Nel 2019 Matias Guerra, in Moon CCTV, ci aveva mostrato la Terra vista dalla Luna. Un pianeta come scrutato da uno sguardo alieno: paesaggi e passaggi, la corolla di un fiore e una distesa di tombe, animali, gestualità misteriose, onde. Nel video e nella sua concezione sonora (la versione completa è una performance video-musicale) nessun approccio documentaristico, né lirico, né dimostrativo, ma un enigmatico inanellarsi di visioni: fredde, sorprendenti senza essere spettacolari, calde. Interroganti, sospese. Chi avrebbe detto che quel pianeta sorvegliato da un occhio indagatore e apparentemente privo di intenzionalità, se non quella del guardare, sarebbe stato percorso, dopo pochi mesi, dalla pandemia. Moon CCTV, rivisto ora, col senno (o la dissennatezza) di poi, propone un disagevole confronto fra umanità e mondo animale e vegetale, i grandi spazi e le angustie, la bellezza e la minaccia.
Stavolta, in Mat’s 6000 frame workout with JLG (4’26”, 2020), siamo sulla Terra, dentro le nostre case. Chiusi, bloccati, autoconfinati. All’inizio del blocco Matias Guerra aveva inaugurato in rete “20+20 Diario di Jan Grenz. Ventisette giorni più due sogni, in pezzi di circa tre minuti; fotografie, testi, musiche, una canzone, qualche spezzone di film e cinegiornali (fra cui quello del disastro dello Zeppelin Hindenburg nel 1937). Brevi testi diaristici: passa il furgone che disinfetta, è successo un incidente qui accanto. Inserti da un altrove, segnali da altri luoghi. Tutto del resto sembra lontano, eppure vicino nel tempo stralunato e ferito, nello spazio di muri e finestre. Talvolta in dialogo visivo fra Milano e Roma, con l’amico e filmmaker Giovanni Andrea Semerano che, con la mascherina sul volto, manda immagini di un mondo cupo, sommerso e minaccioso (“torneremo in quale superficie?”), che serbano l’eco lontana de La Jetée (1962) di Chris Marker.
Le musiche sono dello stesso Guerra, di Marco Colonna, di Paolo Gaiba Riva, ma musica è anche il ritmo regolare della ventola alla finestra della cucina, la fiamma del fornello, lo scoppiettare del caffè, il fischio della valvola del bollitore, il rumore dei passi nel tragitto rapido per andare a fare la spesa. La colonna sonora delle continue sirene delle ambulanze.
Il bianco e nero si apre a volte su un azzurro beffardo del cielo, la macchina da presa sorveglia l’espandersi progressivo dei bocci di una magnolia giapponese che alla fine esplode di rosa, ma ci sono anche il parco, i cantieri deserti, l’asfalto del percorso verso il supermercato, il pane e burro della colazione, fantasmi di rami neri e spogli che si riflettono nelle pozzanghere, un rapace urbanizzato che sventra un piccione, le mute architetture della strada, le finestre di fronte, un gatto su un balcone.
Asciutto, rarefatto e preciso, accurato nella scelta e nella costruzione, lucido, “20+20” Diario di Jan Grenz, uscito giorno dopo giorno, è uno dei contributi più interessanti e “pensanti” fra i moltissimi prodotti in questi mesi.
Dopo il diario, un video, sempre dalla clausura. Mat’s 6000 frame workout with JLG. Aprile 2020. Ancora la ripetizione, sonora e visiva, il loop del confinamento, le forme particolari assunte da spazio e tempo, e l’oscillare sulla soglia insidiosa fra un dentro e un fuori. Qui tempo e spazio si condensano e si articolano in un solo luogo, un angolo su cui si aprono la luce orizzontale di uno schermo e quella verticale di una finestra. Seimila frame, 4’26”. All’inizio la stanza è vuota, abitata solo dalle immagini dello schermo e dalla finestra velata da una tenda sottile, bianca. Poi appare la silhouette di un uomo in cammino, di spalle. Cammina, ma sta fermo. Si muove sul posto, spostando ritmicamente i piedi su un piccolo “stepper”: a tratti ne vediamo il dettaglio. Con regolarità e determinazione l’uomo senza volto si muove senza spostarsi. Si muovono le immagini nello schermo, la prima mostra la silhouette di un soldato che spara. Ne passano altre, di guerra, di pace, di cinema, e a tratti si sente la voce di Jean-Luc Godard. Cavalcate mare paesaggi violenze e un agitarsi di avvenimenti e di velocità di film, frammenti di musica. Il video è stato realizzato pensando alla rivista di critica-non critica cinematografica The Shootist (cfr. Semerano, 2020) promossa ed edita da La Camera Verde di Roma: il numero a venire sarà dedicato a Godard, con omaggi e pensieri in forma non tradizionale, in dialogo con la sua opera.
Nella clausura si sono contati i giorni: qui, in alto a destra, un contatore visualizza il numero dei frame nello spazio chiuso in cui il tempo pare annullarsi. L’uomo che cammina a volte si ferma. Riprende il suo andare. La silhouette è incorniciata dalla finestra, che a volte è invece inquadrata da sola. La sottile garza della tenda ondeggia: esiste il venticello, là fuori. E c’è anche un merlo, ignaro o forse no di tutto questo silenzio all’improvviso attraversato da un’auto, dalle sirene di ambulanze. Le lievi deformazioni del vetro lo fanno ondeggiare. Schermi. Schermi che schermano, che rivelano. Passi che si conficcano sui pedali in attesa di andare. Temporalità diverse che si dispongono in modo non lineare, in apparizioni e scomparse, in soglie. Il film è l’ultimo di Godard, lo stupendo Le livre d’image (2018). Le sue lacerazioni, i pensieri, i sussulti che segnano le immagini e ce le sottraggono sono, a vederli in tempo di pandemia, di bellezza e tragedia ancora più inquietanti. L’uomo conta i frame e cammina nella stanza, ritmo e movimento condivisi con JLG. “Esercizi di moto e di ritmo”, li definisce Guerra, evocando anche il ritmo cardiaco, e un tempo che “sta dentro le cose che stiamo vedendo” (da una conversazione con l’autrice di questo testo, ndr). Ed è evidente che anche il film sullo schermo procede come esercizio di moto e di ritmo intessuto con i moti e con i ritmi di tutti gli spezzoni che vi si inanellano.
L’uomo si allena. Si allena come molti hanno fatto, ma qui questo ossessivo camminare per non andare da nessuna parte, combinato con la “finestra” del film, con la serena indifferenza del merlo là fuori, sembra assumere un senso diverso: alleniamoci, forse, per un “dopo” che non sarà più lo stesso; alleniamoci contro un dopo che già ora minaccia. Alleniamoci anche per la dolcezza del venticello, per la serena giornata del merlo, per la carezza della stoffa che ondeggia. Alleniamoci allo scatto, al balzo, alla resistenza attiva. Alla guerra e alla pace che trascorrono nel film, alle nuove forme di guerra e di pace che stanno acquattate là fuori. Dalla luna alla terra e dal diario al video; e verso un film, The shortest night, che Guerra e Semerano stanno ora realizzando a partire da questi mesi di “altri tempi”.
Il testo, di Guerra, descrive visioni di un passato-futuro non troppo fantascientifico, di cristallina cupezza. E, sempre, il tempo:
“Ci avevano isolati, rinchiusi, avevano tolto il corpo dalla vita, il reale era adesso nei server, era in streaming, era una infinita rizomica rete di visioni, di input e stimoli, una rete di server al servizio dell’Asse e fuori dal tempo, perché non c’è tempo senza spazio e di fatto la fisica ce lo insegna, il tempo da solo è letteratura, arte” (Guerra, 2020a).
- Matias Guerra, The shortest night, estratto dal testo (inedito) del film, 2020a.
- Giovanni Andrea Semerano, The Shootist, 2020.
- Jean-Luc Godard, Le livre d’image, Wild Bunch, Casa Azul Films, Ecran Noir Productions, 2018.
- Matias Guerra, Diario di Jan Grenz, 2020b.
- Chris Marker, La Jetée, Sony Pictures, 2019 (home video).