Devoto alla sua missione scientifica al punto da anteporle gli affetti e la vita stessa, ossessionato dai suoi scopi/compiti come lo saranno solo i protagonisti delle storie di Thomas Bernhard ottant’anni dopo, il dottor Simão Bacamarte è uno di quei personaggi dal fare perseverante che capita di incontrare tra le pagine della buona letteratura.
Il dottor Bacamarte è il protagonista del racconto L’alienista di Joaquim Maria Machado de Assis, probabilmente la storia più nota dello scrittore brasiliano, quantomeno per quanto concerne i suoi racconti. Talora è presente in raccolte, ma essendo un racconto lungo (per taluni è un romanzo breve), talvolta è pubblicato in volume unico. È il caso della nuova edizione di Arcoiris, casa editrice indipendente che si occupa prevalentemente di letteratura latinoamericana classica e contemporanea, che lo ripropone nella nuova traduzione di Jessica Falconi.
Il dottore è un luminare della scienza, anzi è tra i massimi rappresentanti della ragione scientifica, “il più grande fra i medici del Brasile, del Portogallo e delle terre di Spagna”. Un uomo coincidente con le sue idee e queste con le sue gesta, come mirabilmente riassume Machado de Assis in una sola frase per bocca dello stesso Bacamarte: “«La scienza» aveva detto a Sua Maestà «è il mio unico impiego»”.
Il campo d’azione del dottor Bacamarte è la medicina, il suo fine è l’individuare e curare le malattie della mente e, con un primo perverso salto logico, la sua azione, seppur circoscritta a una cittadina, la natale Itaguaí nella quale ritorna dopo aver studiato in Europa, ha da subito l’ambizione di essere universale, perché come aveva dichiarato sempre a Sua Maestà “Itaguaí è il mio universo”. Il dottore mostra subito di aver le idee chiare. Rivolgendosi allo speziale del paese Crispim Soares, chiarisce:
“Io concepisco lo spirito umano come una conchiglia, e il mio fine, signor Soares, è provare a estrarre la perla, cioè la ragione; in altri termini, tracciare il confine fra ragione e pazzia. La ragione è il perfetto equilibrio di tutte le facoltà; il resto è follia, follia e solo follia.”
Cosicché, appena giunto in città accompagnato da prestigio e rispetto, ottiene presto l’autorizzazione a costruire un edificio dove poter rinchiudere i matti, che prenderà il nome di Casa Verde per il colore delle finestre e diventerà in poco tempo la “Bastiglia della ragione umana”.
Simão Bacamarte è l’alienista, ovvero “o miedeco d’e pazze”, per dirla con Eduardo Scarpetta, che diede alle stampe la sua commedia un quarto di secolo dopo la pubblicazione de L’alienista. Si tenga presente che l’originale da cui Scarpetta trasse la sua piece, Pension Schöller di Wilhelm Jacoby e Carl Laufs, data 1890, dunque di pochi anni successiva alla storia di Machado de Assis. È una cronologia da tenere a mente, perché mette ben in chiaro l’attualità all’epoca del tema follia, promossa ufficialmente al grado di malattia e confinata assieme ai suoi ambasciatori in spazi istituzionali ben definiti e circoscritti. Allora non sorprenderà una maliziosa sincronia non omissibile: nel 1882, lo stesso anno in cui veniva data alle stampe la raccolta di racconti Papéis avulsos contenente L’alienista, venne conferita a Jean-Marie Charcot la prima cattedra al mondo di neurologia istituita alla Clinique des Maladies du Système Nerveux de La Salpêtrière, all’epoca la più grande struttura per malati mentali del pianeta.
L’irresistibile ascesa del manicomio
È la fase matura del grande internamento ripercorso mirabilmente da Michel Foucault nelle pagine fondamentali di Storia della follia nell’età classica e L’alienista è a ben vedere una sorta di storia della follia in compendio, in grado di ripercorrere per sommi capi e con mirabile sintesi e ironia le tappe del progressivo confinamento di quanti ritenuti malati di mente dentro il perimetro circoscritto del manicomio che la ragione inizia ad assegnare a partire dal XVII secolo (cfr. Foucault, 2012).
Logica che Charcot dispiega appieno, rendendo le peripezie del dottor Simão Bacamarte alle prese con la pazzia un testo visionario. Da qui la fama, meritata, di cui gode il racconto, uguagliata, almeno in Italia, soltanto dal romanzo pressoché coevo Memórias póstumas de Brás Cubas (1881), noto da noi dapprima con il titolo Memorie dell’aldilà e poi ricalcando l’originale come Memorie postume di Brás Cubas (ma va tenuto conto anche di una edizione del 2005 dell’editore Azimut che per enfatizzare la nuova traduzione lo propose con il titolo Marcela mi amò per quindici mesi e undicimila scudi, niente meno). Fu la prima opera di Machado de Assis a essere tradotta in italiano, nel 1928, e all’epoca il protagonista venne ribattezzato Braz Cubas.
In qualsiasi modo lo si voglia intitolare, si tratta di una strepitosa invenzione letteraria di cui Susan Sontag ebbe a dire “conosco un solo esempio di autobiografia immaginaria, un genere affascinante che conferisce al progetto autobiografico una completezza ideale che, a conti fatti, è anche comica: il capolavoro dello scrittore brasiliano Machado de Assis Memorie dell’aldilà” (Sontag, 1990). Basterebbe l’esergo apposto dal defunto protagonista a eleggerlo al rango di capolavoro: “Al verme che per primo ha corroso le fredde carni del mio cadavere dedico come caro ricordo queste Memorie Postume” (Machado de Assis, 2020).
La Salpêtrière in una stampa del XVIII secolo di Jacques Rigaud.
Sì, il protagonista di queste memorie racconta la sua vita dalla fine, ovvero dal decesso, giù in fondo nel passato, un espediente narrativo che si rivedrà nel secolo successivo sul grande schermo in Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy Wilder. Ben altri, ovviamente, erano i riferimenti di Machado de Assis, in primis La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne, per via del suo procedere strizzando l’occhio ai roman a tiroirs, i romanzi a cassetti in voga fino al XVIII secolo, dimenticati al tempo di Machado de Assis e riscoperti solo dalla letteratura postmoderna (Georges Perec, per esempio, o Italo Calvino). In altre parole, un romanzo espanso in virtù del suo reiterato negarsi. Centosessanta capitoli lungo i quali si srotola una narrazione oltremondana che saltella qui le là nel tempo, opera digressioni non richieste, gira in tondo, non mancando di mettere a nudo miserie spirituali assortite.
Inoltre, al pari di Bramacarte, anche Brás Cubas ha un’idea fissa e altrettanto nobile, quella di creare “un medicamento sublime, un unguento antimelancolia destinato ad arrecare sollievo alla nostra triste umanità”. Viene anche introdotta la figura di un personaggio, Quincas Borba, che diverrà protagonista di un successivo romanzo. Val la pena annotare anche in questo caso le peripezie del titolo nelle varie edizioni italiane, ora lasciato nell’originale Quincas Borba, ma anche variato in Gioachin Borba: l’uomo o il cane? (nella prima traduzione del 1930), oppure La fortuna di Rubiano. Insomma, un autore, Machado de Assis, tradotto in Italia, come si è detto, sin dagli anni Venti del secolo scorso, ma penalizzato da un certo disordine editoriale che non gli rende piena giustizia, essendo uno dei maggiori autori brasiliani di sempre, nonché un autentico outsider.
Una vita tutta in salita
La sua biografia è eloquente, annoverando diversi tratti che paiono garanzie per una vita condannata al fallimento: autodidatta, sofferente di epilessia, affetto da balbuzie e nato da genitori poveri. Era figlio dell’imbianchino mulatto Francisco José de Assis e della lavandaia Maria Leopoldina Machado da Câmara, portoghese bianca, originaria dell’isola di São Miguel nelle Azzorre. Entrambi sapevano leggere ma morirono quando egli era ancora un ragazzino di dieci anni. Mulatto in una società schiavista, al tal punto che il suo ritratto è rimasto sbiancato fino allo scorso anno, quando un ateneo di San Paolo, Zumbi dos Palmares (in maggioranza frequentato da studenti di colore), assieme a un’agenzia pubblicitaria e un gruppo di storici, ha rivelato il suo vero aspetto. Presunto vero aspetto, perché si è passato dal seppiato pallido finora noto a un all black, che non si concilia del tutto con le caratteristiche dei suoi genitori.
Machado de Assis nacque il 21 giugno del 1839 a Rio de Janeiro, nel quartiere poverissimo nel Morro do Livramento e nella metropoli carioca visse e morì senza mai allontanarsene. Osservatorio dal quale scrutò i temi del suo tempo e le contraddizioni della cultura brasiliana (soprattutto il continuo confronto tra retaggio europeo e tradizione autoctona), facendone il teatro delle sue storie, apparentemente focalizzate in massima parte su storie d’amore, di tradimento e di fallimento, per certi versi insuperabili prove di naturalismo, ma in realtà impietose radiografie dell’animo umano, sempre scevre da qualsivoglia elemento folklorico, abbondanti, anzi soverchianti nella letteratura brasiliana dell’epoca.
Riassumendo, al netto delle ricostruzioni biografiche un po’ romantiche, Machado de Assis ribaltò del tutto la posizione di partenza, intraprendendo una solida carriera prima al Ministero dell’Agricoltura e poi in quello dei Trasporti, dedicandosi all’attività giornalistica e soprattutto diventando un autentico patriarca delle lettere nazionali, fondando l’Academia Brasileira de Letras, di cui fu il primo presidente, scrivendo dieci romanzi, dedicandosi anche alla poesia e a teatro, forte di una cultura al tempo stesso enciclopedica e cosmopolita, dedicandosi soprattutto al racconto, del quale fu maestro insuperato. Circa duecento le storie brevi in totale e ben sette le raccolte pubblicate in vita: Contos fluminenses (1870), Histórias da meia-noite (1873), la citata Papéis avulsos (1882), Histórias sem data (1884), Várias histórias (1896), Páginas recolhidas (1899), Relíquias de casa velha (1906). Machado de Assis accolse la follia anche nel grembo di altri racconti, una volta di più giocando d’anticipo sui tempi, inserendo tematiche che sarebbero divenute proprie dell’antipsichiatria, in particolare del suo manifesto (forse anche unico vero testo dell’antidisciplina), ovvero L’io diviso di Ronald Laing. Per esempio, in Lo specchio (anch’esso incluso in Papéis avulsos) appare questo passaggio fulminante: “ogni creatura umana racchiude in sé due anime: una che guarda verso l’esterno, l’altra che guarda da fuori verso l’interno” (Machado de Assis, 1990). In La seconda vita (dalle Histórias sem data), invece, un folle confida a un sacerdote di essere rinato e gli narra gli eventi della nuova esistenza con un crescendo febbricitante e vieppiù delirante.
L’esperienza giornalistica
Molte delle sue storie brevi ci ricordano che svolse anche la professione giornalistica (e la sua prima occupazione fu come tipografo), non mancando di rispettare la regola anglosassone delle cinque W nell’attacco del testo: chi, che cosa, dove, quando, perché. Difatti nelle prime battute dei suoi racconti siamo quasi sempre a conoscenza di questi dettagli, l’ubicazione, la data i personaggi, le loro motivazioni e i fatti di cui si va raccontare lo svolgimento. Anche il suddividere in capitoletti le poche pagine della storia (data la lunghezza, accade anche in L’alienista), denuncia un’impostazione giornalistica, abilmente mescolata con tecniche di altra natura, espedienti più squisitamente letterari. Un equilibrio che ha del meraviglioso e corre l’obbligo di sottoscrivere quanto affermato senza esagerare da Harold Bloom in Il genio (2002), che definì Machado de Assis “una sorta di miracolo, un’ulteriore dimostrazione dell’autonomia del genio letterario rispetto al tempo e al luogo, alla politica e alla religione.” (Bloom, 2002) e di miracolo a proposito di Machado ha parlato anche lo scrittore messicano Carlos Fuentes in Machado de la Mancia (2001).
Dopo queste note biografiche, brevi ma necessarie, torniamo a L’Alienista, al dottor Simão Bacamarte e ai suoi sinceri propositi di individuare e curare la follia. Nella Casa Verde, il gigantesco edificio di cura allestito in tempo da record, progressivamente verranno rinchiusi quattro quinti della popolazione inclusa quella dei paesi e delle frazioni dei dintorni, scatenando un bel putiferio con scontri e tafferugli. La creazione e la gestione degli internamenti nella Casa Verde rende visibile a occhio nudo quell’esercizio del potere nelle micro-relazioni sociali, su cui si focalizzerà l’indagine foucaultiana.
Una folla di malcapitati
La sommossa capitanata dal barbiere Porfirio poco scompone l’apostolo della scienza, “grand’uomo austero, un Ippocrate travestito da Catone” come si diverte (è evidente) a descriverlo Machado de Assis. Bamacarte non solo riesce a salvaguardare il suo operato, ma con grande onestà intellettuale opera una rivoluzione copernicana, ammettendo “come normale ed esemplare lo squilibrio delle facoltà e come ipotesi patologiche tutti i casi in cui quell’equilibrio era costante”, ovvero si convince che è la norma a doversi definire autentica follia. Decide coerentemente (come altrimenti?) di far uscire i matti e rinchiude i cosiddetti savi. A farne le spese sarà anche Donna Evarista, presa in moglie in virtù di doti ideali per chi ha una simile missione da compiere:
“Donna Evarista riuniva condizioni fisiologiche e anatomiche di prim’ordine: digeriva senza problemi, dormiva regolarmente, aveva un polso ottimo e una vista eccellente, quindi era idonea a dargli figli robusti, sani e intelligenti. Se poi oltre queste doti – le sole degne d’interesse per un saggio – Donna Evarista aveva brutti lineamenti, lungi dal rammaricarsene, rendeva grazie a Dio in quanto non correva il rischio di posporre gli interessi della scienza a causa della contemplazione esclusiva, inutile e banale della propria consorte”.
Poche righe che chiariscono la magistrale ironia sottesa alla narrazione. Esemplare il caso del barbiere Porfirio prima rinchiuso in quanto squilibrato, focoso nell’aizzare le folle, e successivamente rinsavito rilasciato e quindi rinchiuso in quanto manifesto portatore di equilibrio, ovvero di insanità mentale secondo il nuovo approccio alla malattia di Bacamarte. Il narratore onnisciente in terza persona risulta particolarmente congeniale nel corso del racconto al denudamento del comportamento umano, andando oltre le apparenze ed esponendo con grande ironia tutta la vanità e l’egoismo umano, poiché intorno al dottore si creano e si disfano consensi interessati.
In conclusione, accertato scientificamente di essere l’unico savio della città, il dottor Simão Bacamarte svuota la Casa Verde e vi si rinchiude volontariamente fino alla morte. Un apologo mirabile nel suo implacabile procedere con insostenibile leggerezza, la cui lettura non soffre per lo spoiler sull’epilogo. Machado de Assis fu autodidatta, lo si è detto, lesse tutti i classici, vaste letture che fanno capolino ovunque nelle sue storie, brevi e lunghe.
La sua biblioteca avrà probabilmente ospitato anche Immanuel Kant e il sospetto che sia stato il filosofo di Königsberg a suggerire il profilo del dottor Simão Bacamarte è più che fondato. È sufficiente rileggere questo passo dalla Critica del giudizio:
“Un oggetto è mostruoso quando con la sua grandezza annulla lo scopo che è nel suo stesso concetto.”
(Kant, 2019).
- Harold Bloom, Il genio, Rizzoli, Milano, 2002.
- Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 2012.
- Carlos Fuentes, Machado de La Mancha, FCE, Messico, 2001.
- Immanuel Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari, 2019.
- Machado de Assis, Storie senza data, Lucarini, Roma, 1989.
- Machado de Assis, La cartomante e altri racconti, Einaudi, Torino, 1990.
- Machado de Assis, Memorie postume di Brás Cubas, Fazi, Roma, 2020.
- Susan Sontag, Afterlives: The Case of Machado de Assis», in The New Yorker, 7 maggio, 1990 (Notizie dall‘aldilà: il caso Machado de Assis, traduzione di Oriana Palusci in Sagarana.it n.1, 2005).