L’incantesimo ritrovato:
i 75 fogli di Marcel Proust


Marcel Proust

Parigi, 10 luglio 1871
Parigi, 18 novembre 1922


Marcel Proust

Parigi, 10 luglio 1871
Parigi, 18 novembre 1922


Il giovane Marcel non ha che diciassette anni quando scrive al suo professore di filosofia, Alphonse Darlu, appena due giorni dopo l’inizio delle lezioni al Liceo Condorcet, una lettera illuminante:

“Signore, stamane ci parlavate dei giovani che troppo presto acquisiscono cattive abitudini mentali, per dirla in breve si sdoppiano, e non riescono a fare o pensare nulla senza che la loro coscienza studi e analizzi questi atti e questi pensieri […]. Parlavate così bene di questa malattia che, non fosse stato per la presenza dei miei compagni, quasi non avrei potuto impedirmi di chiedervi quale potrebbe essere il rimedio”
(Proust, 1996).

Per Marcel di malattia, infatti, si tratta. Il raccogliersi in sé e studiare la sua vita interiore non è stato all’inizio una sofferenza, racconta, ma già verso i sedici anni “la cosa è diventata insopportabile, soprattutto fisicamente”. I sintomi sono quelli di “un’estrema stanchezza, una sorta d’ossessione”. Ora riconosce di stare meglio, ma solo in apparenza. La sua sofferenza “si è intellettualizzata”, perché questo continuo analizzare le sue reazioni alle cose gli rende impossibile “trarre un completo diletto da ciò che prima era la mia suprema gioia, le opere letterarie”:

“Quando per esempio leggo una poesia di Leconte de Lisle, mentre assaporo le infinite voluttà di un tempo, l’altro io mi osserva, si diverte a esaminare le cause del mio piacere, le scorge in un certo rapporto fra me e l’opera, e in quel modo distrugge la certezza della bellezza propria dell’opera stessa (…). Ma allora, per guarire, non potrò che annullare la mia vita interiore, o meglio quello sguardo sempre attento alla mia vita interiore, e ciò mi sembra spaventoso”
(ibidem).

Inizia qui la storia redazionale di Alla ricerca del tempo perduto. Perché, se è vero che la Recherche è un percorso di ricerca che porta il suo protagonista, alla fine di sette lunghi volumi, a compiere la scoperta che restituirà di senso la sua vita e gli consentirà di adempiere alla grande vocazione letteraria alla quale si è sempre sentito chiamato ma senza mai avvertire di averne le forze e la capacità, è vero anche che questa ricerca Proust la compì egli stesso per tutta la vita. Da questa lettera capiamo che si trattava della ricerca di una cura a quella che giudicava una malattia. Di malattie, vere o presunte, Marcel Proust fu ossessionato per tutta la vita, e nel romanzo scrisse profeticamente che alla fine la morte degli ipocondriaci dimostra immancabilmente che essi avevano ragione. Ma la malattia della sua vita interiore, quella era un’altra cosa: le altre potevano essere bene o male curate dai medici (ma si sa quanto scarsa fosse la sua opinione dei medici, benché lo fossero tanto suo padre quanto il suo amato fratello Robert, che vanamente tentò di curarlo per sottrarlo a un’evitabile morte prematura); di quell’altra, né il suo professore di filosofia né tutte le altre persone con cui ebbe modo di confidarsi seppero dirgli come guarirne. Eppure, la soluzione era contenuta già in queste righe, anche se per molto tempo – esattamente come il protagonista della Recherche – Proust non seppe coglierla. Quel “certo rapporto fra me e l’opera” che egli riteneva essere un ostacolo al godimento dell’opera in sé, cercò di superarlo per buona parte della sua vita, finché si rese conto che era esattamente quello che cercava, come rivelò nel Tempo ritrovato: “Ciò che chiamiamo realtà è un certo rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente”, e scopo della letteratura è ricreare tale rapporto, giacché “la verità comincerà solo nel momento in cui lo scrittore prenderà due oggetti diversi, ne porrà il rapporto […] e li fisserà con gli indispensabili anelli d’un bello stile” (Proust, 2013).

I 75 fogli sono conservati alla Bibliothèque nationale de France.

Un’opera di un altro mondo
A lungo anche noi lettori di Proust non siamo riusciti a capire quale fosse la cura del nostro male. Questo romanzo fluviale, che si presta a mille letture, lo abbiamo disossato, sezionato, sviscerato nei più minimi particolari per cercare di comprenderne la potenza e il fascino che attraversa le generazioni, senza riuscire tuttavia ad afferrarne l’essenza. Forse è lo snobismo, come quello del suo protagonista, a spingerci a preferirlo ad altri grandi capolavori della letteratura: dopo tutto non è forse un gesto snobistico quello di poter dire di aver letto, e ancor più magari persino riletto, la Recherche? Se non è la lunghezza il vero ostacolo – di opere più lunghe oggi ce ne sono diverse, basti pensare alle vaste saghe fantasy – lo è di certo il fraseggio debordante dell’autore, che pur non essendo né pretenzioso, né criptico, né ostile (come potrebbero essere Gabriele D’Annunzio, Franz Kafka o Thomas Pynchon), lascia comunque senza fiato, quasi come se Proust volesse suscitare nel lettore le crisi d’asma di cui soffriva; se non il numero dei personaggi – per la verità molto pochi per la mole dell’opera, rispetto a vette come quelle di David Foster Wallace – certamente per la sostanza di una storia che in certe parti è in grado di andare avanti per centinaia di pagine raccontando di ricevimenti in salotti della decaduta ma sempre brillante aristocrazia parigina nella Terza repubblica, nulla di più lontano dalla nostra sensibilità contemporanea.
Saremmo tentati di dire che non sono quelle le pagine davvero rappresentative della Recherche, ma quelle luminose delle spiagge abbaglianti e dei tramonti incantevoli di Cabourg che hanno assicurato a All’ombra delle fanciulle in fiore il premio Goncourt, o quelle intimistiche che aprono l’intera opera, dove si affollano i momenti più noti – il bacio della buonanotte, l’episodio della madeleine – o ancora quelle che compongono il “romanzo nel romanzo” Un amore di Swann. Ma la verità è un’altra, e consiste nel fatto che proprio il non sentire la distanza del tempo che intercorre tra quest’opera e i giorni nostri rappresenta il grande incantesimo di Marcel Proust, l’autentica dimostrazione che la rivelazione del suo protagonista era reale ed è davvero in grado di annullare il Tempo e farci vivere il passato come se fosse oggi, perché la vera grandezza della letteratura non sta affatto nell’opera in sé (“l’arte per l’arte”), ma in quel “certo rapporto” fra noi e l’opera che riesce a evocare in noi la certezza che esista un altro mondo oltre quello delle sensazioni immediate. Quel mondo che Proust intuì esistere quando si accinse a scrivere la Recherche, confessando in una lettera all’amico Georges De Lauris che “la vera vita è altrove, non nella vita stessa né nel dopo, ma nel fuori, se un termine che ha origine spaziali ha senso in un mondo libero dallo spazio” (Proust 1996), e che descrisse più precisamente nel formidabile passo della morte di Bergotte ne La prigioniera:

“[…] un altro mondo, fondato sulla bontà, sullo scrupolo, sul sacrificio, un mondo completamente diverso da questo, e da cui usciamo per nascere a questa terra, prima forse di ritornarvi, a rivivere sotto l’imperio di quelle leggi ignote a cui abbiamo obbedito perché ne portavamo l’insegnamento in noi, senza sapere chi ve le avesse tracciate, quelle leggi cui ci avvicina ogni lavoro profondo nell’intelligenza e che sono invisibili soltanto – seppure! – per gli sciocchi”
(Proust, 2013).

Bertrand de Fallois, il grande critico e scopritore d’inediti proustiani (su cui torneremo a breve), ci ricorda che questo famoso passo non tradisce convinzioni di tipo religioso, benché a vario titolo nell’opera ricorrano passaggi in cui Proust sembrerebbe credere perlomeno in qualche forma di metempsicosi. Ma certamente – precisa Fallois – se ne può dedurre che Proust fosse “spiritualista” (Fallois, 2022). È un aggettivo molto calzante, perché uno dei grandi fraintendimenti di chi vi si accosta per la prima volta è credere che Proust fosse un autore realista. Questa convinzione viene meno molto rapidamente una volta che ci si inoltra nella narrazione, ma di tanto in tanto può tornare a galla di fronte a descrizioni molto dettagliate o all’attenzione così ravvicinata ai modi di vivere dell’aristocrazia della Terza repubblica. Soprattutto, è lo stesso Proust a trarci in inganno, perché il desiderio del narratore di diventare uno scrittore realista pervade l’intero romanzo ed è poi destinato a essere definitivamente frustrato quando il narratore si rende conto – esattamente come già il Proust diciassettenne – di non essere in grado di descrivere alcunché. È la constatazione che precede la rivelazione del Tempo ritrovato, di fronte all’indifferenza nell’osservare un filare di alberi ai lati dei binari mentre il treno lo riporta a Parigi, e di cui non riesce ad afferrare che la loro vera importanza sta nel ricordargli quelli incontrati durante le sue passeggiate lungo la strada di Meséglise, a Combray, quand’era bambino:

“Se avessi avuto veramente un’anima d’artista, che piacere avrei provato davanti a quella cortina d’alberi illuminata dal sole al tramonto, davanti a quei fiori che dalla scarpata arrivavano fin quasi al predellino del vagone e di cui avrei potuto contare i petali, ma il cui colore mi sarei ben guardato dal descrivere, come avrebbero fatto tanti bravi letterati, perché non si può certo sperare di trasmettere al lettore un piacere che non si è provato…”
(Proust, 2013).

Qui si è realizzato quello scenario che Proust paventava al suo professore di filosofia: il narratore non è più in grado di provare piacere di fronte all’esperienza estetica in sé, perché per quanto ci abbia provato non è riuscito a sopprimere la sua vita interiore – a questo sono serviti i lunghi soggiorni nelle case di cura a cui fa riferimento. Senza ora rivelare tutto quello che accade dopo (sarebbe bello trattare la Recherche come un’opera che non si deve “spoilerare”, tanto importanti sono i colpi di scena al suo interno), basterà dire che l’essenza della rivelazione proustiana è il tornare all’immaginazione del bambino, quella in cui l’intera realtà è esperita attraverso un filtro che rende la scoperta del mondo meravigliosa, in grado di trasmutare ogni cosa in un’esperienza onirica, quasi come se la vita venisse (per usare una bella frase di J.R.R. Tolkien) “respirata attraverso l’argento”. La memoria involontaria che nel narratore ormai invecchiato si riattiva fino a far esondare le cateratte del ricordo consente di annullare la distanza nel tempo che separa il narratore dal suo sé bambino. Torniamo così alle sensazioni delle prime due parti del romanzo, quelle dell’infanzia di Dalla parte di Swann e dell’adolescenza di All’ombra delle fanciulle in fiore.

Fogli perduti e ritrovati
Si è detto che Proust sia un romanziere surrealista, ma è una forzatura. Sicuramente idealista. Verrebbe piuttosto da dire che Proust sia uno scrittore fantastico, poiché la Recherche è un’opera in cui la forza della fantasia ha infine la meglio sull’arido realismo della vita, in cui cioè la “vita vera”, quella dell’altro mondo di cui ci parla Proust, ha la meglio sulla vita apparente, quella meramente cronachistica, narrata attraverso una macchina da presa. Questa constatazione erompe leggendo il primo brogliaccio da cui è emersa la Recherche, ossia i mitici 75 fogli di cui si erano perse le tracce e che sono ricomparsi nel 2018 nell’archivio di Bernard de Fallois, che per primo li aveva visti e ne aveva dato comunicazione. Mistero ancora tutto da svelare, questo del ritrovamento: Fallois aveva semplicemente dimenticato di possederli nella stessa cartellina originale in cui li aveva trovati, o li aveva invece custoditi gelosamente per poter continuamente ritornare su quello straordinario documento che per i proustiani assume lo stesso valore della mitica “fonte Q” per uno storico del cristianesimo? Fallois, che aveva scoperto per primo tanto il Contre Saint-Beuve che rappresenta la prima genesi dell’opus magnum, tanto il Jean Santeuil, primo romanzo a cui Proust lavorò tra la pubblicazione de I piaceri e i giorni (1896) e il 1900, quando ne interruppe la stesura, si è trovato certamente in una posizione privilegiata, quella in cui ogni critico letterario vorrebbe trovarsi. La riscoperta dei 75 fogli alla sua morte, peraltro alla vigilia dei cento anni dalla morte di Proust, ha rappresentato forse il suo ultimo grande regalo. Certo è che questi 75 fogli, ora pubblicati anche in italiano, sono un’epifania, perché se si supera l’effetto déjà-vu (non potrebbe essere altrimenti, trattandosi dei primi abbozzi dell’opera finale), si comprende che la scelta di partire proprio da questi episodi e non altri fa sì che siano proprio questi gli episodi-chiave della Recherche e ciò consente di illuminarne ancora di più la complessa architettura, facendo uscire allo scoperto il progetto più intimo, la vera essenza che le migliaia di pagine successive hanno inevitabilmente finito per rendere ben più complesso da svelare.
“Una serata in campagna”, che mette in scena il primo episodio di Combray, con cui si apre Dalla parte di Swann; “La parte di Villebon e la parte di Meséglise”, primo abbozzo di quel tema fondamentale delle passeggiate che portano a mondi opposti, quello fatato dei Guérmantes e quello ricco di rivelazioni che conduce alla casa di Swann; “Soggiorno al mare” e “Fanciulle”, primo abbozzo di Nomi di paesi: il paese, seconda parte di All’ombra delle fanciulle in fiore; “Nomi nobili”, che anticipa l’argomento di Nomi di paesi: il nome con cui si chiude il primo volume; “Venezia”, l’episodio fondamentale di Albertine scomparsa.

In mezzo, lo sappiamo, si innesterà dapprima l’immenso caleidoscopio dell’aristocrazia parigina e di Sodoma (la scoperta del mondo omosessuale), e poi la folgorante vicenda di Albertine. Ma quella verrà solo dopo la drammatica conclusione del rapporto tra Proust e il suo autista Alfred Agostinelli, affondato a largo d’Antibes nel 1914 con l’aereo che gli aveva regalato il suo ex padrone; qui siamo nel 1908 (a tanto risalgono i 75 fogli) e quindi molto più vicini all’origine, all’ideazione originaria che rappresenta il vero Graal della letteratura.
Leggiamo insieme alcuni passaggi dei 75 fogli per mettere in luce questo aspetto “fantastico” della poetica proustiana. Il narratore viene a sapere – questo accade, nella Recherche, molto avanti nell’opera – che i due sentieri che prendeva con i genitori da bambino e che, dipartendosi dalla casa della zia, conducevano a mete opposte e apparentemente inconciliabili (la parte di Villebon e la parte di Meséglise, che poi diventeranno la parte di Meséglise che conduce verso la casa di Swann e quella di Guermantes, che conduce al mai raggiunto castello dei principi di Guermantes), possono invece essere collegati in pochi minuti da un giro in macchina. All’epoca in cui il narratore è bambino, le automobili non esistono; ora possono facilmente collegare punti che un tempo erano considerati distantissimi tra loro.

“Per me è come se mi dicessero che dopo aver preso un primo sentiero e poi un secondo sentiero si arriva nel paese dei sogni. Allo stesso modo nell’Antichità il pozzo da cui si scendeva nel regno della vita eterna aveva una situazione geografica precisa ed era situato in mezzo a luoghi reali”
(Proust, 2022).

I biancospini che ornano la strada di Villebon saranno tra gli elementi più evocativi per il narratore:

“Ancora oggi quando penso che ci sono dei sentieri in cui c’è del biancospino rosa questi mi sembrano fatti di una sostanza speciale simile al sogno, mi sembrano che se il mio triste stato di salute non mi impedisse di andarci a passeggiare, tornerei indietro ai miei undici anni e tante cose che mi appaiono del colore insignificante dell’esperienza ridiventerebbero ai miei occhi belle, misteriose, simili a quella realtà divina che toccavamo con mano allora, che non abbiamo più trovato nella nostra vita e che cerchiamo dunque così faticosamente più avanti, quando siamo artisti, di scoprire e di chiarire nella nostra mente”
(ibidem).

Questo incantamento non si limita all’infanzia, perché lo ritroviamo anche più avanti, nel racconto di Venezia, quando il narratore è ormai nella sua giovinezza. Qui l’apparente confronto/scontro tra realtà e immaginazione è risolto dalla capacità di incantamento della memoria involontaria, che ancora non si chiama così ma che già vediamo in azione:

“Naturalmente tutte queste parole: «la gloriosa architettura privata di Venezia», «il glorioso palazzo Foscari», avevano un fascino che non ritrovate qui, quando il gondoliere vi dice indicandovelo: «Palazzo Foscari». Ma un giorno «Foscari», detto dal gondoliere, mentre lo costeggiate in gondola prima di andare a fare visita a qualcuno al Grand Hotel, non sarà meno poetico dell’altro Foscari, quello di prima, che eravate deluso di non ritrovare, «il capolavoro di quella gloriosa scuola di architettura privata di Venezia»; poiché ci sono momenti della nostra vita che la percezione sensibile, la tirannia del presente, l’intervento dell’intelligenza, il reticolo delle cose da fare, il susseguirsi di desideri egoisti, ci impediscono di vivere, ma che ridiventano gloriosi quando giunge finalmente il giorno della resurrezione”
(ibidem).

Dunque, il mondo reale è quella cosa che si frappone fra noi e la verità delle cose. Accade nel corso della maturazione delle persone, che finiscono inesorabilmente avvinte dalla tela che la società costruisce per loro e che esse stesse contribuiscono ad accrescere, finché la tela non giunge a obliare ogni cosa, diventa un velo che impedisce di vedere la “vita vera”. L’episodio di Venezia pone il tema della funzione “magica” dei nomi che è fondamentale nella Recherche (si ricordi la costruzione delle due parti Nomi di paesi: il nome e Nomi di paesi: il paese nei primi due volumi) e che di nuovo i 75 fogli rendono esplicito, nel capitolo “Nomi nobili”. La sua lettura ci ricorda quel fatto evidente che tuttavia la vastità della Recherche porta a dimenticare, ossia che il presunto snobismo di Proust non è affatto un tentativo di operare una scalata sociale per sottrarsi alla propria condizione borghese (come accade per i Verdurin), ma nasce dal fondamentale bisogno di conoscere quel mondo fantastico che il narratore ha iniziato a scoprire nell’infanzia attraverso le sue passeggiate e l’analisi delle vetrate istoriate della chiesa di Combray:

“Ancora oggi, una delle grandi attrattive delle famiglie nobili sta nel fatto che sembrano situate in un lembo di terra particolare, e che il loro nome, che è sempre un toponimo, o il nome del loro castello (e a volte è peraltro lo stesso) dà allo stesso tempo all’immaginazione l’impressione della stanzialità e il desiderio di viaggiare. (…) Lo stesso vale per i titoli nobiliari stranieri. Il nome di certi signori mediatizzati tedeschi è attraversato come da un soffio di poesia fantastica misto a un odore di chiuso, e la ripetizione borghese delle prime sillabe fa pensare a delle caramelle colorate mangiate in una piccola drogheria di un’antica piazza tedesca, mentre nella sonorità cangiante dell’ultima sillaba si nasconde, tenebrosa, l’antica vetrata di Aldegrever nell’antica chiesa gotica di fronte. E un certo altro è il nome di un ruscello nato nella Foresta Nera ai piedi dell’antico Wartburg e attraversa tutte le vallate infestate dagli gnomi […]”
(ibidem).

Questo mondo incantato che popola l’immaginazione del narratore e chiaramente anche del Proust bambino (ricordiamolo, la Recherche non è autobiografia, ma la materia di base lo è) va incontro a un graduale, inesorabile disincanto con il passare del Tempo. Mentre il solo nome di Venezia è in grado di produrre nel narratore della Recherche una crisi febbrile che gli impedisce di visitarla, così come la sola idea di assistere a uno spettacolo della Berma, la più grande attrice di teatro che calca in quel periodo i palcoscenici di Parigi, in seguito il confronto con la realtà dà luogo a delusioni. Così accade anche con la scoperta del mondo della nobiltà. Dopo essersi appostato per settimane a spiare la duchessa di Guermantes, che a lungo lo ignora, quando poi il narratore viene invitato al primo di numerosi ricevimenti di quella famiglia di cui sognava da bambino si scontra molto presto con la convenzionalità del loro mondo. È l’inizio di una crisi profonda che percorre tutti i volumi centrali della Recherche: una crisi di disincanto che produce nel narratore una profonda delusione e che cerca di colmare in mille modi diversi, dalla relazione con Albertine al tentativo di dedicarsi all’arte, senza che questi succedanei riescano a colmare il suo bisogno di tornare all’antica magia dell’infanzia. Il colmo si verifica durante la matinée del Tempo ritrovato, quando il narratore scopre che madame Verdurin è diventata principessa di Guermantes per aver sposato il marito vedovo della precedente titolare e la sua vecchia fiamma Gilberte, nata Swann, è ora anch’ella una Guermantes, avendo sposato Robert de Saint-Loup.

La vita vera, o il segreto degli altri
Tutto questo ha come effetto la disillusione del narratore nei confronti di tutto ciò che un tempo costituiva oggetto di costante fascinazione, ma di nuovo nei 75 fogli leggiamo un’anticipazione di quella che sarà la rivelazione del narratore nel Tempo ritrovato:

“Della delusione inevitabile che segue al nostro incontro con cose di cui conoscevamo solo i nomi, per esempio col possessore di un gande nome territoriale e storico, o che in fondo segue a qualunque viaggio, si può concludere che questo fascino immaginario, non corrispondendo alla realtà, è una poesia convenzionale. Ma oltre al fatto che non lo credo, e che ho intenzione di dimostrare un giorno l’esatto contrario, puramente dal punto di vista del realismo, questo realismo psicologico, questa descrizione esatta dei nostri sogni potrebbe valere tanto quanto l’altro realismo, poiché ha per oggetto una realtà che è ben più vitale dell’altra, che tende a riformarsi perennemente in noi […], poiché ci visita anche in sogno (…) l’aspetto fatto di immaginazione e desiderio che non ritroviamo più da svegli […]; perché solamente le pagine che riescono a darci l’impressione di questa realtà, ci danno l’impressione del genio”
(ibidem).

Righe fondamentali che rappresentano il vero preludio alla Recherche. Proust è già pervenuto alla sua scoperta fondamentale: ha iniziato a mettere queste idee inizialmente in forma di saggio, nel Contre Saint-Beuve, dove prende di mira il biografismo esasperato del critico letterario francese, che a suo dire non ha altro effetto che ridurre tutte le figure umane a poca cosa, facendone emergere il lato caratteriale più respingente, che mette in ombra la creazione artistica. Le bozze di quest’opera sono l’anticipazione del tema centrale di tutta la ricerca proustiana, che di fatto, prima ancora che essere una ricerca del tempo perduto, è il tentativo di dare risposta a una domanda: chi sono gli altri? Domanda in cui si riassume il grande mistero della vita. Conosciamo il mondo esclusivamente attraverso il filtro del nostro io (da qui la scelta di Proust di usare la prima persona), e questo impedirà per sempre ogni speranza di comprendere la vera essenza delle cose ma soprattutto delle persone, i cui rispettivi restano a noi preclusi. Ma l’intuizione di Proust è che tutto sommato non ha importanza: non sveleremo il mistero degli altri spiandoli dalle finestre come fa Swann con Odette, e poi il narratore con Albertine (la morbosa indagine per scoprire se fosse di “Gomorra”) o Charlus con Morel.

Possiamo invece capirli veramente attraverso l’arte. Il narratore, ne Il Tempo ritrovato, se ne rende conto quando legge dei personaggi che lui conosce, e in particolare del “piccolo clan” dei Verdurin, così meschinamente piccolo-borghese, in una finta pagina del Journal di Goncourt, dove vengono trasfigurati e trasformati in figure che qualsiasi lettore arderebbe dal desiderio di poter avere il privilegio di conoscere di persona, esattamente come lui un tempo ardeva dal desiderio di conoscere i Guermantes. Il turbamento nel narratore di fronte allo scarto tra la realtà trasfigurata dalla letteratura e l’apparente “vita vera” è profondo:

“Eppure le avevo conosciute, quelle persone, nella vita quotidiana, spesso avevo pranzato con loro, erano i Verdurin, il duca di Guermantes, i Cottard, ciascuno di loro m’era parso tanto comune quanto a mia nonna quel Basin di cui non aveva nemmeno sospettato che fosse il nipote prediletto, il giovane eroe delizioso di Madame de Beausergent, ciascuno di loro m’era sembrato insipido; ricordavo le volgarità innumerevoli di cui ciascuno era composto…”
(Proust, 2013).

Lentamente, il velo si alza e consente di capire che quelle persone trasformate dall’immaginazione sono ancora lì, sono ancora loro, dentro la testa del narratore, ma sono vere quanto quelle che ha conosciuto. No, meglio: sono più vere. Da cui la celeberrima massima, spesso fraintesa: “La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”. È attraverso di essa che possiamo sperare di rispondere alla domanda che ci porteremo dietro per tutta la nostra vita: chi sono gli altri? Il mondo reale, lungi dall’aiutarci a darvi una risposta, fa di tutto per metterci fuori strada, immergendoci in una selva d’impressioni e di sensazioni che scambiamo per vere ma che sono solo dei succedanei, dei simulacri. Come il mercante che, nel Vangelo di Matteo, va in cerca di pietre preziose, ma poi s’imbatte in una perla di grande valore e capisce che tutto ciò che aveva accumulato non valeva nulla al suo confronto, per cui vende tutti i suoi averi e la compra, così Proust ci rivela la portata della sua scoperta: “Abbiamo bussato a tutte le porte che non danno su niente e la sola attraverso la quale si può entrare e che avremmo cercato invano per cento anni, l’urtiamo senza saperlo, e si apre.”

Letture
  • Bernard de Fallois, Saggi su Proust, La nave di Teseo, Milano, 2022.
  • Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto – VII. Il Tempo ritrovato, Mondadori, Milano, 2013.
  • Marcel Proust, Le lettere e i giorni. Dall’epistolario 1880-1922, Mondadori, Milano, 1996.
  • Marcel Proust, I 75 fogli, La nave di Teseo, Milano, 2022.