Questo vademecum dell’intellettuale di successo pubblicato da Neri Pozza, Non leggete i libri, fateveli raccontare, è in realtà un anti-manuale, una satira dei tanti how-to-do books che anticipa di quaranta, cinquant’anni la moda delle guide tipo ‘come diventare milionari in due ore’, o ‘come scrivere un best seller in cinque lezioni’. Si tratta di sei articoli scritti da Luciano Bianciardi e usciti nel 1966 sulla rivista ABC, settimanale di attualità sostenitore delle grandi battaglie civili dell’epoca, fondato da Enrico Mattei, patron dell’Eni e de Il Giorno. L’introduzione, breve ma succosa, è di Pino Corrias, un bianciardiologo doc, visto che il suo Vita agra di un anarchico (1993), ristampato quest’anno, centenario dalla nascita di Luciano Bianciardi, è forse il primo libro biografico dedicato allo scrittore maremmano. Le sei lezioni su come diventare intellettuale di successo sono rivolte a un giovane, in ispecie al giovane non dotato di particolare talento. Questo promesso sposo dell’industria culturale viene innanzitutto e rigorosamente dalla provincia, cioè da ogni centro urbano della Penisola, precisa Bianciardi, che non siano Milano e Roma, le uniche vere grandi città italiane, allora come oggi:
“La vera cultura si fa in provincia. Lontani dalle distrazioni e dal tumulto della grande città, i giovani hanno tempo per pensare, discutere, dibattere. Si formano così cervelli e coscienze: poi arriva la grande città, screma il meglio dell’intelligenza periferica e l’adopera per la fabbricazione dei suoi formaggini culturali”.
Quando scriveva questi articoli Bianciardi era già nel tratto finale della sua breve (morirà a 49 anni, il 14 novembre 1971, a Milano) ma tormentata esistenza di scrittore e intellettuale. Quattro anni prima, nel 1962, era uscito da Rizzoli il romanzo che lo consacrò al successo, La vita agra, la “cosa migliore” che ha scritto (a giudizio dello stesso autore), culmine di una trilogia della vita insieme a Il lavoro culturale e L’integrazione, pubblicati nel 1957 e 1960 per Feltrinelli e Bompiani: il primo, rievoca la sua esperienza giovanile nei circoli culturali di provincia, i dibattiti in biblioteca, l’organizzazione dei cineclub; il secondo, rifiutato da Feltrinelli, narra con taglio molto ironico, quasi caricaturale, il lavoro in una casa editrice. Già, Feltrinelli. La casa editrice del “Giaguaro” (così era soprannominato il boss, Giangiacomo Feltrinelli) lo aveva licenziato per scarso rendimento. Figuriamoci: licenziare un workaholic come Bianciardi, che lavorava anche, se non soprattutto, per passione e per dimenticare sé stesso, le sue contraddizioni, i suoi demoni, è come dare dell’abulico a Stakanov.
Ma non affrettiamo il passo, perché questo bel librino di Neri Pozza ci offre lo spunto per parlare un po’ più diffusamente – dal momento che è anche il centenario della sua nascita – di uno scrittore e di un intellettuale che è più di entrambe le cose, è un visionario: il suo rapporto di amore e incazzatura con Milano fa da innesco a “la vita agra”, ambientato in una Milano per noi oggi lontana sul piano metropolitano-urbanistico eppure uguale, tale e quale per non poche dinamiche culturali e antropologiche descritte da Bianciardi. La povera e artistica Brera che ospita Luciano e Anna ne La vita agra è oggi un quartiere esclusivo, per milionari in euro; negli anni Cinquanta e primissimi Sessanta c’erano ancora i casini aperti di via Fiori Oscuri, c’erano gli artisti più o meno squattrinati, c’erano le latterie e le trattorie (che spesso t’avvelenavano), insomma un altro mondo. Fino a un certo punto: perché questo romanzo autobiografico, uscito nel 1962, è oggi più vivo e attuale che mai. Val la pena riprendere le parole di Geno Pampaloni (dall’introduzione a La vita agra) perché meglio di così non si potrebbe sintetizzare:
“La vita agra, che è del ’62, può essere anche letta come un palinsesto dei motivi che animeranno, qualche anno dopo, la contestazione dei giovani. C’è la rabbia, anarchico-socialista, contro il potere disumano dell’industria, […] C’è l’inumanità, o alienazione, cui è ridotta la folla della metropoli: ‘non trovi le persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro…gli ultracorpi, gli ectoplasmi’. C’è la nausea del traffico e dell’automobile…C’è la pena per il mondo aziendale, ove la gente appare come sottoposta a un processo di disidratazione spirituale […] C’è il rifiuto del successo e dell’ambiguo meccanismo della selezione […] C’è il rifiuto del consumismo: ‘uomini e donne con gli occhi arsi dalla febris emitoria, che non vedono nulla, ti urtano coi gomiti, ti travolgono insieme a loro verso il bottegone’; e, con ancora più decisa contestazione dei valori della civiltà di massa: ‘Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi rinunciare a quelli che ha’. C’è la satira del mondo editoriale, ove la cultura è mercificata, resa inerte, e posta in vendita adulterata dal sussiego delle mode sempre nuove. C’è l’amara delusione dei partiti politici ove al rapporto umani si è sostituita un’ossessione nominalistica, un’astrazione di formule e frasi. C’è insomma una contestazione globale al sistema e all’uomo integrato al sistema”
(Pampaloni, in Bianciardi, 1999).
L’intellettuale vien dal ceto medio
Tornando al 1966, anno in cui Bianciardi pubblica gli articoli su ABC, lo scrittore maremmano (nato a Grosseto il 14 dicembre 1922) si era trasferito, nel 1964, a Sant’Anna di Rapallo. Una sorta di autoisolamento un po’ sofferto, un po’ voluto. Su ABC pubblica fra l’altro una rubrica di critica televisiva, una delle prime, se non la prima, di questo genere, che prende il nome di Telebianciardi, iniziata su Le Ore e proseguita, appunto, su ABC. È il periodo in cui abbandona sul piano narrativo il filone dell’incazzatura, per ritornare al primo amore, il Risorgimento, con il romanzo La battaglia soda, pubblicato da Rizzoli nel 1964. Un amore antico quello per il Risorgimento: da quando, a otto anni, Bianciardi ricevette in dono un libro, I Mille di Giuseppe Bandi, la spedizione di Garibaldi raccontata, appunto, da un garibaldino, che gli accese la passione per l’eroe dei due mondi e per quel periodo. Garibaldi non è esattamente l’icona dell’intellettuale contemporaneo. Ma come si può definire l’intellettuale, nozione recente che comincia a prendere corpo con l’Illuminismo? Prima, la categoria degli intellettuali, così come la intendiamo oggi, non esisteva. Ma in questo pamphlet Bianciardi evita, volutamente e ironicamente, qualunque definizione:
“Che cosa significa, per cominciare, la parola ‘intellettuale’? Un autore che in questo dopoguerra ebbe particolare e meritata fortuna fra i lettori di sinistra affermò che per intellettuale deve intendersi chiunque non eserciti un mestiere manuale. Una definizione generosa, abbondante, e perciò poco attillata, che andava larga: dal prete al portalettere, su su fino a Benedetto Croce, tutti quanti cadevano nel cestone dell’intellettualità. (…) Sarà meglio lasciare tutto nel vago, non tentare neanche una definizione precisa”.
E ancora, nel capitolo successivo (Le vacanze: benissimo la Svezia, ma non parlate delle svedesi) riprende il tema invitando a lasciar nella foschia dell’indeterminato la definizione del termine ‘intellettuale’ e ribadendo che la provenienza dal ceto medio è particolarmente consigliabile per tale carriera:
“Nella puntata precedente abbiamo visto come il concetto di intellettuale sia estremamente vago e opaco; abbiamo evitato di tentarne una definizione precisa; anzi, abbiamo raccomandato di lasciare le cose come stanno, non tentare neanche di diradare le nebbie culturali. Abbiamo inoltre constatato che, pur essendo la carriera dell’intellettuale aperta a tutti, senza distinzione di censo, ideologia, ceto sociale, meglio si adatta al giovane nato in seno al cosiddetto ceto medio”.
Troppi libri: fateveli raccontare
L’esortazione a non leggere i libri, ma a farseli raccontare, è il culmine sintetico di un discorso attualissimo che vede nella sovrabbondanza della produzione editoriale un disincentivo alla lettura con i conseguenti e profetici appelli a un “biginismo orale” che unisce l’essenziale al risparmio di tempo. Bianciardi non ha dubbi:
“Nessuna persona seria e pratica vuole oggi formarsi: basta informarsi. Si scrivono libri ponderosi sulla teoria, la tecnica, la metodologia dell’informazione. Il nostro cominci con l’evitare di leggerli. E allo stesso modo si comporti con qualsiasi altro libro. Egli vive, come si è detto, in provincia, circondato da schiere di giovani ingenui e ansiosi che passano le giornate chini sui libri. Ebbene, li frequenti, li veda, li ascolti: avrà a disposizione altrettanti segretari diligenti e gratuiti, saprà da loro tutto quel che occorre sapere. […]. Ora, statistiche alla mano, si sa che escono ogni anno in Italia dodicimila libri, il che fa una media di quaranta al giorno, domeniche escluse. Ci sarebbero poi i libri stranieri, per lo meno quelli nelle tre lingue principali d’Occidente, che non vanno ignorati: il totale cresce a centocinquanta opere giornaliere: non c’è neanche il tempo di leggere i titoli e i risvolti di copertina”.
Questo tema già compare ben delineato ne Il lavoro culturale (uscito nel 1957) dove leggiamo:
“Nell’antichità era il lettore che cerca il libro, mentre oggi il rapporto si è invertito: il libro cerca il lettore. In Italia la crisi è complicata dal fatto che moltissimi scrivono e pochissimi leggono. Ogni anno diecimila persone danno alle stampe le loro opere, e se si tiene presente che un solo libro viene stampato, su cento che arrivano manoscritti sul tavolo di un editore, risulterà che abbiamo in Italia un numero altissimo degli scrittori, fra editi e inediti: circa un milione o anche di più. Forse il numero degli scrittori è pari a quello degli analfabeti”
(Bianciardi, 1997).
Nell’articolo Marcatura a uomo o a zona?, sesta e ultima lezione, Bianciardi insegna all’allievo, ormai edotto, anche come governare l’azienda:
“Abbiamo preso per mano un giovane assolutamente privo di talento e di attitudini particolari, e gli abbiamo mostrato la via del successo, nel mondo della cultura. Adesso egli dovrebbe sapersi muovere, parlare, gestire come un intellettuale. Si è messo in luce nella provincia natìa, ma è ormai radicato da un pezzo a Milano, dove si è scelto una moglie adatta e un padrone redditizio, cioè un neopadrone. Non resta che insegnargli come si governa l’azienda. Esistono numerosi libri sull’argomento, ma il Nostro può senz’altro non leggerli. Si procuri invece il più aggiornato manuale sul gioco del calcio”.
C’è qualcosa di ironicamente autobiografico in queste parole considerando che anch’egli veniva dalla provincia, dove si era messo in luce come intellettuale e operatore culturale, che si era poi anche lui radicato a Milano, a libro paga presso un padrone redditizio (Feltrinelli). Bianciardi è una figura modernissima e affascinante perché condensa diversi aspetti tipici e contraddittori del mondo artistico-intellettuale novecentesco: è inserito nell’industria editoriale (è uno dei migliori traduttori dall’inglese), di cui è un forsennato cottimista, è uno scrittore di successo, ma presenta tratti che lo accomunano al maledettismo e all’autodistruttività tipici del bohémien. È dentro e nello stesso tempo fuori dal suo tempo, è un bravo impiegato della cultura, una macchina traduttoria, ma arrabbiato come un beatnik, le sue invettive e tirate sarcastiche contro il consumismo, contro la retorica del boom economico in un periodo in cui il reddito pro capite aumenta del 130%, nelle case arrivano gli elettrodomestici – nel 1958 solo il 13% degli italiani possedeva un frigorifero, nel 1965 è il quadruplo (55%) – precedono le esternazioni pasoliniane su temi analoghi. Nell’Italia bigotta del suo tempo traduce per Feltrinelli i due Tropici di Henry Miller che fanno agitare la censura, e fanno innamorare Bianciardi a tal punto che creerà un alter ego voltando il nome dello scrittore americano in Enrico Molinari. Eppure, e qui riprendiamo le parole di Pino Corrias:
“Quando inizia davvero la rivoluzione dei costumi, decide, sventatamente, di voltare le spalle all’esilio milanese per infilarsi in quello di Rapallo. Dove prova a smaltire la bronchite cronica e le venti Nazionali senza filtro al giorno. La solitudine si volta in malinconia. Idealizza le Maremme «che sono il posto più bello e più pulito del mondo». Ma intanto si perde nelle piogge di entroterra e nei Campari coi pensionati. Il mondo sta cambiando e lui non se ne accorge più. Scrive di Risorgimento e dell’esilio di Garibaldi, l’eroe della sua infanzia, per non parlarci del suo”
(Corrias in Bianciardi, 2022).
Forse per coerenza con il suo spirito indipendente e libertario aveva persino rifiutato una collaborazione (trecentomila lire di allora: tantissimi soldi) al Corriere della Sera, offertagli da Indro Montanelli in persona che era stato uno dei primi entusiasti recensori de La vita agra (“… è uno dei libri più vivi, più stupefacenti, più pittoreschi che abbia letto in questi ultimi anni” scrive Indro sulla terza pagina del Corriere della Sera, il 2 ottobre 1962, a una settimana dalla pubblicazione del libro). Due anni dopo uscirà anche il film di Carlo Lizzani, protagonista Ugo Tognazzi. Questo per ricordare il successo che ebbe il romanzo più iconico di Luciano Bianciardi, il più milleriano della narrativa italiana.
- Luciano Bianciardi, La vita agra, introduzione di Geno Pampaloni, cronologia e bibliografia di Luciana Bianciardi, Bompiani, Milano, 1999.
- Luciano Bianciardi, La vita agra, edizione annotata di Alvaro Bertani, ExCogita, Milano, 2013.
- Luciano Bianciardi, L’integrazione, Feltrinelli, Milano, 2019.
- Luciano Biancardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, Milano, 1997.
- Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Feltrinelli, Milano, 2022.
- Gaia Manzini, A Milano con Luciano Bianciardi, Giulio Perrone Editore, Roma, 2021.
- Gian Paolo Serino (a cura di), Luciano Bianciardi, il precario esistenziale, Edizioni Clichy, Firenze, 2015.
- Carlo Varotti, Luciano Bianciardi, la protesta dello stile, Carocci, Roma, 2017.