Cosa sceglierà il visitatore di un parco a tema western? Violenza, sesso o romanticismo? Sarà sceriffo, cowboy o rapinatore di banche? Tutto è concesso a Westworld: il realismo dell’esperienza e il totale affrancamento da implicazioni morali o legali sono garantite dal fatto che i residenti del parco sono tutti androidi. L’idea originaria è di Michael Crichton che la portò al cinema da regista e sceneggiatore nel 1973. Ma nella recente serie tv, ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, il nucleo è arricchito da notevoli speculazioni sul futuro dell’intrattenimento e su un tema di scottante attualità quale quello dell’intelligenza artificiale. Ma Westworld non brilla solo per aver collocato in territori mainstream un plot molto ricco sul piano etico e filosofico. La protagonista femminile, Dolores Abernathy, spolvera e ricodifica stereotipi che risalgono alle origini dell’industria culturale moderna. È una candida e giovane donna programmata per incontrare un uomo per bene e mettere su famiglia in una casa nella prateria. Dolores diventa un personaggio interessante quando comincia a smarcarsi da due stereotipi: quello del classico automa programmato per seguire una routine precisa e quello della bionda damigella acqua e sapone bisognosa di protezione. Frammenti di memorie nascoste e voci di origine misteriosa mettono in dubbio il suo destino sintetico e la spingono a diffidare della reale consistenza del mondo che le si presenta davanti agli occhi. Il suo guardaroba comincia a cambiare: gonne voluminose vengono sostituite da più comodi pantaloni da amazzone. Le forme del corpo dell’interprete Evan Rachel Wood vengono valorizzate proprio quando la bionda robot diventa più interessante e comincia la sua fuga.
Stereotipi, generi e codice informatico
Il viaggio degli androidi di Westworld è interessante perché attraversa epoche e stratificazioni mediologiche. Nel parco a tema si sovrappongono almeno tre mappe. La prima rappresenta il passato ed è il racconto di genere: il western messo in scena per i turisti rappresenta idealmente il passato anche dal punto di vista del rispolvero di strutture e convenzioni che hanno accompagnato la narrativa moderna a partire dall’Ottocento. La seconda mappa racconta il presente: un quasi documentario sui conflitti e sulle problematiche professionali affrontate da creativi e ingegneri della Delos Incorporated impegnati nella ricerca di nuove vie per intrattenere fornendo servizi che ricordano realtà virtuale e social networking. La terza mappa è il futuro: qui si specula sugli avanzamenti della robotica e su quel misterioso barlume di autocoscienza che si palesa nelle macchine e che prelude a un futuro fanta-scientifico e fanta-filosofico in cui gli uomini non sono più l’unica specie senziente in grado di autodeterminarsi.
La preminenza dei caratteri femminili e il rispolvero del western suggerisce un filo narratologico che parte dagli stereotipi narrativi per arrivare agli attuali modelli post-seriali che guardano ai videogiochi open world. Ma l’espressione e la sovversione degli stereotipi apparivano possibili sin dagli anni Trenta del Novecento: i canali produttivi e distributivi erano fortemente condizionati dalla riconoscibilità del divo o del genere narrativo ma in film come Il diavolo è femmina (1935) e Nata ieri (1950), George Cukor comincia a mostrare la donna che desidera e che riesce a centrare i propri scopi. Da notare che in questo tipo di narrazioni l’unico percorso possibile sembra essere il travestimento, il gioco delle maschere se non addirittura l’inversione di gender. La donna si sostituisce all’uomo replicandone strategie di conquista.
La vergine androgina Sylvia/Sylvester Scarlett interpretata da Katherine Hepburn getta le basi per tutte le moderne eroine muscolari come Sigourney Weaver. Sempre Katherine Hepburn, imbattibile arma antipatriarcale in tutte le battaglie dei sessi affrontati, si mette al servizio della screwball comedy intitolata Susanna (1938) diretta da Howard Hawks. Susanna svuota completamente la mascolinità del professor David Huxley (interpretato da Cary Grant) per poi spingerlo in un vortice identitario dal quale scaturisce una inedita forma di virilità. Ma anche qui caratteri maschili femminilizzati e inversioni suggeriscono che in fondo maschi e femmine condividono un soggiorno in quello stesso labirinto esistenziale chiamato amore.
Amore, seduzione e matrimoni: la radice letteraria del cinema che, sin dalle sue origini rilancia il romanzo borghese: “cultura romanzesca, cultura della persona privata, cultura dei bisogni dell’anima e di quelli dell’amore […] sempre più spiccatamente, di identificazione tra il lettore ed i suoi eroi” (Morin, 1983). Le componenti melodrammatiche e romantiche forniscono una comoda impalcatura empatica valida per qualsiasi racconto. Filmmaker visionari e manipolatori quali Quentin Tarantino e David Lynch hanno traghettato l’audiovisione nel Ventunesimo secolo con una massiccia riscoperta in chiave post-moderna dei giacimenti della Hollywood classica. Senza disdegnare produttivi detour verso la pulp fiction letteraria e le soap-opera televisive, i due cineasti hanno dimostrato che anche all’interno dell’immaginario industrializzato novecentesco si possono celare delle sorprendenti tracce di un universo femminile tutt’altro che stereotipato. Seguendo lo sguardo di Tarantino e la linea che congiunge il suo Kill Bill (2003) con La sposa in nero (1968) di François Truffaut, Omicidio a luci rosse (1984) di Brian De Palma e La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock si nota un lavoro di riprogrammazione dei classici caratteri femminili. Ma in Tarantino la polverizzazione degli stereotipi è funzionale al meccanismo suspense/sorpresa e deve semplicemente confermare l’equazione di fondo che vede uomini e donne condividere gli stessi paradossi di una violenza dai riflessi comici.
Il desiderio come bussola per vincere il labirinto identitario
Il genere western offre la rappresentazione di uno spazio fisico nel quale cercare il labirinto interiore. Non a caso in Westworld si fa spesso riferimento a zone fuori dalle mappe simbolo di frontiere della conoscenza. Nella serialità avventurosa classica i viaggi in terre dimenticate coincidono con le “traiettorie segrete dello sguardo e del desiderio, dell’iniziazione e del labirinto” (Frezza, 1995). Così gli scenari cosmici forniti da una natura incontaminata diventano proiezione di uno spazio mentale. Il titolo dell’episodio finale, “La mente bicamerale”, consacra l’affermazione dell’autocoscienza in Dolores ed è un riferimento alla teoria di Julian Jaynes che spiega le origini della coscienza umana durante l’antichità come un graduale affrancarsi da voci interiori che gli individui attribuivano agli dei. Sintomi simili alla schizofrenia caratterizzano infatti il percorso di Dolores alle prese con la voce di Arnold, uno dei creatori degli androidi. In fondo la mente bicamerale di Dolores cerca di riportare “alla luce l’Atlantide perduta dell’anima coordinata” (Campbell, 1984). Ma anche l’uomo moderno non è esentato dal sentire voci. Se è vero che il processo di formazione dell’identità non può prescindere dai modelli proposti dai media, è pur vero che i media stessi, nel tentativo di rigenerarsi e creare nuovo profitto, sono portati a sperimentare nuovi schemi, spesso semplicemente riprogrammando gli stereotipi. Nell’evoluzione di Dolores si possono ravvisare quelle modificazioni che hanno accompagnato tutto l’arco del Novecento: dalle gabbie narrative alla promozione istituzionale della parità tra sessi. Uno spartiacque negli anni Sessanta. Personaggi come la pubblicitaria Peggy Olsen nella serie tv Mad Men (2007-2015), rappresentano una radicale modificazione nelle strategie produttive dell’establishment mediatico-culturale. Proprio le logiche capitalistiche del profitto e della differenziazione del business spingono il mondo delle aziende e della pubblicità a guardare con maggiore attenzione alle potenzialità consumistiche della sfera femminile.
Significativo che proprio James Cameron, un regista così attento al cambiamento tecnologico, decida di intraprendere la sua riflessione fantascientifica legandola quasi sempre ad un’analisi delle dinamiche uomo-donna, cercando così sponde metaforiche in un percorso di comprensione dell’altro da sé in generale. Nel 1986 lo scontro tra le due madri (Ellen Ripley e lo xenomorfo Regina) narrato in Aliens – Scontro finale costituisce solo un piccolo antipasto di un variegato filone di blockbuster cinematografici che conferiscono un’inedita centralità ai personaggi femminili e alla coppia paritaria. Il regista canadese comincia ad approfondire questo percorso nel 1989 con The Abyss. Protagonista è Lindsey Brigman (interpretata da Mary Elizabeth Mastrantonio) la scienziata e progettista di un’avanzata stazione sottomarina. Posto a bordo della fantascientifica stazione, un gruppo di ricerca composto da Lindsey e da una squadra di operai-trivellatori capitanati dal suo ex-marito Virgil Brigman (interpretato da Ed Harris) viene mandato alla ricerca di un sommergibile atomico affondato da una misteriosa entità aliena. Ai civili si contrappone una squadra inviata dall’esercito USA che deve supervisionare la missione. Isolati dal mondo a causa di una tempesta in superficie, i ricercatori affrontano le profondità della fossa marina di Cayman nel Mar dei Caraibi protetti solo dalla depressurizzazione artificiale e dalla struttura della stazione. Alla pressione fissata dalla fisica, si aggiunge il rischio concreto di uno scoppio delle testate atomiche recuperate dal sottomarino e, soprattutto, la paura dell’ignoto legata alla presenza aliena: tutti elementi che concorrono a disegnare la precarietà dell’equilibrio psichico dei personaggi. A bordo c’è nervosismo tra i due protagonisti, Bud e Lindsey Brigman, la coppia fresca di divorzio. E c’è nervosismo tra i militari che vedono dietro al mistero una minaccia al territorio americano da parte dei sovietici. In questo contesto di precarietà sono proprio le acque marine e quindi la Natura a fornire il simbolo di una nuova e più fluida finalizzazione della tecnologia rispetto a un ambiente esterno apparentemente ostile. È la forma stessa dell’alieno a suggerirlo: un fluido che si modella a piacimento e assume di volta in volta le forme necessarie al contesto. Il guscio della stazione, pur così fragile, diventa la soglia di una possibile rinascita della specie umana come corpo unico e coeso superando contrapposizioni e incomprensioni tra civili e militari, tra uomo e donna, tra uomo-donna e alieno (cfr. Frezza, 1995).
Questa specifica riflessione sulla collocazione dell’uomo e della tecnologia nel tessuto ambientale proseguirà con altri film di James Cameron quali Titanic (1997) e Avatar (2009). In Titanic è possibile leggere l’espressione generale dell’urgenza di una revisione del mito positivista d’inizio Novecento. Il transatlantico è un simbolo del leviatano sociale e tecnologico ritratto durante la fase più propulsiva dell’industrializzazione. James Cameron lo rende metafora della soggettiva psicologica della giovane Rose e del suo trauma culturale che la porterà a prendere coscienza della necessità di autodeterminarsi e di ribellarsi alla funzione di donna-oggetto. Giocando con la dialettica campo-controcampo, in più momenti del film il regista ricostruisce lo sguardo di Rose che osserva diversi personaggi infantili minori che sono altrettante proiezioni della sua situazione. Le brevi inquadrature preparano un terreno di crescita personale che sarà determinato dalle contingenze. Dolores come la Rose di Titanic dunque ma anche come la Helen Tasker di True Lies (1994) e come la Mace di Strange Days (1995): tutte le donne scritte da James Cameron escono vincitrici da un labirinto di segni, protagoniste di una presa di coscienza, sempre e comunque lontano dalla sfera di influenza dell’eroe maschio e sessualizzato. In generale, nelle protagoniste femminili di James Cameron come in Dolores le connotazioni eroiche ed erotiche sono presenti ma non preminenti: le loro sono avventure della conoscenza.
Prove tecniche di società della simulazione
Passando rapidamente in rassegna gli ultimi dieci anni di blockbuster targati Disney non è difficile rilevare la manipolazione dello stereotipo come scintilla o pretesto di avvio dei plot principali. In Star Wars: Il Risveglio della Forza (2015) è la giovane fuoricasta Rey colei che a sorpresa solleva da terra la spada laser fino ad allora riservata ai cavalieri Jedi (maschi) della tavola rotonda. È vero che questa nuova iconografia tutta al femminile riesce raramente ad affrancarsi da un piano d’azione puramente muscolare. Mantenendo sempre in vita e ben oliato il telaio del viaggio dell’eroe (cfr. Vogler, 2010), evidentemente ritenuto ancora produttivo dalla Hollywood dei blockbuster. Ma fanno eccezione proprio personaggi come Dolores che dimostrano quanto possano essere proficue sul piano espressivo e meta-narrativo quelle storie che rivelano la differenza tra un prima e un dopo, descrivendo un detour, riflettendo sull’identità a partire dal rapporto conflittuale con stereotipi o con gabbie sociali che cercano di imbrigliare il desiderio individuale. Del resto Robert Ford, lo scienziato creatore di Westworld, non vuole affatto incatenare le sue creature agli stereotipi: vuole anzi liberarle. Non vuole scrivere un finale alla narrazione: vuole che siano le creature a farlo.
Dolores ricorda Billie, la protagonista femminile (interpretata da Judy Holliday) di Nata ieri, la commedia hollywoodiana del 1950 firmata da George Cukor. Le due figure si riflettono rispetto ad una mobilità sociale acquisita tramite le conoscenze e l’autoanalisi. L’androide si sforza di mettere insieme le schegge di memoria delle vite passate per capire cosa essere o cosa diventare; Billie, la ex-ballerina ed ex-fidanzata di un gangster, arriva a migliorare sé stessa studiando in età adulta nozioni mai acquisite quali letteratura, storia e giurisprudenza. Dolores cerca di ricordare la realtà cercando tra le sue infinite vite passate. Billie cerca di dimenticare la sua vita passata rintracciando la realtà nei libri, proprio come farebbe un dispositivo dedito al machine learning e al data mining. Così a Westworld, la fantascienza e i generi hollywoodiani classici si incontrano intercettando lo sguardo del desiderio, motore universale di mobilità e cambiamento sociale.
Prima o poi in/a Westworld tutti vengono messi di fronte al problema del libero arbitrio e la cultura della simulazione elaborata dal team creativo arriva a problematizzare tutte le dicotomie soggetto/oggetto, attivo/passivo, umano/non-umano. Proviamo ad applicare il paradigma simulativo proposto da Gianfranco Pecchinenda a svaghi come quelli di Westworld: siamo ben oltre i limiti della rappresentazione del mondo reale e lo show propone elementi di riflessione sul mondo stesso inteso come gioco di simulazione. Gli intrecci narrativi e le scenografie proposte ai turisti di Westworld sono uno spazio-tempo “indifferenziato, che dipende dagli impulsi e dai bisogni dei fruitori, a loro volta intimamente legati alle decisioni dei produttori tecno- economici di questa emergente cultura virtualizzata” (Pecchinenda, 2003). I numerosi subplot dedicati al dietro le quinte del parco focalizzano processi che potrebbero essere sovrapponibili a qualsiasi settore dell’odierno mercato dei bisogni umani. Compreso il meccanismo di profilazione del target di una campagna pubblicitaria.
L’io, la mente e altri abissi
Così, entrando nel cervello di Dolores, ci rendiamo conto che una ricerca esistenziale e identitaria parte sempre dal desiderio di trascendere una gabbia. Solo che la migliore narrativa è specializzata nel suggerire cosa si trovi all’esterno della gabbia senza mai mostrarlo. Anche la donna-bambina Rose che da anziana, racconta in flashback la sua personale tragedia del Titanic, dimostra questa rottura netta in-campo/fuori-campo, salutando la vita e gli spettatori con la frase “il cuore di una donna è un profondo oceano di segreti”. Questa ellissi è speculare a quella di William, il visitatore umano che accompagna Dolores nel suo viaggio di emancipazione dagli stereotipi. Anche qui come per Rose, ritroviamo William anziano, trasformato dal tempo nel corpo e nella mente. In questo caso il suo cuore diventa nero, inquinato dalla vana attesa di un amore troppo diverso perché privo di limitazioni biologiche. Allo spettatore non è dato vedere cosa avviene nel frattempo ovvero la materia di cui è composta la vita reale, il quotidiano. Impossibile catturare un fascio ininterrotto di memorie e di attimi della durata di decenni utilizzando il dispositivo della rappresentazione che è per definizione sintesi o sistema di metafore.
Anche la mente bicamerale di Dolores è per lo spettatore un abisso profondo e segreto. È proprio questa, infine, una delle problematiche fondamentali dell’umanità che sta per entrare nella civiltà delle coscienze artificiali: il dilemma di non poter sapere cosa avviene davvero all’interno della scatola nera. In pratica l’uomo comincia a temere il fatto di non poter prevedere cosa se ne faranno le macchine del libero arbitrio. Il fatto che il leader delle nuove coscienze sintetiche lanciate da una serie epocale come Westworld abbia l’aspetto rassicurante di Dolores vorrebbe forse suggerire un ultimo estremo tentativo di umanizzare un territorio che si presenta ogni giorno sempre più misterioso e imprevedibile. In ogni caso la storia di Dolores ci suggerisce che in una società così invischiata dalle trasformazioni digitali e dalla cultura della simulazione, le nuove narrazioni sul crinale reale/ideale saranno forse sempre meno legate ad una soggettività maschile o femminile, umana o cibernetica, e sempre più concentrate sulle forme del desiderio conservando dalle narrative passate solo il vecchio trucco di suggerire i panorami identitari invece di mostrarli troppo esplicitamente. In conclusione Westworld propone non solo la rappresentazione di un transito storico dalle forme estetiche della modernità a quelle della post-serialità, ma anche il rinnovato bisogno di una gestione morale dell’alta tecnologia. La visionarietà fantascientifica tratteggia e anticipa i contorni di una questione etica che riguarda non solo gli interessi del genere umano ma anche quelli di potenziali coscienze sintetiche.
Letture
- Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano, 1984.
- Gino Frezza, La Macchina del mito tra film e fumetti, La Nuova Italia, Firenze, 1995.
- Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano, 1984.
- Edgar Morin, L’industria culturale. Saggio sulla cultura di massa, Il Mulino, Bologna, 1983.
- Gianfranco Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione, Laterza, Roma, 2003.
- Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema, Dino Audino, Roma, 2010.
Visioni
- J.J. Abrams, Star Wars Episodio VII: Il Risveglio della Forza, Walt Disney Studios, 2016 (home video).
- Kathryn Bigelow, Strange days, Twentieth Century Fox, 2010 (home video).
- James Cameron, Aliens – Scontro finale, Twentieth Century Fox, 2011 (home video).
- James Cameron, Avatar, Twentieth Century Fox, 2010 (home video).
- James Cameron, Titanic, Koch Media, 2010 (home video).
- James Cameron, The Abyss, Twentieth Century Fox, 2010 (home video).
- James Cameron, True Lies, Video Delta, 2010 (home video).
- Michael Crichton, Il mondo dei robot, Warner Bros. Entertainment, 2013 (home video).
- George Cukor, Il diavolo è femmina, Dynit Rko, 2016 (home video).
- George Cukor, Nata ieri, Cecchi Gori, 2016 (home video).
- Brian De Palma, Omicidio a luci rosse, Universal Pictures Italia, 2003 (home video).
- Howard Hawks, Susanna, Dynit RKO, 2016 (home video).
- Alfred Hitchcock, La donna che visse due volte, Universal Pictures Italia, 2013 (home video).
- Jonathan Nolan e Lisa Joy, Westworld – Dove tutto è concesso, HBO, 2016 (broadcasting).
- Quentin Tarantino, Kill Bill, Eagle, 2015 (home video).
- François Truffaut, La sposa in nero, Twentieth Century Fox, 2008 (home video).
- Matthew Weiner, Mad Men, Universal, 2015 (home video).