960 Karl Jaspers, è troppo preso dal fare per riuscire a riflettere lucidamente: “Una attività cieca, prigioniera dei suoi scopi e in pari tempo smisuratamente accresciuta, porta al nulla” (Jaspers, 2013).
In modo più vivido e dissacrante, Stanley Kubrick con Il dottor Stranamore (1964) avrebbe portato alla luce il collegamento tra bomba atomica e impulso erotico che anche Nolan sembra voler suggerire: il progetto Manhattan come un faticoso, prolungato amplesso che ha come unico scopo e può avere come unico esito l’agognato orgasmo, ma al termine del quale, nella fase postcoitale, si contempla l’inanità dello sforzo e la vacuità dell’esistenza. Così accade a Oppenheimer, che fin dal momento successivo al Trinity – prima ancora di Hiroshima – inizia a prendere coscienza del vuoto di senso della sua impresa. Non serve più: i militari lo liquidano (“ci pensiamo noi ora”), Groves non gli risponde al telefono e deve sapere di Hiroshima dalla radio, come il resto dell’America. Certo, poi arriverà la fama immensa, le interviste, le conferenze in tutto il mondo (persino in Giappone), gli incarichi di prestigio nella Commissione per l’Energia Atomica. Ma nulla servirà a colmare il vuoto che segue il test Trinity e la fine del progetto Manhattan. Troppo tardi Oppenheimer aderisce al fronte degli scienziati atomici che perorano una cooperazione internazionale. Molti lo considereranno un tradimento, primo tra tutti Edward Teller, che dopo il 1949 – quando i sovietici si dotano anch’essi della bomba – vide realizzarsi la sua grande opportunità, quella di mettersi alla guida del programma per costruire la Superbomba agognata fin dai tempi del progetto Manhattan, quando i suoi tentativi di spostare l’obiettivo dalla bomba alla fissione alla bomba a fusione furono messi da parte dallo stesso Oppenheimer perché l’obiettivo era all’epoca troppo fuori portata.
Teller, che nel film è impersonato da Benny Safdie, è da sempre stato considerato l’alter ego di Oppenheimer, il suo “lato oscuro”, “il vero dottor Stranamore”, come titola la biografia a lui dedicata di Peter Goodchild. Il suo timido impegno nel controllo degli armamenti a Los Alamos e negli anni immediatamente successivi è stato talvolta considerato un paravento, un modo indiretto di attaccare la leadership di Oppenheimer (si sa che Teller si era risentito per non essere stato posto alla guida del dipartimento teorico del progetto Manhattan, incarico che era andato ad Hans Bethe su proposta di Rabi). In realtà, più pragmaticamente nel 1949 si rese conto che, se il piano per una condivisione delle informazioni a livello internazionale non si fosse mai realizzato – del resto non era accaduto nel 1944-45, quando l’URSS era alleata degli USA, figuriamoci ora in piena ossessione da “pericolo rosso” – allora non c’era alternativa che ripristinare la superiorità nucleare dell’America sviluppando la bomba H, altrimenti – come egli disse drammaticamente a tutti coloro che erano disposti ad ascoltarlo – entro dieci anni il mondo sarebbe diventato comunista (uno scenario che Teller, ungherese, riteneva tanto drammatico quanto quello di un mondo dominato dal nazismo). Si può ben immaginare quanto rimase scosso dalla lettura del documento di maggioranza del General Advisory Committe (presieduto da Oppenheimer) del Comitato per l’Energia Atomica, che recitava:
“Crediamo che la bomba Super non dovrebbe mai venire prodotta […] Nel decidere di non procedere a sviluppare la bomba Super ravvisiamo un’opportunità unica per dare l’esempio di come porre alcune limitazioni alla guerra nel suo complesso, eliminando perciò la paura e destando la speranza nel genere umano”
(cit. in Goodchild, 2009)
Com’era possibile che Oppenheimer, che di fronte alle stesse proposte nel 1945 aveva reagito tanto bruscamente – cosa di cui Teller era stato testimone – ora fosse passato dall’altra parte? È qui, sostanzialmente che nasce il “caso Oppenheimer”: nel fosco clima da caccia alle streghe in cui era piombata l’America, soprattutto dopo la scoperta del doppiogioco di Fuchs e, quattro anni dopo, la condanna alla sedia elettrica dei coniugi Rosenberg, il suo voltafaccia venne interpretato come un possibile tradimento. Un Oppenheimer “comunista”, impegnato a passare informazioni riservate sulla bomba ai sovietici attraverso i suoi vecchi contatti nel partito, tra cui Haakon Chavalier. Imbastendo il suo film intorno a questo tema, Nolan ha dimostrato di aver compreso che era questo il prezzo che Oppenheimer dovette pagare per i suoi tardivi scrupoli di coscienza. Così il personaggio interpretato da Cillian Murphy spiega alla moglie Kitty di aver i suoi motivi per prestarsi al drammatico interrogatorio che ne macchierà la reputazione agli occhi degli americani: un’espiazione – potremmo dire masochista, insistendo sulla metafora erotica – necessaria per il peccato commesso a Los Alamos. E nonostante, tutto non basta. “Non puoi commettere un peccato e poi chiedere a tutti noi di soffrire con te per le conseguenze”, gli rinfaccia Kitty, quando lui le rivela del tradimento con Jean Tatlock, e del suo suicidio. Ma tutti sappiamo, ascoltando queste parole, a cosa si riferisce. Le riprenderà Einstein, alla fine del film. Sì, un giorno anche a lui serviranno un bel pranzo a base di salmone, gli daranno una medaglia (il Premio Enrico Fermi, che Kennedy gli conferì nel 1963 e gli fu consegnato dal suo successore Lyndon Johnson una settimana dopo i fatti di Dallas), e una pacca sulla spalla per dimostrargli che tutto è stato perdonato: “Ricorda solo che non sarà per te… ma per loro”.
Nell’uscire dal cinema con impresse le drammatiche immagini che chiudono il film, ci resta addosso la tragica sensazione di vivere in questo tempo sospeso tra il mondo che poteva essere se non ci fosse stata Los Alamos, se Hitler non avesse minacciato il mondo, se la fissione dell’uranio fosse stata scoperta solo qualche anno prima, e il mondo che potrebbe essere, quello dell’olocausto nucleare che ancora pende su di noi come una spada di Damocle. Il mondo in cui J. Robert Oppenheimer, suo malgrado, ci ha condannati a vivere.
- Neal Pharr Davis, Lawrence e Oppenheimer, Garzanti, Milano, 1970.
- Peter Goodchild, Il vero dottor Stranamore. Edward Teller e la guerra nucleare, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009.
- Karl Jasper, La bomba atomica e il destino dell’uomo, Pgreco, Roma, 2013.
- Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni, Einaudi, Torino, 1958.
- Richard Rhodes, L’invenzione della bomba atomica, Rizzoli, Milano, 1990.
- Stanley Kubrick, Il dottor Stranamore, Eagle Pictures, 2013 (home video).