Esistono, forse, due concetti idonei a ergersi quali categorie fondanti, quantomeno per ciò che attiene agli stimoli di partenza, oltre che funzionali alla lettura, dell’ultima creatura di Marino Magliani, Peninsulario, raccolta di cinque racconti recentemente pubblicata dall’editore Italo Svevo. Uno è una logica conseguenza del titolo che impone all’attenzione del lettore una stretta correlazione tra i racconti in cui il testo si sostanzia e la definizione geografica di penisola che, rievocata nell’antica denominazione (peninsula), traccia un primo assetto di coordinate esplicitate dall’autore medesimo in una sorta di premessa al viaggio:
“A ogni racconto di questa raccolta corrisponde una valle più o meno sperduta del Ponente ligure, e due dei racconti sono ambientati nella stessa valle, ma a quote diverse. Forse non si dovrebbe parlare di vere e proprie vallate, ma piuttosto di penisole, di un pugno di estremità della regione costiera, i cui microcosmi, qua e là, esondano dai margini della finzione”.
Dunque appare evidente che, per quanto Magliani scelga di ricorrere a una categoria in uso nel contesto della geografia fisica per definire sporgenze di continenti, qui l’impiego oltrepassa la verità offerta dal dato morfologico della regione ligure in relazione a spazi più ampi, come può essere un continente o, più semplicemente, una nazione, per dare ingresso a un’altra storia che esonda dagli argini del piano letterario per essere vera, in un dialogo costante tra realtà e finzione: sono le propaggini, gli universi ai margini che lo interessano, più umani che geografici, sebbene sia indiscutibile l’imprescindibile relazione tra essi e l’ambiente intorno, non meno protagonista dell’uomo. Esplicito, in merito, un passaggio di La quota della frontiera:
“Le vallate, una dopo l’altra, non sembravano neanche collegate tra loro, ma emergevano dal mare come coltellate, e tutto quel vuoto di luce e ombre passava sulla città, sotto i ponti dell’autostrada, nella terra incolta, e poi su, tra le rupi. Gli occhi ne dettavano il ritmo, infilavano gli spazi, spartendo scogliere, palmeti, uliveti secchi e bruciati, ville quadrate, in genere bianche. E ogni oggetto minerale e vegetale aveva l’obbligo di mostrarsi agli occhi e al mare, ma poi erano solo gli occhi a fare tutto, ad assalire per un istante la valle, scuoiando i tessuti di quel mondo statico, calmo, così simile al paesaggio della valle dopo, e nella sua calma così lontano dall’idea di frontiera che si avvicinava tremendamente, segnalata dai cartelli”.
Ma, dicevamo, sono due le categorie di accesso al testo. E, se una è quella esplicitata dall’autore, l’altra, già anticipata dal passaggio appena riportato, la dice bene Filippo Tuena che ne cura la prefazione:
“Non so per quale convinzione ho sempre pensato che gli scrittori liguri fossero scrittori di frontiera, anche se un’effettiva frontiera la Liguria la disegna appena nella sua estremità occidentale. Quel che la separa dalle altre terre d’Italia è una striscia compatta e ostile di Appennino, che spinge i paesi verso il mare e che frastaglia le coste in maniera disomogenea. Probabilmente è questa la vera frontiera dei liguri: il mare che li costringe a rimanere addossati a quei monti bassi ma minacciosi”.
Qui è, dunque, il concetto di frontiera che parrebbe venire in soccorso al lettore che voglia farsi un’idea della natura del viaggio che le pagine a venire potranno, in qualche modo, garantirgli. Alla connotazione fisica di cui sopra, concepita in una forma prevalentemente simbolica o evocativa, si aggiunge l’universo politico dei confini, anch’esso, però, piegato all’esigenza di raccontare un umanesimo rurale e solitario spiazzato dall’ostilità della propria terra che, morfologicamente, non dà pace, imponendo una ricerca, talvolta una fuga, in funzione dell’inevitabile ritorno. In fondo, ce lo dice anche Tuena, che gli scrittori liguri sono sì scrittori di frontiera, ma anche “scrittori che prendono il mare e vanno altrove, mantenendo una malinconia familiare con la terra d’origine qualunque sia la nuova stanzialità”.
È a ben guardare il sentimento predominante in questa raccolta di racconti, anche se non il solo, perché l’autore gioca bene le sue carte inserendo nel percorso offerto dalle tappe dei singoli racconti spunti e sguardi di altre terre che, nel raffronto con la dimensione locale, della sua Liguria, restituiscono l’unicità di un mondo e delle sue regole o l’opportunità di un attraversamento di spazi dell’anima che travalicano i confini geografici.
È uno stare in bilico, questa narrazione, tra la rassicurazione di ciò che sappiamo e che, con ironia, Magliani smaschera palesandone l’ottusa convinzione che sia così e il destino che attende il viandante, una volta varcato il confine, rivelandogli la paura, l’angoscia, l’incertezza conclamata di un esistere vago, come è quello di chiunque voglia sperimentarsi fuori dalla illusoria stabilità dei ruoli domestici e incedere, col proprio passo, nel caos delle geometrie irregolari. La figura finale, esito neanche, forse, tanto inaspettato del congiungimento dei punti, riporterà a casa, laddove tutto è iniziato. Ma che sia un sistema, un susseguirsi di penisole o più isolatamente terra di frontiera, di cosa si popola esattamente la Liguria di Marino Magliani, quantomeno nello scorcio offerto da Peninsulario? Che cosa la rende unica o, più ampiamente, che cosa consente all’autore di tracciare, partendo da lì, coordinate umane che, pur ancorate alla territorialità, accedono a un immaginario di così ampio respiro da offrire a chiunque il riparo letterario alla propria inquietudine di solitario vagabondo?
Certamente, una prima risposta potrebbe risiedere nella sua capacità di conferire dignità letteraria non tanto a delle tipologie umane rintracciabili in contesti periferici o rurali, particolarmente cari all’autore che alle luci trionfanti di una parte di Liguria d’alto borgo preferisce da sempre le vie meno illuminate, la penombra di certi quartieri popolari, quanto a delle singolarità incontrate lungo la via, anime erranti con ogni sorta di giustificazione al seguito, persino al male, mai scisso dal resto. Ora il recupero di queste ha spesso una duplice valenza nel gioco condotto dallo scrittore: non solo illustrare l’esistenza e – non neghiamolo – un certo fascino di un porto franco in quegli interstizi in cui la norma è piegata al bisogno e il lecito è il substrato di inquietudini che congiungono la legge al malaffare, ma anche rendere testimonianza del tempo che scorre sulla propria e l’altrui vita e di come lo faccia diversamente su chi rimane e su chi va via.
Emblematico al riguardo il passaggio del primo racconto della raccolta, Manico, dove l’incontro con uno storico personaggio da balera, un residente della notte, un mandrillo dalla tecnica comprovata, un figuo, come si dice in Liguria, il cui soprannome dà significativamente il titolo alla storia, diventa la fonte del risucchio verso il passato. Un’occasione per raccontare altri ritmi, un’altra epoca, sua, nostra, di questa nostra società, in cui tutto era molto più semplice, persino il sabato sera, persino il lavoro che era quello dei campi che, pur faticosamente svolto, lasciava lo spazio a un’altra vita possibile e a un carico non indifferente di sogni:
“Forse aveva semplicemente riconosciuto in me il ragazzo secco dell’altro secolo, i capelli sparpagliati che mostravano già l’annuncio di una fronte inutilmente vasta, il residente della notte di allora, senza lode né infamia, che si accontentava di attraversare il tempo e lasciare ogni sera sé stesso sul campo di battaglia?”.
Due scelte di vita differenti a confronto e l’idea che non si possa scindere tra giusto e sbagliato, che non esista un bene assoluto e che, comunque la si ponga la questione, resta il tempo che passa sulle nostre esistenze e che, se non restituisce la limitata spregiudicatezza giovanile dell’uno, funge da proiettore pubblico della ripetitività eterna di un agire dell’altro che attecchisce sul nulla steso dal trascorrere degli anni. Magro bottino esistenziale in entrambi i casi.
A ben guardare, sono spesso confronti a due le modalità strutturali, per ciò che attiene al piano soggettivo della narrazione, con cui l’autore sceglie di declinare l’umanità ligure delle vallate: non solo sé stesso a raffronto con la sua generazione o con quello che ne rimane nei luoghi di origine, ma anche sé stesso con le proprie ambizioni o, al di fuori da sé, tra individui posti di fronte alle loro ambiguità per vedere le quali occorre disfarsi di ogni pregiudizio. Ché qui la mente deve essere libera di inerpicarsi per i sentieri tortuosi dell’impuro procedere delle anime di notte, dove lo scuro intorno copre il torbido delle frustrazioni, dei sogni mancati, delle illusioni tradite, degli amori fallati. E lo sbirro e lo spacciatore possono anche darsi la mano in una storia al confine, laddove il confine non è solamente la separazione dal territorio straniero, ma la distinzione labile, perché scossa dalla fragilità di un bisogno, tra lecito e ciò che non lo è e il paradosso dell’agente Zanellu, di dovere rigenerare un movimento nel malaffare per tornare a essere, una storia non lontana dal gioco di ruoli, qui di guardie e ladri, con cui copriamo vuoti e mancanze. Perché se esiste un punto in comune, al di fuori di quelli già tracciati, nella raccolta è esattamente questo: un’eternità del procedere in un’identica maniera, quasi non ci fosse spazio per il gesto che pone fine alla ripetitività celebrata dal ritmo dei campi, dalle esigenze stagionali della natura.
Marino Magliani.
Ci si rassicura in una quotidianità stantia, unico conforto all’ostilità irrequieta e turbolenta del paesaggio ligure che, pur aprendosi alla bellezza negli spazi di incontro tra opposti, nell’armonia tra terra e mare che, in sospensioni dalle ostilità, sparge meraviglia, rammenta al viandante lo sgomento del buio alle spalle. È, dunque, una questione di attraversamento, di abitudini e ritmi, come ne Il muro di Jantje, di sogni ostinati che si rincorrono, come ne L’uomo veloce, o ancora delle proprie angosce o dell’ambiguità altrui per scansare le quali non si vedono neanche le proprie, ci si chiude a sé e si assiste, erroneamente o umanamente impotenti, alla frantumazione progressiva della costruzione di illusoria felicità di una vita, come ne Il cuculo. È una questione di passaggio, dunque, come lo è, forse in ogni terra, forse di più in quelle di frontiera.
Lo dice anche Francesco Biamonti nel suo Attesa sul mare: “C’è in ogni terra […] il seme della morte, si vede bene in piena luce… ci sono colpi di sole su terre appese” (Biamonti, 2008). È la luce soffusa con cui Magliani indaga l’anima inquieta della sua terra, delle sue propaggini, di quelle penisole preservate dall’incedere del tempo e custodi, con la complicità delle solitudini che le popolano, di un segreto antico che nessuno sa, ma che scorre lungo la linea precaria che separa la vita dalla morte.
- Francesco Biamonti, Attesa sul mare, Einaudi, Torino, 2008.