Fu un’annata dall’ottimo raccolto il 1973 cinematografico e alla vendemmia parteciparono un po’ tutti, Federico Fellini con Amarcord, Marco Ferreri con La grande abbuffata, Francis Ford Coppola con American Graffiti, William Friedkin con L’esorcista, Jean Eustache con La mamain et la putain; opere assai diverse, tutte oramai radicate nell’immaginario collettivo. Quell’anno anche il Regno Unito si diede da fare, dando alla luce due opere figlie del mistero e dell’orrore divenute nel tempo pellicole di culto a tutti gli effetti e riferimento obbligato per il cinema che guarda all’ignoto: The Wicker Man di Robin Hardy con un immenso Christopher Lee e Don’t Look Now di Nicolas Roeg. A cinquant’anni dalla prima del 16 ottobre 1973 nel West End londinese, il film di Roeg è ancora fonte di stupore, malessere, inquietudine, tensione e la visione della versione restaurata, presentata al Trieste Science +Fiction Festival 2023, lo ha ribadito inequivocabilmente, rivalorizzando anche la colonna sonora, scritta da Pino Donaggio, che inaugurò con questo lavoro a sua carriera di autore per il cinema (ricordiamo il fruttuoso sodalizio con Brian De Palma da Carrie in avanti). Donaggio è stato ospite del festival presentando la versione restaurata. Il film arrivò nelle sale italiane con un titolo a dir poco sciagurato, A Venezia… un dicembre rosso shocking, strizzando l’occhio probabilmente ai lavori di Dario Argento, Lucio Fulci, Mario Bava, Aldo Lado e gli altri che avevano lanciato con successo il thriller/horror all’italiana, variante di genere all’epoca sulla cresta dell’onda. Una stagione ormai passata, ma invece il brutto titolo italiano è rimasto appiccicato al film di Roeg, che per il resto, invece, è tuttora ammirevole per più di un motivo.
Basterebbero i primi sei minuti per consegnarlo alla storia del cinema. Siamo nel cottage di John e Laura Baxter (Donald Sutherland e Julie Christie). Il camino è acceso, lei legge, cerca una risposta sensata a una domanda che le ha rivolto la loro figlioletta, Christine: “se la Terra è rotonda perché uno stagno ghiacciato è piatto?”. Lui lavora, studia delle diapositive, interni di una chiesa, italiana si direbbe dallo stile. Christine è fuori a giocare nei pressi di uno stagno che attraversa quel tratto di campagna. Indossa un impermiabilino rosso. La luce è autunnale. Non molto distante dal lei c’è il suo fratellino, che va in bicicletta. Passa su una lastra di vetro, cade e cerca di capire che danni ha riportato la bicicletta. Suo padre alza lo sguardo bruscamente, come se percepisse il suono. Christine lancia la palla nello stagno. Suo padre rovescia un bicchiere e una macchia simile a sangue si diffonde sulla superficie di una delle diapositive mostrando una sorta di cappuccio rosso di un impermeabile che va a sovrapporsi sull’immagine di una vetrata della chiesa. L’inquadratura successiva mostra l’impermeabile di Christine riflesso sottosopra nello stagno. Qualcosa gli appare in qualche modo chiaro, lo si comprende dalla sua espressione. John alza lo sguardo e si lancia fuori casa. Il corpo di sua figlia è sott’acqua. Lo solleva, tenta di rianimarla, Un grido animalesco di dolore. Julie fa per uscire a sua volta, è tranquilla, poi vede. Urla. L’urlo senza soluzione di continuità diventa il rumore di un trapano, l’inquadratura si allarga: siamo a Venezia. È di nuovo autunno. In questi sei minuti c’è l’intero film, tutti i suoi temi, è un prologo che funziona come oggi lavorano le sigle delle serie, esponendo gli elementi visivi chiave della vicenda. Anticipa anche in parte la logica del montaggio che caratterizza il film legando la narrazione con elementi cromatici (l’impermeabile riflesso nello stagno seguito dalla fiamma del camino accesso, per esempio), o sonori (urla/trapano), oppure accostando gesti affini che avvengono in parallelo, per esempio quando Christine lancia la palla nello stagno e di seguito John lancia un pacchetto di sigarette a Laura. Soprattutto come un leit motiv musicale, il colore rosso si mostrerà ripetutamente, che sia uno scialle, una sciarpa, un poster su un muro, oppure sangue… Il rosso shocking del titolo italiano si appigliava a questo fil rouge, probabilmente. Il titolo originale invece arriva dalla prima frase del racconto omonimo scritto da Daphne du Maurier, che prende il via in un ristorante della città lagunar. È John a profferirla rivolgendosi alla moglie, laddove i due nel film si troveranno al ristorante soltanto dopo la scena avviata dalla trapanatura del muro.
Daphne du Maurier, va ricordato, con il cinema ha intrattenuto non poche relazioni, tutte di classe. Basti pensare ai tre film che Alfred Hitchcock trasse dalle sue storie: La taverna della Giamaica (1939), Rebecca, la prima moglie (1940) e soprattutto Gli Uccelli (1963). Tuttora le sue storie vengono riadattate per il cinema e anche per serie televisive (incluso il romanzo Rebecca). Il titolo del film nei manifesti dell’epoca compariva tra virgolette a mo’ di citazione, vuoi della battuta iniziale, vuoi come a indicare che si partiva da qualcosa di preesistente. Naturalmente Roeg rielaborò il testo per renderlo idoneo alla sua idea di montaggio, che avendo fatto scuola (si pensi a Cristopher Nolan) oggi sorprende meno, ma che ai tempi era a dir poco spiazzante. Volendo riassumere a grandi linee la trama, i due coniugi a Venezia fanno per caso la conoscenza di una coppia di sorelle Wendy (Clelia Matania) e Heather (Hilary Mason). Quest’ultima è cieca e possiede dei poteri parapsichici. Heather informa Laura di aver veduto la loro figlioletta con indosso un impermeabile rosso seduta in mezzo a lei e a John durante il pranzo al ristorante dove per caso le due coppie si sono incrociate. Laura è scossa ma anche felice, sembra finalmente riacquistare un po’ della serenità perduta. John al contrario diventa inquieto e teme per la salute mentale e fisica della moglie. Nel frattempo, avvengono dei terribili omicidi nella Laguna. John sospetta che le due sorelle possano in qualche modo essere coinvolte negli assassinii. In realtà le due donne sono a conoscenze del destino di John il quale, a sua volta, scorge una bambina in impermeabile rosso ogni qualvolta avviene un fatto di sangue per le calle della città.
Il film venne apprezzato nel complesso da Daphne du Maurier, anche nelle variazioni meno significative. Per esempio, diversamente dal racconto, la coppia nel film si non si reca a Venezia in vacanza, ma per un lavoro di restauro che John deve effettuare nella chiesa romanica di San Nicolò dei Mendicoli (quella vista nelle diapositive a inizio film). Roeg aveva messo a punto e affinato il suo stile nei due film precedenti giocando con la successione degli eventi, non iniziando dal principio della storia e non chiudendola con il finale in senso stretto. Nel cinema di Roeg, almeno in quello degli anni Settanta (che regalerà in seguito L’uomo che cadde sulla Terra), le singole sequenze brillano di luce propria e ciascuna illumina le altre. Il tempo non è lineare, sebbene in Don’t Look Now appaiano orologi ovunque. La stupefacente scena d’amore tra John e Laura per esempio procede per salti temporali ripetuti: sono a letto/si rivestono per la cena, per uscire/sono a letto/lei si prepara a uscire/sono aletto/lui si prepara, il nudo si ricopre e si rimette a nudo, passato, presente e futuro coesistono simultaneamente. Cronologie che producono spaesamento. Accade, già nell’esordio, Performance (Sadismo, in Italia), girato a quattro mani nel 1968 con Donald Cammell e che schierava affianco a James Fox (allora sugli scudi grazie a Il servo di James Losey, 1963), Mick Jagger e Anita Pallenberg. La vicenda incrociava malavita londinese, produttori musicali, droga, violenza e un mucchio di citazioni, da Jorge Luis Borges a William Burroughs tra corrispondenze e circolarità che sarebbero tornate utili in seguito. Il successivo Walkabout (1971) fu invece tutta farina del suo sacco, e la partenza shock (questa sì) di Don’t Look Now venne in qualche modo messa a punto già qui, con padre, madre e due figli, poi padre in giro con due figli e di seguito una morte…
Torniamo a Don’t Look Now, ai suoi temi narrativi che ruotano principalmente intorno al dolore e l’elaborazione del lutto, alla preveggenza, alla cecità e al visionare l’invisibile, al desiderio di vincere la morte, al trionfo del dettaglio dove potrebbero annidarsi il vero o il falso. Nella sequenza iniziale Laura legge un libro (inesistente) il cui titolo è Beyond the Fragile Geometry of Space. L’autore è suo marito John e il film ci farà capire che questi è un preveggente (“ha il dono, anche se non lo sa, anche se fa resistenza”, si dicono tra loro le sorelle), capace quindi di andare oltre la visione normale delle cose e il titolo del libro pare riconoscere questo dono di John, quasi come se fosse emerso dal suo inconscio. Segnali che rimbalzano uno verso l’altro. Si è detto che il rosso attraversa la storia, segnandola, indirizzandola, ma altrettanto fa l’acqua. È a causa sua che Christine è morta, e ora i due protagonisti sono perennemente circondati dall’acqua in una città che recita ovunque la parola morte con le sue pietre umide e fatiscenti, i suoi canali brulicanti di topi, i passaggi bui dove è facile sbagliare percorso, una città dove solo in alcune inquadrature, su strade trafficate o vicino al Canal Grande, si vedono residenti e turisti, ma perlopiù non c’è nessun altro in giro, e strade, ponti, canali, vicoli ciechi si ripiegano su sé stessi. John e Laura si perdono più di una volta in questo labirinto anche minaccioso perché tra i canali si aggira un misterioso killer e dai canali si vedono estrarre cadaveri, le sue vittime. Una città malinconica e minacciosa, non a caso John cerca di sollevare una statua sul suo trespolo sulla facciata della chiesa che sta restaurando e quando la scopre appare un volto mostruoso, ghignante, che sembra prendersi gioco di lui. All’interno, l’impalcatura sulla quale è salito, sempre per lavoro, crolla e lui rischia la vita. Ancora: l’hotel dove alloggiano i Baxter non vede l’ora di chiudere a fine stagione e i mobili dell’atrio sono già avvolti in lenzuoli bianchi, cadaveri in spazi avvolti a loro volta dal silenzio.
Don’t Look Now è catalogato come film horror, ma questa etichetta è di per sé insignificante, il film non regala terrore a buon mercato, non funziona grazie a una trama con colpi di scena, non si affida all’azione. È l’atmosfera a essere inquietante, sono i segni sparsi dappertutto a lanciare messaggi paurosi, è lo stato d’animo dei protagonisti a trasmettere tensione e malessere. Quando John incrocia sua moglie e le due sorelle vestite a lutto, che in realtà si stanno recando al suo funerale in una sequenza sottolineata magistralmente dal commento sonoro di Donaggio con un crescendo d’archi dal sapore barocco e dai toni drammatici, tutto si svela, inclusa l’accezione di eerie data Mark Fisher – “qualcosa dove non ci dovrebbe essere nulla” – (Fisher, 2018) ricorrendo a una serie di opere tra cui proprio Don’t Look Now.
“L’eerie riguarda l’ignoto”, scrive sempre Fisher, e a quel dominio appartiene il film di Roeg. Desideriamo fermare il tempo, non morire, vivere per sempre ci sembra suggerire la visione del film mostrando le premonizioni di John e al tempo stesso il suo razionalismo, la sua necessità di ordinare il mondo. Tra oscuri avvistamenti, fato invisibile, senso della perdita e tempo senza tempo, Don’t Look Now conserva intatta la sua alterità e la capacità di destare inquietudine dalla quale non è facile liberarsi.
- Daphne du Maurier, Non voltarti, il Saggiatore, Milano, 2009.
- Mark Fisher, The Weird and the Eerie, minimum fax, Roma, 2018.