Nel 1921 Henrik Galeen, sceneggiatore e regista di punta del cinema espressionista tedesco, fu incaricato di ricavare una sceneggiatura da Dracula (1897) di Bram Stoker dalla neonata società di produzione Prana, creata apposta per lanciare film dell’occulto e del soprannaturale. Si voleva però evitare di riconoscere il copyright a Florence Balcombe, vedova di Stoker. Galeen prese le sue precauzioni: cambiò il titolo in Nosferatu, Eine Symphonie des Grauens (Nosferatu, una sinfonia dell’orrore 1922), modificò i nomi dei personaggi principali (Dracula diventa il conte Orlok, i coniugi Jonathan e Lucy Harker sono Thomas ed Ellen Hutter, Van Helsing diventa professor Bulwer, e così via) ed eliminò i comprimari, ridusse all’essenziale la trama, arretrò dal 1890 al 1838 l’anno di accadimento della vicenda, l’ambientò nei Carpazi e a Wisborg, città portuale tedesca immaginaria sul mare del Nord, ideò anche la presenza di topi nelle casse sulla barca e il contagio della peste, fino al sacrificio finale di Ellen/Lucy per sconfiggere Nosferatu al canto del gallo e salvare i concittadini (e il marito) dalla maledizione del vampiro. Tutto inutile: sull’onda del successo del film, uscito nel 1922 e diretto genialmente da Friedrich Wilhelm Murnau, in Germania (e probabilmente nel resto del Nord Europa), nel 1925 la vedova di Stoker intentò il processo per plagio e violazione del copyright. Vinse, e con il risarcimento ottenne la rovina finanziaria della casa produttrice e la distruzione delle copie del film. Se ne salvò (pare) una sola: negli Stati Uniti, dove non sussisteva il copyright di Dracula per una svista dell’editore e di Stoker.
Se la derivazione da Dracula è innegabile (e comunque mai nascosta), la direzione intrapresa da Galeen e Murnau (che, secondo le testimonianze dell’epoca, seguì da vicino la sceneggiatura, riscrivendo solo le ultime dodici pagine del copione, che erano andate perse) è tutt’altra rispetto a quella di Stoker: non solo sul piano artistico ed estetico ma anche in termini di contenuti e di messaggio. E, paradossalmente, è quella che più ha portato fama e fortuna al personaggio di Dracula e lo ha trasformato in uno dei simboli/icone più pop del Novecento, a monito dell’umana avidità di vita eterna ma dannata (o di vita dannata ma eterna).
La distanza dal romanzo di Stoker
Il Nosferatu di Murnau-Galeen è l’ombra spigolosa del Dracula di Stoker. Per cause di forza maggiore (tra cui le modifiche per la questione del copyright, le differenti esigenze del linguaggio visivo e della sintassi cinematografica, e così via) nel processo di compressione e stilizzazione del film di Murnau vengono accantonate tutte le esigenze di verosimiglianza, qualsiasi scrupolo documentario, ogni dettaglio cronachistico, la polifonia narrativa del romanzo originario. L’obiettivo del film diventa quello di raffigurare con simbolica intensità quanto di non-umano si genera e si rigenera nutrendosi delle sventure e delle morti degli umani. Un alieno terrestre dalla cieca potenza: la cosa-dell’altro-mondo è già qui tra noi, e da secoli. Un monstrum della natura come tanti, peraltro: così suggerisce nel film la lezione di scienze del professor Bulwer ai suoi studenti: in botanica le piante carnivore, tra i molluschi i polipi dai tentacoli fantasmatici… Perché tra gli umani non dovrebbe esserci qualcosa di analogo?
Più laici e pessimisti di Stoker, Galeen e Murnau cancellano coerentemente anche ogni possibilità di affidarsi agli strumenti salvifici della religione cristiana (crocefisso, ostie, acqua benedetta) o della medicina popolare (aglio, rose selvatiche). E così spariscono le fughe di stanze, le scale a chiocciola, i passaggi segreti: il neogotico palazzetto vittoriano di Stoker implode in un bunker postbellico senza uscite, cementato di lutti inspiegabili, incubi premonitori, follia irridente. Nella più totale inconsapevolezza della collettività.
Quanto si perde in termini di profondità, di veridicità e di esplicabilità, lo si guadagna in energia visionaria, incisività, limpidezza, condivisibilità, dando corpo e spessore a un’allucinazione universale funesta e incancellabile. La straordinaria resilienza del primo grande horror del cinema mondiale sta nella miracolosa capacità di Murnau di tradurre su pellicola i messaggi cifrati dell’inconscio collettivo. La lingua dei sogni non ha mai tempo da perdere in spiegazioni. Dopo il successo di pubblico del film di Murnau (che nel 1926 emigra in California), Hollywood investe sul vampiro di Stoker e incamera soggetto e personaggio. E dal 1931, con il primo Dracula di Tod Browning, inizia l’escalation del conte della Transilvania verso la Global Hall of Fame, risospinta dal trionfo del remake dell’inglese Hammer Films nel 1958, diretto da Terence Fischer con Christopher Lee e Peter Cushing. Come ogni star che si rispetti, anche Dracula finisce vampirizzato. Dalle major, dai fan, dalla pubblicità, dai media, dagli intellettuali, dal grande pubblico.
Tra cadute di gusto e resurrezioni di stile, va in frantumi la sua aura di terrore. (Ne è una riprova indiretta il ribaltamento nel 1954 di Io sono leggenda, di Richard Matheson: tutti vampiri tranne il protagonista). Lo sottopongono a lifting ed extension di ogni genere, a innesti di macelleria seriale, a segmentazioni progressive per categoria (e target di spettatori): in versione gay, lesbo, bisex, afroamericana, cinese, extraterrestre, adolescenziale, cowboy ecc.
L’eterno smarrito di Herzog-Kinski
È il 1978. Sono passati 56 anni dall’uscita di Nosferatu. Più del doppio dei 25 intercorsi tra la pubblicazione di Dracula e il film di Murnau. Negli anni Settanta, il giovane cinema tedesco conosce una nuova fase di affermazione e gloria a livello internazionale, a oltre mezzo secolo dalla stagione espressionista. Musa e guida della nuova generazione di cineasti teutonici è Lotte Eisner, scrittrice e critica berlinese, che dalla metà degli anni Venti vive da vicino gli autori, le opere e gli umori del cinema tedesco d’avanguardia, finché nel 1933 si trasferisce a Parigi per sfuggire alle persecuzioni naziste e dopo la Seconda guerra mondiale sarà una dei pilastri della Cinémathèque Française. Reduce dalle affermazioni di Aguirre, furore di Dio (1972), de L’enigma di Kaspar Hauser (1974), de La ballata di Stroszek (1977), Werner Herzog si cimenta nel remake di Nosferatu. Più che un remake, un doppio omaggio: a F. W. Murnau (dichiaratamente preferito a Fritz Lang) e a Lotte Eisner. È anche un modo per ricucire lo strappo tra quella prima grande stagione di cinema germanico prenazista e la nuova ondata di fervore creativo della generazione postbellica. È quanto spiega Herzog stesso nel commento sottotitolato della versione tedesca di Nosferatu, racchiusa nella recentissima riedizione in blu ray e dvd curata da Ripley’s Home Video, che s’è impegnata nel meritorio compito di riproporre le tappe più significative del cinema anni Settanta in Germania. Nessuno dei grandi registi tedeschi di quella felice stagione è più borderline di Werner Herzog: esploratore imperterrito di frontiere e limiti geografici e antropologici, indagatore inesausto di estremi e di estremisti. Ogni suo film, o quasi, prende le mosse da un bisogno di sfida: produttiva, organizzativa, tecnica. (In Nosferatu, per esempio: la gestione di 11.000 topi nella linda cittadina olandese di Delft, tra abitanti inviperiti e amministratori nervosetti).
Visualizzare il mondo dev’esser sempre un’avventura. Il suo cinema oscilla irrequieto tra documentario e fiction, tra mainstream e ricerca, tra immagini della natura e fotogrammi dell’interno paese straniero, tra visione e allucinazione, tra etnografia e religioni, tra Nord Europa e culture extraeuropee, tra ossessioni ed eroismi, tra sfide impossibili e sconfitte vittoriose, tra titanici individualismi e utopie di società alternative.
Il racconto di genere e l’autorialità
Anche il modello di Nosferatu viene sottoposto a un trattamento-limite. Se il film horror è d’autore, cosa deve prevalere, allora: il rispetto dei canoni del genere o la vis poetica del regista? Per sgomberare il campo da ogni equivoco, Herzog condensa tutta la paurosità del soggetto e del tema nella sequenza dei titoli di testa, che offre una carrellata ravvicinata delle raccapriccianti contorsioni dei visi e dei corpi delle mummie di León-Guanajuato, celebri in tutto il Messico.
Un’ouverture dell’orrore, con cui (da documentarista talentuoso qual è), Herzog tocca subito l’apice dello sgomento senza ricorrere al minimo effetto speciale, coadiuvato semplicemente dalla musica ipogea dei Popol Vuh: corpi intatti, ma come risucchiati, prosciugati, inariditi delle linfe vitali, del sangue-come-vita. Ed è tutto vero: non c’è trucco, non c’è inganno. E neppure leggenda. Solo il mistero della morte e di quei morti, in tutta la sua purezza: l’urlo muto della disperazione.
In principio, quindi, fu l’orrore. Ma pure il gusto di spargere il terrore, alla lunga, può venir meno. E chi meglio di Dracula può saperlo? Dal pipistrello alla croce salvifica, dalla telepatia al godimento intriso di eros e thanatos, tutto il film sfiora più di un topos del genere vampiresco: li accenna, li teatralizza, li rallenta, li sgrana, li smonta. Nessuna suspense meccanica, mera catatonia onirica: che i tre attori protagonisti, Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz, sono invitati a rendere con una recitazione antinaturalistica, attonita e rallentata, quasi da film muto. Né c’è bisogno che Dracula si mostri in tutto il suo pallore di biacca (quattro ore di trucco prima di ogni ripresa) per affermarsi come il dominus della vicenda, e del film. La sua presenza va avvertita anche in sua assenza: un gioco miracoloso che a Herzog riesce piuttosto bene, così come a Murnau.
Alla sua seconda collaborazione con Herzog, dopo l’exploit di Aguirre, Dracula-Kinski riempie la pellicola per 17 minuti, sui 107 complessivi: ma una volta apparso, si prende il cuore del film. Per condividerlo solo con Lucy-Adjani, sua controparte femminile e sua ferrea, stralunata, irriducibile carnefice. Maschere entrambi, al maschile e al femminile, dello stesso sentimento di estraneità alle terrene faccende di una società borghese in espansione.
Laddove Murnau evoca il non-umano sprigionato dalle antiche viscere della Natura e dell’Umanità (come ripete Herzog, il conte Orlok sembra un grande insetto), il Dracula di Kinski diventa la malinconica incarnazione dell’Alterità Umana più assoluta e irrimediabile, del tedio e della desolazione di un’eterna solitudine. S’incammina, così, sulla stessa strada di Aguirre, Kaspar Hauser e Stroszek.
Tra le diverse, affettuose infedeltà commesse nei confronti del film di Murnau, Herzog si concede anche una chiosa finale decisamente alternativa a quella del modello originale, così come al libro di Stoker. Per un aristocratico Nosferatu che muore e trova pace, c’è già qualcun’altro pronto a raccogliere il testimone: il buon borghese in carriera Jonathan Harker-Bruno Ganz, che monta a cavallo e galoppa vigoroso. Verso una nuova eternità.
- Bram Stoker, Dracula, Mondadori, Milano, 2016.
- Tod Browning, Dracula, Artist First Digital, 2010 (home video).
- Terence Fisher, Dracula il Vampiro, Sinister Film, 2013 (home video).
- Francis Ford Coppola, Bram Stoker’s Dracula, Universal Pictures Italia, 2002 (home video).
- Werner Herzog, Aguirre, furore di Dio, Ripley’s Home Video, 2016 (home video).
- Werner Herzog L’enigma di Kaspar Hauser, Ripley’s Home Video, 2016 (home video).
- Werner Herzog La ballata di Stroszek, Terminal Video Italia, 2009 (home video).
- Friedrich Wilhelm Murnau, Nosferatu il Vampiro, Dynit Ermitage, 2015 (home video).