Rod Serling e Mircea Eliade non si sono mai incontrati. Non sarebbe potuto mai accadere per ben più di un motivo: l’anagrafe, la distanza oceanica, il secondo conflitto mondiale, gli interessi e le attività differenti che i due uomini intrapresero nel corso della loro esistenza.
Lo statunitense inventò la serie Ai confini della realtà, lavorava con il medium televisivo, era un cultore dell’arte della fantascienza; il secondo era docente di storia delle religioni all’ Università di Bucarest, studioso di fama mondiale, cultore in particolare delle filosofie indiane. Un incontro impossibile soprattutto sul finire degli anni Trenta.
Eppure, a leggere Il segreto del dottor Honigberger sorge il sospetto che in una dimensione ignota i due si siano incontrati. Anche Philip K. Dick, che dalla sua morte in avanti, dall’uscita di Blade Runner, non ha più bisogno di presentazioni, non ha mai avuto modo di incontrare Eliade, almeno nella realtà ordinaria che quotidianamente esperiamo.
A ciascuno dei tre ogni definizione sta stretta, tranne forse quella di visionari che in qualche modo li accomuna, ma non è questo il motivo per cui possiamo congetturare improbabili incontri tra di loro. Gli indizi di queste strane relazioni, come premesso, si rintracciano tra le pagine de Il segreto del dottor Honigberger, racconto lungo scritto da Eliade nel 1940, ora ritradotto e pubblicato da Bietti nella collana l’Archeometro diretta da Andrea Scarabelli, in una edizione accompagnata da saggi doviziosi (del curatore Horia Cornelius Cicortaş e di Gianfranco de Turris), l’introduzione inedita dello stesso Eliade all’edizione americana e una cura editoriale esemplare, a iniziare dal corpus ragguardevole delle note.
A dire il vero questo non è l’unico lavoro letterario del rumeno, che vanta una produzione ragguardevole e niente affatto episodica, seppur meno nota, “che include tra l’altro varie miscellanee, una decina di romanzi e tre volumi di racconti”, precisa egli stesso nella citata introduzione. Anzi, Eliade aveva grandi ambizioni, addirittura puntava al Nobel per la Letteratura, come riferisce de Turris. Nel complesso, occorre però dirlo, la sua produzione presenta limiti tali che ne giustificano il mancato riconoscimento da parte dell’Accademia svedese.
Non in questo caso, però, perché Il segreto del dottor Honigberger è un racconto dal finale fulminante, al quale si accede non senza aver prima sfiorato la conoscenza di antichi saperi e rammemorato miti remoti. Una conclusione che autorizza a immaginare quegli incontri fantastici ai quali si è accennato, perché, senza entrare nel dettaglio vietando al lettore la scoperta, ci si trova assolutamente di fronte a un classico finale a sorpresa, uno switching ending, avrebbe detto Serling, che ne fece un’arte, il segno speciale degli episodi di Ai confini della realtà. Ribaltamento nel segno degli universi paralleli, delle realtà altre celate dietro sofisticati simulacri, poste in limine alla nostra, agli interstizi spazio-temporali che Dick esplorò sfruttando i canoni del genere fantascientifico.
Eliade vi giunge per un’altra via, a sua volta parallela, da una griglia di partenza sempre di genere, la detective story, che funge da trampolino di lancio per avventurarsi sì nella ricerca di uno scomparso, ma soprattutto in un labirinto di domande concernenti la nostra realtà sensibile, i limiti del nostro corpo e le sue potenzialità tuttora inesplorate (trance yogica, invisibilità, morte apparente e altro).
Si tratta di interrogativi irrisolti, di cui si fanno carico anche Cicortaş e de Turris nei loro saggi, ma che per propria natura rimangono sempre inafferrabili. A questo punto, suggerite le singolari relazioni sottese al testo, non si può non fare cenno alla trama, rinunciando, come si è detto, a ulteriori cenni sul sorprendente finale.
Siamo in pieno centro di Bucarest. È il 1934. Il narratore è un esperto di religioni, in particolare di quelle orientali; in altre parole è lo stesso Eliade, che viene ingaggiato da una anziana signora per completare un’opera rimasta inconclusa di suo marito, tale Zerlendi, che dopo aver interrotto il suo lavoro di biografo e aver intrapreso lo studio del sanscrito è misteriosamente scomparso.
“Papà non è morto. O meglio, non sappiamo se e quando ciò sia accaduto. Il 10 settembre 1910 è scomparso da casa, e da allora nessuno l’ha più incontrato, né sappiamo che fine abbia fatto”.
Lo dichiarerà in seguito sua figlia in un piovoso pomeriggio d’autunno. Quando il narratore si reca per la prima volta nella casa signorile dei Zerlendi, Eliade ci lascia un indizio, una chiave d’accesso al finale. Annota, varcato l’antico cancello di ferro, che “sembrava di essere entrati in un’altra dimensione”.
Zerlendi si era dedicato per lungo tempo alla stesura della biografia del dottor Honigberger, medico autodidatta nonché “avventuriero di gran classe, certo non un imbroglione – una persona competente in molte scienze profane e occulte”, vissuto in Oriente per oltre metà della sua vita. Compito affidato al narratore/Eliade sarà quello di completare la biografia di Honigberger, che Zerlendi aveva appassionatamente avviato e poi interrotto. Senza pensarci più di tanto, lo studioso accetta:
“Fu proprio la passione incondizionata del dottore per le scienze occulte, cui si aggiungeva quella per la filosofia indiana – in particolare per le scuole segrete d’India –, a incuriosirmi”.
Per condurre a termine l’impresa, che in realtà è stata già tentata tre volte in precedenza con il medesimo risultato fallimentare, lo studioso si ritrova a poter disporre dell’immaginifica biblioteca di Zerlendi, che accoglie volumi preziosi, rarità, testi provenienti dai quattro angoli del mondo, in particolare dall’Asia, dall’India in particolare, come si può immaginare e una sezione dedicata al solo Honigberger. Qui siamo di fronte a un altro singolare incrocio di destini, se pensiamo che soltanto un anno dopo, in Argentina, veniva pubblicata La biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges, altra porta d’accesso a mondi infiniti, all’universo “che altri chiamano la Biblioteca”, ricordiamolo (Borges, 2015). Niente di strano, siamo ai confini della realtà, perché meravigliarsi?
Tornando alla storia, il lavoro di documentazione dello studioso sembra procedere quasi routinario dando modo a Eliade di far sfoggio di erudizione senza nulla togliere al ritmo della narrazione, passando in rassegna non pochi simboli e luoghi dell’immaginario. A un certo punto si imbatte in un taccuino scritto in sanscrito nel quale Zerlendi fornisce un dettagliato resoconto di esperienze estreme da lui vissute, rese possibili partendo dalla meditazione yoga. È la svolta che, tra città mitologiche come Shambhala/Agartha e le tappe di un percorso iniziatico, svela e crea misteri al tempo stesso, il narratore/Eliade giunge di fronte a una soglia:
“Quando avevo cominciato a scrivere questo racconto, ero ancora esitante sull’opportunità di trascrivere o meno questa pagina spaventosa”.
Entra in scena fugacemente un personaggio misterioso, un certo J.E., figura minore del racconto, ma altro frutto del tempo spiraliforme regnante in queste pagine. J.E. è un uomo rimasto paralizzato per un errore occorsogli nel corso di un esercizio di meditazione. J. E., medesime iniziali del filosofo romano Julius Evola, già conosciuto da Eliade all’epoca del racconto e poi divenuto paralitico nel 1945, un lustro dopo la stesura del racconto. Curvature spazio-temporali, visioni, stadi di coscienza, saperi esoterici, pratiche occulte, in questo lungo racconto, ricco di rimandi anche in ambiti non direttamente afferenti all’autore, come si è accennato, Eliade orchestra un repertorio di temi funzionali tanto alla narrazione tout court, grazie a un valzer di protagonisti (Honigberger e il suo segreto, Zerlendi custode di un mistero speculare e il narratore/Eliade, che riversa nella storia sapienza e inquietudine, conoscenza e ignoto), quanto al tracciare una possibile via per la rivelazione di una conoscenza altra. Doppio compito perfettamente assolto dal genere fantastico, perché come spiega egli stesso nell’introduzione all’edizione americana: “gli universi immaginari generati dalla littérature fantastique schiudono dimensioni della realtà inaccessibili ad altri approcci intellettuali”.
A lettura terminata le suggestioni faticano a dissiparsi: chissà in quale dimensione questa storia è stata narrata in forma di episodio televisivo della serie ideata da Serling, oppure il narratore/Eliade è trasmigrato nel funzionario Nobosuke Tagomi del dickiano The Man in the High Castle, sbirciando un mondo alternativo in virtù di un’epifania, come in fondo capita ai lettori de Il segreto del dottor Honigberger.
- Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele, in Finzioni, Adelphi, Milano, 2015.