Maniac, parzialmente basato su una serie norvegese e sviluppato per Netflix da Patrick Somerville e Cary Fukunaga, il primo co-sceneggiatore della fortunata serie The Leftovers (2014 – 2017), il secondo unico regista (una rarità nel mondo della fiction televisiva) dell’intera prima stagione di True Detective (2014 –) si presenta al pubblico, sotto molti aspetti, in un modo stranamente familiare.
L’impianto narrativo di Maniac gira intorno a un farmaco psicoattivo sperimentale, e sul pubblico sembra avere gli stessi effetti. Alla prima “dose” (il primo episodio) le cose appaiono solo leggermente fuori asse. Siamo in una New York che assomiglia moltissimo alla metropoli simbolo del XX secolo che tutti abbiamo frequentato, anche solo nell’immaginario, tranne che per alcuni, strani, particolari. Al posto della Statua della Libertà troneggia su Staten Island una sua versione alata, la “Statua dell’Extra Libertà”. In una sorta di trasposizione reale dei meccanismi tipici della gig-economy, esistono esseri umani che fanno da banner pubblicitari viventi per pagare piccole spese, mentre i robot, o per meglio dire pupazzi in stile Muppet, giocano a scacchi nel parco o puliscono i marciapiedi dalle deiezioni canine.
Maniac è unico anche per il modo in cui la sua visione del futuro è in gran parte analogica o digitalmente retrò (in sintesi è il futuro che avremmo potuto immaginare negli anni Ottanta), dove le persone utilizzano i floppy disk per sperimentare la realtà virtuale e i monitor sono tutti rigorosamente monocromatici e a fosfori verdi. È una serie che spesso sembra trasmettere la sensazione straniante di sbirciare, senza poter interagire, nel mondo onirico di una coppia di estranei.
Nel mix che ha ispirato la serie c’è molto Michel Gondry: L’arte del sogno (2006) e Se mi lasci ti cancello (2004) su tutti, un pizzico di Legion (2017 -) condito da un’estetica sofisticata e hipster à la Wes Anderson. Il convitato di pietra di questa (e di tutte le narrazioni citate in precedenza) è uno: Philip K. Dick, presenza ingombrante con cui tutta la produzione sci-fi ha a che fare da più di quarant’anni e che sembra aver intrappolato nel suo post-umanesimo tutto il mondo dell’immaginario, tanto da costringere ogni storia a rapportarsi col corpus dei suoi lavori. Dick, autore di oltre cinquanta volumi tra romanzi e racconti, è diventato, dalla sua morte, il fulcro di una delle più notevoli rivalutazioni letterarie dei tempi moderni. Dal suo status di scrittore “pulp”, egli è riemerso come uno dei talenti più unici e visionari della storia della letteratura americana.
Questa sorprendente svolta nel riconoscimento del suo status è evidenziata sia dall’intensità degli elogi che gli sono stati tributati, sia dalla gamma di voci che vi concorrono. Solo per restare nell’ambito delle serie di recente produzione, basti pensare all’azzardo, riuscito, della traduzione del romanzo The Man in the High Castle (l’unico premio Hugo, in pratica il Nobel della letteratura di fantascienza, ottenuto da Dick) realizzata da Amazon. Ha scritto Art Spiegelman, autore del graphic novel Maus: “Ciò che Franz Kafka è stato per la prima metà del ventesimo secolo, Philip K. Dick lo è per la seconda metà”. Jean Baudrillard, leader del movimento critico postmodernista in Francia, cita Dick come uno dei più grandi scrittori sperimentali della nostra epoca. L’alternanza e la con-fusione tra differenti piani di realtà, gli stati di alienazione e di allucinazione, la tentazione di rifuggire definitivamente la realtà per abbandonarsi al sogno, o alle sue declinazioni alternative, sono tutte tematiche profondamente dickiane che troviamo piacevolmente anche in Maniac.
Ciononostante la serie non è “perfetta”, ma è complicato comprendere cosa funzioni e cosa non funzioni in questa narrazione. Come in un sogno, Maniac è strano, stravagante e sorprendente. I due protagonisti, Owen Milgrim (interpretato da uno smunto Jonah Hill), figlio depresso e “dimenticato” di una famiglia benestante, e Annie Landsberg (Emma Stone), una giovane donna ossessionata da una tragedia che ha indelebilmente segnato il suo passato, finiscono entrambi, per motivi diversi, in un trial farmacologico alla Neberdine Pharmaceuticals, che offre l’opportunità di sperimentare un cocktail di farmaci che mirano a rimuovere il dolore provocato dai ricordi. Usando un super-computer per isolare, confrontare e accettare quei ricordi traumatici nel subconscio, la speranza è quella di offrire ai partecipanti una sensazione di gioia che altrimenti non potrebbero mai più raggiungere. Sciaguratamente, le cose vanno rapidamente a monte; come dice uno dei medici dello studio, Fujita (interpretato da Sonoya Mizuno) al suo collaboratore (James Mantleray interpretato, in maniera sorprendente, da Justin Theroux): “Abbiamo un problema serio. Penso che il nostro computer sia terribilmente depresso” (e quando si pensa a un computer depresso non possiamo non cogliere la citazione a Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams e al personaggio di Marvin, “l’androide paranoico”).
Pur non avendo alcuna connessione nel mondo reale, Owen e Annie legano durante il processo, apparendo nei reciproci mondi onirici. Queste sequenze, che vanno a coprire parti di episodi o a riempirli interamente, vedono la coppia interpretare persone e personaggi diversi, per lo più inconsapevoli di non essere ciò che sono nel mondo reale; vivendo storie spesso decontestualizzate dalla storia principale. Alcune storie, come in un sogno, sono lasciate a metà; altre sono digressioni poco utili allo svolgimento della trama. Questa ambigua discontinuità può in qualche modo affascinare comunque lo spettatore, spingendolo alla visione del prossimo episodio senza l’utilizzo dei classici dispositivi di sospensione della trama. Sicuramente, per gli attori questa serie rappresenta un ottimo banco di prova per mettere in mostra tutta la loro versatilità: in particola Emma Stone riesce, ancora una volta, a mostrare le sue capacità attoriali. Anche gli autori sembrano molto più interessati a raccontare la storia di Annie che quella di Owen: la prima, infatti, ha un arco narrativo chiaro che porta a una risoluzione emotiva della sua trama. Il processo diventa, non solo per lei, ma anche per il computer stesso, una meditazione sul dolore e sulla sua elaborazione (tematica evidentemente cara a Somersville, dopo The Leftovers). La sua storia, quindi, si rivela essere quella più interessante. Avrebbe meritato di essere raccontata, con più efficacia, nel “vecchio” formato del lungometraggio cinematografico. Ma, come spesso accade con le serie di Netflix, c’è molto, troppo, tempo da riempire, anche con digressioni non sempre efficaci.
La serie è composta da dieci episodi, ma ciascuno di durata variabile dai 25 ai 47 minuti, con una media di circa 35 minuti. Gli episodi iniziano e finiscono spesso in maniera arbitraria: da questo punto di vista Maniac sembra strutturata per assecondare il palato dei binge-watcher: svincolata dalla struttura del palinsesto e dalla composizione in tre atti dei singoli episodi (suddivisi in questo modo anche per permettere l’inserimento di spot pubblicitari) ha una struttura assimilabile a quella del romanzo, che permette di impostare un personale ritmo di fruizione. Sebbene la visione d’insieme di Maniac sembri disordinata, la serie è comunque consigliabile. In un’epoca di racconti spesso forzatamente misteriosi ed enigmatici, Maniac, correndo il rischio di cadere nel sentimentalismo, pone l’emozione al primo posto. È una storia incentrata sul dolore, una favola divertente e singolare di macchine danneggiate che cercano di ricomporsi per riprendere il proprio cammino.
- Michel Gondry, L’arte del sogno, Dolmen Video, 2007 (home video).
- Michel Gondry, Se mi lasci ti cancello, Eagle Pictures, 2018 (home video).
- Noah Hawley, Legion, FX, 2017 –.
- Damon Lindelof, Tom Perrotta, The Leftovers, HBO, 2014-2017.
- Frank Spotnitz, The Man in the High Castle, Amazon Video, 2015 –.