Esiste uno spazio in certe vite in cui l’identità prende contorni, si illumina, tenta una direzione, oscilla tra soffi imprevedibili, poi lieve va dissolversi e diventare orizzonte, qualcosa di immenso e impalpabile oltre la vista. È quanto ci racconta un romanzo dalla struttura assai originale, Nonostante tutte di Filippo Maria Battaglia, che nel febbraio di questo inverno ha inaugurato la nuova collana di Einaudi, Unici, dove libri unici, appunto, per struttura, tema, stile prendono forma. Il romanzo è la storia di centodiciannove donne del Novecento, che hanno atteso alla penna per lasciare una traccia di sé, un racconto veritiero di regioni diverse, scenari diseguali, lezioni importanti, giornate difettive, orme dannate, mangianastri brulicanti di note, somma di doveri assolti e pozzanghere lungo il cammino, oltrepassate malgrado l’ombra del fango addosso.
Battaglia ha ricostruito un’autobiografia immaginaria, accostando e facendo dialogare ben quattrocento frammenti, selezionati tra le migliaia custoditi nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Istantanee scelte per contribuire all’immagine di Nina, nome di fantasia dietro cui l’autore ha ricostruito la storia delle donne di un secolo fa, una sola voce per tante. Una sola voce, nonostante tutte. Perché, precisa lo stesso Battaglia nell’introduzione:
“scrivere per queste centodiciannove donne ha significato soprattutto questo: portare in salvo se stesse e la propria voce, in una lotta quasi fisica con le parole”.
L’alternarsi di voci è segnato dallo spazio bianco, in un’ossatura narrativa senza precedenti, in cui l’autore armonizza accenti distinti, facendo un passo indietro rispetto alla scrittura personale, per eleggere una sola protagonista ad autrice: ciascuna donna che valga per tutte, pronta a dirsi in un frammento.
“Dicevo che quasi tutti i poeti nostri hanno finora cantato una donna ideale, che Beatrice è un simbolo e Laura un geroglifico, e che se qualche donna ottenne il canto dei poeti nostri è quella ch’essi non potettero avere: quella ch’ebbero e che diede loro dei figli non fu neanche da essi nominata”
(Aleramo, 2003).
Così, Sibilla Aleramo in Una donna nel 1906, il primo romanzo femminista italiano, denunciava come le donne agli occhi degli uomini venissero riconosciute solo nell’evanescenza della poesia di altri tempi. Quella a loro accanto, la madre dei propri figli, rimaneva oggetto tra gli oggetti di cui farsi vanto nella società del dominio maschile. Da protofemminista, la Aleramo sovvertì le sillabe di una storia già composta, fatta di gesti spogli e pensieri dimessi, per amare quella vita e quella morte che non le appartenevano più nell’indifferenza del matrimonio. Per svincolarsi da suo marito, fu costretta a tentare il suicidio per poi lasciare suo figlio, pur prevedendone l’odio futuro, perché un giorno lui si dimostrasse con sua moglie degno figlio di una donna, pronto a ricercare le creature metafisiche delle terzine dei poeti in quella madre e sposa accanto a lui, non immolata al sacrificio ma capace di tutte le vite possibili. In questo gesto la Aleramo dimostra che nessun giorno è senza finali a sorpresa, nulla è abbastanza spaventoso da fermare una rivoluzione. Lo dimostra con la stessa enfasi il romanzo Nonostante tutte, un secolo dopo, quando occorre un contrappeso di parole collettive a superare punti ancora fermi.
“Nacqui leggerissima”.
Parte con un’affermazione di levità il libro di Battaglia. Nella pienezza delle aspettative di una Nina bambina, il raglio di un asino segna l’inizio dei mattini impastati di polenta e latte raccolti a cucchiaiate avide, di uova scovate nei cesti di gallina, di rincorse a scoiattoli, arcobaleni, farfalle, sotto il profumo dei ciliegi in fiore. In mezzo, la solitudine di sentimenti validati dalla fiducia più che dalla parola.
“Non avevo il coraggio di dire ai miei che li amavo, nessuno parlava mai di affetto o amore, me ne sarei vergognata”.
Per l’amore non esistono parole. Il loro uso è deputato alla concretezza del fare, non del sentire. Nobili sono quelle parole non pronunciate, per riserbo o debolezza.
“La vera solitudine non l’ho mai sperimentata, come credeva mia madre, nei miei giochi solitari, ma la sperimentavo, quasi paralizzante, quando venivo abbandonata sopra carri con madonne e santi e cestini pieni di petali di rose da spargere in giro: erano le feste religiose, molto frequenti e molto affollate, che mi facevano sentire prigioniera di un abito che pungeva. […] Sola, nonostante il vano incoraggiamento di mamma e papà che, tra la folla, mi invitavano con ampi gesti a spargere con maggiori frequenza e grazia i miei petali di rosa. Per fare bella figura”.
La vera solitudine si addensa nella mostra di Nina al paese, mano addestrata al lancio dei petali, sorriso meccanico, gesti recitati, senza cenni ribelli. I giochi solitari non separano neanche un millimetro dalla felicità. Ci riesce quell’imposizione di stare tra gli altri, mai con gli altri, al punto che il solo silenzio combacia con la serenità. Con il tempo il doppio di sé Nina lo scopre in sé stessa, non in altri, in quella forza con cui impara a scacciare il mondo esterno e quel suo inutile zoppicare. L’altro è la violenza che arriva con le prime forme della bellezza; arriva nella stalla dove la bambina va a salutare mucche e vitelli.
Ha la mano rassicurante di un uomo sconosciuto, il richiamo nell’ombra, la stretta a sé nella convinzione che possa risultare condivisibile qualsiasi gesto sappia di possesso, quasi un onore di attenzione, una generosità gratuita e, in quanto tale, nobile. La prima violenza, questa, di molte altre in cui, nei pensieri degli uomini di turno, Nina sembra tardare a pronunciare i suoi sì solo perché balbuziente di consensi, inconsapevole di volontà inesplorate.
“Chiesi al castagno perché succedessero queste cose, ma sentivo solo le fronde accarezzarmi, questa era la sua risposta. Così piccola mi chiedevo se esisteva Dio, me lo chiedo ancora”.
Dai sedici anni la fermezza di una direzione nuova si afferma con la ricerca di un lavoro, l’ansia del primo voto a breve, a due passi da ogni scelta la minaccia della rinuncia, il terzo passo per sorpassarla e vincerla. Avere un senso per sé, sembra non vedere una frontiera nel sentimento dell’amore, quello dichiarato da una mano maschile su un foglio di carta scritto a matita, quello a cui rimettersi per la vita intera. Tuttavia, nell’incrocio di due aggettivi, “uniti e ostinati”, Nina trova non il legame sperato ma un’inattesa prigione. Prosegue il suo lavoro, benché osteggiata dai suoceri, la frequentazione di mostre e conferenze, l’alternarsi della Messa domenicale ai dibattiti in fabbrica su emancipazione, redistribuzione dei lavori domestici, aborto, divorzio, parità. “Un corteo di donne che cercano, per una di loro, il posto in un universo maschile”. Eppure, le battaglie non sono per tutti uguali. C’è chi ne combatte di silenziose, meno urlate, più nascoste dietro il pudore di non ammettere la desolazione della propria quotidianità. Un figlio che non arriva, le risposte faticose a domande senza riservatezza, il labile rispetto ancor più corroso dall’evenienza di non essere madre. E, poi, solo dopo la notizia a lungo attesa, l’ammissione di un “finalmente mi ha detto ti amo”. La maternità, il principio di tutte le attese, è il tempo in cui ciascuna donna ha davvero la misura del proprio sacrificio, oltre ogni prevedibile gioia.
“Chissà cosa avrà provato mia madre il giorno che ha scoperto di essere incinta di me? Si sarà sentita ugualmente abitata da qualcuno che cresce e si fa a nostra insaputa, un processo su cui non puoi esercitare alcun controllo? Si sarà sentita così rarefatta e stralunata, così insicura e perduta, di questa gioia dolorosa, così spaziosa dentro e cava come un respiro che si allarga? O avrà fatto finta di niente, perché finché ero dentro andava tutto bene e poi si vedrà?”.
La malinconia non è contemplata, è piuttosto accompagnata da una smorfia di disapprovazione di chi non percepisce nella gravidanza altro che l’assolvimento di un contributo al bene individuale e collettivo. Nina invece ne veste i dubbi, ne intuisce nel cuore quanto la parola rifiuta, che la maternità è anche sopravvivenza affannosa al cambiamento, non solo un romanzo dall’epilogo festoso.
La vita le si fa più pesante dopo quel primo sorriso di bimbo. Le domande si addensano inammissibili:
“Perché ti ho generato? Forse per vendicarmi di essere stata io stessa generata, mascherando la mia vendetta sotto il desiderio di maternità?”.
Siamo nel Novecento, e la confessione a un foglio di carta di queste donne attesta come i dibattiti degli ultimi tempi sulla maternità, che pure hanno acceso polemiche stupite sul tema, trovano da sempre eco nelle stanze segrete dei cuori di donna. Confessioni oltremodo imbarazzanti per chi madre lo sia ancora oggi per prassi e non per convinzione. Eppure Nina, e le centodiciannove sue anime, ci dicono di una solitudine tanto più crudele perché senza diritto di esposizione se non nella scrittura. Il margine di tenuta si sgretola, Nina sprofonda nel nemico invisibile della depressione. Cerca riparo tra le braccia di sua madre, ma la donna si ostina a non capire, a ripeterle che ognuna è chiamata a una forma di sacrifico più grande per spingere avanti il confine della resistenza di tutte. Invece, proprio nella casa di cura, tra altre come lei ostili alla menzogna, Nina trova la sua verità.
“Ora siamo proprio due pazze: ridiamo e uriniamo una di fronte all’altra a fianco dei letti, meravigliate non tanto del farsela addosso quanto del riuscire a ridere così di gusto. Istintivamente ci stringiamo l’una all’altra e il riso si confonde con il pianto”.
Con altri mezzi, o forse gli stessi rovesciati, Nina recupera quella metà di sé rimasta immobile con la maternità. La riconosce nella condivisione con chi, quanto lei, ha sperimentato certe albe piovose. Arriva la separazione dal marito, un amore nuovo e più consapevole, l’essere madre come si vuole, non come si deve. Nina taglia orgogliosamente il nastro finale, con la coscienza di aver spinto avanti un confine per altre, non il confine della resistenza bensì di una parola tutta per sé.
“Il corpo è un cimitero di cicatrici, ma non ho rimpianti: ognuna di esse mi ha insegnato una nuova prospettiva da cui considerare il mondo, le cose e le persone intorno a me”.
Centodiciannove voci per dirci, prima di altre ma insieme a tutte, che una donna non rientra solo nelle opzioni previste da sempre, che una donna ha centodiciannove possibilità di spaventi, sicurezze, carezze e colpi, che una donna sa stare da sola come in una pagina scritta, sa essere le sue quattro stagioni mentre intorno da lei ci si aspetta sia sempre la stessa, sa trovare abbracci nell’anima mentre il fuori è senz’occhi, sa lasciare una pansè in un quaderno di appunti perché le ricordi un gesto amoroso per sé.
“«La virtù», come la chiamavano gli antichi, si definisce al livello di «ciò che dipende da noi»”
(de Beauvoir, 2016).
- Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli, Milano, 2003.
- Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 2016.