Offendere la propria carne, ferirla, martoriarla, maciullarla tra sofferenze inconcepibili, straziandola oltre l’immaginabile pur di mantenersi in vita, è la scelta più insostenibile che ci si possa ritrovare a compiere. Nei multiversi della finzione la saga di Saw (otto pellicole tra il 2004 e il 2017) ha messo in mostra esempi a ripetizione e a effetto (spesso gratuito) di individui posti di fronte al tragico dilemma: dolore o morte?
Altrettanto intollerabile, lancinante e radicale, in grado di ferire e mutilare con identica violenza segnandoci per sempre è il dover infliggere la morte alla propria prole: uccidere un figlio per salvarne un altro. È quanto capita in Il sacrificio del cervo sacro a Steven (Colin Farrell), un chirurgo di Cincinnati con una moglie, Anna (Nicole Kidman) a sua volta oftalmica e due bambini, Kim e Bob (Raffey Cassidy e Sunny Suljic). Il film di Yorgos Lanthimos che si aggiudicò il Prix du scénario a Cannes 2017 è ora disponibile nei formati digitali, mentre arriva nelle sale la nuova opera del cineasta greco, La favorita, forte di ben dieci nomination agli Oscar 2019. A margine va annotato che il nuovo film registra per la prima volta l’assenza del fido sceneggiatore Efthymis Filippou.
Il sacrificio del cervo sacro ha fatto molto discutere alla sua uscita: parte della critica vi ha scorto un cedimento rispetto alla radicalità delle sue opere precedenti. Eppure questa storia quanto a indigeribilità non ha niente da invidiare ai lavori che l’hanno preceduta e arrischia il passaggio dalla dimensione surrealista degli altri lavori a una più metafisica, a suo modo naturalmente. Questa più che altro potrebbe dirsi una versione cool di Saw per il motivo sopra accennato (per il resto del tutto differente dalla sanguinolenta saga).
La vicenda è semplice e implacabile come dev’essere una tragedia. Steven è un cardiochirurgo di prim’ordine ma con una macchia: è un ex alcolista che ubriaco ha operato un paziente non sopravvissuto all’intervento che ha lasciato moglie (Alicia Silverstone) e figlio teenager, Martin (uno straordinario Barry Keoghan, in azione contemporaneamente in Dunkirk) che medita vendetta. È il potenziale angelo sterminatore della storia. Inizia con il voler passare del tempo in compagnia di Steven, facendo leva sul suo senso di colpa. In seguito alza il tiro, frequenta la casa e i familiari di Steven, seduce la figlia adolescente e cerca di far fare sesso a Steven con la sua madre vedova e fin qui potremmo essere a una originale rilettura del pasoliniano Teorema (1968). Infine, scatena la sua ira sui figli di Steven che vengono colpiti da una misteriosa malattia e qui la storia abbandona la dimensione perturbante e si fa del tutto weird.
Non c’è rimedio, non c’è cura, non se ne viene a capo, a meno di non accettare le condizioni poste dal ragazzo: Steven dovrà uccidere uno dei due, anzi dei tre, perché la malattia mortale è prossima a colpire anche la moglie, l’algida Anna. E qui val la pena soffermarsi sulla prima scena del film, perché se consideriamo possibile che un desiderio di vendetta si trasformi in una reale malattia mortale nei confronti di chi odiamo, allora tutto diventa plausibile e possiamo anche ri-accettare come possibile che le nostre emozioni risiedano letteralmente nel cuore.
Sarà stato partendo da questa considerazione che Lanthimos e Filippou hanno deciso di iniziare Il sacrificio del cervo sacro portando lo spettatore subito in sala operatoria, inquadrando con assoluto iperrealismo un cuore sottoposto a intervento: pornografia della carne più intima, della sede dei sentimenti, appunto. La vendetta e il risarcimento compongono la materia del film, che rilegge con le opportune deformazioni la tragedia della sventurata Ifigenia, sul cui corpo ricordiamolo si incide “una radicale secolarizzazione del sacrificio” (Calasso, 1992), qui paradossalmente riportato in una dimensione metafisica sotto lo sguardo, quello di Lanthimos, implacabile e senza pietà che tale rimane lungo l’intero svolgersi della vicenda.
Tutto è scrupolosamente asettico, ospedaliero. Lo è la lussuosa abitazione di Steven e lo sono gli spazi pubblici dove si incontra con Martin; gli eventi sono spesso inquadrati/scrutati da molto in alto verso il basso, o viceversa, attraversando corridoi che si diramano come vene in un corpo sofferente; a sottolinearlo con maggior forza è anche la dinamica consueta degli amplessi di Steven e Anna, che prevedono l’assoluta immobilità di lei come a simulare un corpo sul tavolo operatorio.
Si irradia un’allucinazione di fondo da questa storia che precipita infine in tragedia. Lo sottolinea a più riprese anche la splendida colonna sonora, che si avvale di alcuni brani della compositrice Sofia Gubaidulina (Et Expecto, De Profundis, Fachwerk, Rejoce!) nelle quali strumenti tradizionali russi ed elettronica si mescolano dando luogo a un’austera e tragica atmosfera. La medesima che emana dal secondo movimento, Lento e deserto del Concerto per pianoforte e orchestra di György Ligeti, anch’esso impiegato per il commento sonoro.
Il compositore polacco è stato spesso utilizzato anche da Stanley Kubrick, in 2001, Odissea nello spazio (1968), in Eyes Wide Shut (1999, con Nicole Kidman, va ricordato) e in Shining (1980) e forse non è un caso, perché l’orrore, l’invisibile, l’inumano attraversa e segna sia questa che quelle storie, specie l’ultima tratta dal romanzo di Stephen King. Per la cruda sequenza iniziale e per la tragica conclusione, Lanthimos ha invece optato per una maggiore solennità, classica nel primo caso, con lo Stabat Mater di Franz Schubert e la pura sacralità barocca del coro d’apertura della Passione secondo San Giovanni di Johann Sebastian Bach. Nel complesso si può ben dire che analogamente a Kubrick, Lanthimos non si è limitato all’impiego della musica come mero contorno, preferendo mandarla in scena come agente narrativo tout court.
In definitiva diverse sono le chiavi di lettura de Il sacrificio del cervo sacro. In senso stretto si è di fronte sia a un horror, nella variante possessione/demoniaco, sia a una tragedia, dura come solo i greci possono concepire. Si assiste anche a uno slittamento progressivo delle sensazioni da perturbanti a weird. Tutto nel segno del danno, della vendetta e della scelta (e della scena) agghiacciante del sacrificio.
Si chiude senza parole: i sopravvissuti incrociano Martin, uno sguardo e via, perché “i grandi dolori sono muti” (Léautaud, 1989).
- Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano, 2013.
- Paul Léautaud, Il piccolo amico, In memoriam, Amori, Einaudi, Torino, 1989.