Il Bois de Vincennes è il grande parco situato a est di Parigi, nel XII distretto. Un tempo riserva di caccia dei re di Francia, venne trasformato dall’architetto Jean-Charles Adolphe Alphand in un giardino all’inglese sotto la direzione del Barone Haussmann. A questi, Napoleone III affidò il compito di ristrutturare la Ville Lumière per poi donare il parco alla città nel 1860. Fonti incerte raccontano che quasi un secolo dopo, nel 1959, tra i quasi mille ettari del parco, si aggirava piangendo e gridando, ma è una supposizione, più probabilmente urlando, forse imprecando, tra gelide pause, lunghi attimi di silenzio e nuove grida, un ragazzino di dodici anni, di padre turco, famiglia di origine ebrea, secondo fonti abbastanza attendibili, nato nel decimo arrondissement di Parigi nel 1947. Iniziò così a scolpire il suo canto, a scoprire la sua vocalità unica, Ghédalia Tazartès, quel ragazzino vagante per il Bois de Vincennes, dove, addolorato, si era recato in seguito alla morte della nonna a lui carissima.
Sessant’anni più tardi, il 19 maggio 2019 Tazartès tiene un concerto nella chiesa Saint-Meirry di Parigi assieme a Jérôme Lorichon e Quentin Rollet. È la prima ma sarà anche l’unica esibizione del trio, che viene registrata ed è stata data alle stampe lo scorso 21 febbraio. Rollet è un sassofonista, improvvisatore provetto e figlio d’arte: suo padre, Christian è il batterista del collettivo storico Workshop De Lyon, una delle prime formazioni francesi di free jazz. Il più giovane Lorichon ha invece in curriculum precedenti con Rollet e militanza in oscure formazioni di frontiera come Zombie Zombie, Berg Sans Nipple e altro ancora. Adopera parecchi strumenti tradizionali, ma soprattutto si ingegna con piccoli marchingegni elettronici.
I tre sembrano suonare insieme da un’eternità una musica senza tempo, sospesa, ieratica, un rituale che si compie in apparente immobilità. Struggenti, addolorati, sommessi, i vocalismi di Tazartès scatenano la più tremenda delle suggestioni: stiamo ascoltando un canto funebre e la cerimonia, in anticipo sul tempo, si svolge per officiare la morte del suo corpo. Un unico brano dal titolo visionario, La chute de l’ange, un mini cd accompagnato da un libro di fotografie, Quoi Qu’il En Soit, di cui si dirà più avanti, pubblicato dall’etichetta parigina Bisou, di cui Rollet è co-fondatore. Guardando indietro, quel concerto diventa inevitabilmente un requiem: se verranno pubblicati nuovi dischi conterranno inediti, nessuno suonerà più con Ghedalia Tazartès e nessuno potrà ascoltarlo in concerto, perché pochi giorni prima l’uscita del libro+cd, la sua Voce (l’uso della maiuscola qui è d’obbligo) si era spenta per sempre.
Ghédalia Tazartès si è congedato con due novità discografiche raccolte in una manciata di giorni, perché a gennaio un’altra etichetta d’oltralpe, la Versatile ha pubblicato l’album Jours De Grève intestato al duo composto da Emanuelle Parrenin, arpista, suonatrice di ghironda e cantante e Detlef Weinrich, disc jockey tedesco proveniente dal mondo delle arti visive, tant’è che spesso è in azione con il soprannome iconoclasta di Tolouse Low Trax. Tazartès è presente in sei degli otto brani, fornendo un apporto più che significativo alla riuscita di un lavoro fuori dagli schemi, mistura di dub, folk allucinato, tribalismo e psichedelia. Mirabili e mirati gli interventi vocali di Tazartès sottraggono ulteriormente il disco alle consuete classificazioni e a dare una mano c’è anche Quentin ai sassofoni.
Guardiamo ancora più indietro e torniamo ai fatti del Bois de Vincennes. Dopo aver finito la scuola, il giovane Tazartès andò a Istanbul, città natale di suo padre, poi ad Atene, in seguito a Londra, tornando nuovamente a Parigi, lavorando come operaio in una fabbrica, che lavorava nell’indotto ruotante intorno alla General Motors di Genevilliers, secondo informazioni prive di fonte certa, le stesse secondo cui, nel 1974, Ghédalia Tazartès si procura i primi ferri del mestiere: microfono, registratore e echo band. Piccola attrezzatura per fare musica in proprio, bricolage sonoro in un bizzarro appartamento in rue du Faubourg-Saint-Antoine, che funge da rifugio e da studio di registrazione, dove si insedia nel 1967 senza mai più abbandonarlo. Un luogo senza tempo, zeppo di cose: flauti di Pan, gabbie per uccelli, mappamondi, statue d’avorio, tastiere ancora avvolte nel cellophane, cornici dorate, un nugolo di oggetti appesi alle pareti, specchi, chincaglieria, strumenti, un pullulare di vetro e cristallo, dimora esotica, surreale, un bazar/alcova/appartamento delle meraviglie. Tazartès ne ha selezionati alcuni, li ha messi in posa, fornendogli adeguata scenografia e li ha fotografati per comporre il delizioso libricino Quoi Qu’il En Soit al quale si accompagna il suddetto cd La chute de l’ange.
È in questo regno del collezionismo, frutto di innumerevoli sortite in chissà quali mercatini delle pulci, che l’autodidatta Ghédalia Tazartès mise a punto negli anni il suo unico, inimitabile modo di procedere, di fare musica, così inclassificabile da richiedere un neologismo su misura, Impromuz, perché:
“All’inizio io non pretendevo di fare della musica: io intendevo realizzare delle cose che hanno a che fare con il suono. Era come una scrittura su nastro magnetico, o meglio come un disegno su nastro magnetico, non lo so. La chiamavo «Impromuz» in effetti, perché all’epoca bisognava pur trovare una definizione a quello che andavo facendo”
(David Fenech, 2007).
All’ombra dei suoi numi tutelari, Johann Sebastian Bach, Richard Wagner, John Cage e Jimi Hendrix “quattro persone senza le quali non potrei dire di essere un musicista”, affermò in un’intervista (Rochard, 2021), per circa un decennio il laboratorio Tazartès accumula materiali, frantuma e ricompone, archivia, registra, parimenti come inizia fare con gli oggetti, iniziando un viaggio tra le voci del mondo schizzate via in mille direzioni dopo che gli uomini osarono la scalata al cielo:
“… il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra”
(Libro della Genesi 11, 1-9).
Ghedalia, d’altronde, è una figura biblica, seppur minore. È il figlio di Ahikam, figlio di Shafan, ed è colui che il re di Babilonia stabilisce sulle città di Giuda, che poi verrà ucciso da Ismaele (Libri profetici/Geremia).
Ghédalia Tazartès è il luogo dove le lingue dell’uomo trovano temporaneo asilo, il francese, il tedesco, l’italiano, il latino, l’arabo, l’inglese e altre ignote, inventate da lui stesso; è la terra dove le lingue si ricongiungono in un pirotecnico gramelot, dove i suoni e le emozioni danzano insieme, dove un istrione senza pari danza sulle montagne russe, passando con disinvoltura dal canto melodico al pianto, dall’urlo al lamento, dove il vecchio, la donna, il neonato, il bambino, l’adulto, l’umanità intera sfila in un funambolico gioco delle parti, perché la voce di Ghédalia Tazartès è la Voce, lo strumento originale, come recitava il titolo di un disco della leggiadra Joan La Barbara. Voce che sorge come è sorta la musica stessa, come accompagnamento di un rito funebre, almeno secondo l’ipotesi raccontata in I passi perduti dallo scrittore e musicologo cubano Alejo Carpentier singolarmente condivisa da Tazartès quel 9 maggio 2019:
“Nella bocca dello stregone, del mago orfico, rantola e si spegne convulsamente la Trenodia, tale, altro non è, veramente questa lamentazione funebre, lasciandomi abbagliato: io ho assistito in questo momento alla nascita della musica”
(Carpentier, 1995).
Aspre, urticanti, commuoventi, disturbanti, inquietanti, salmodianti e recitanti, le voci di Ghédalia Tazartès rimbalzano, riemergono dal nulla verso un dove ignoto. La Voce di Ghédalia Tazartès ha mezzi enormi, grande estensione (quattro ottave) e può davvero molto: sfrigola, geme, singhiozza, fischia, sbuffa, freme, soffia, balbetta, biascica, gorgoglia, rintrona, gracchia bisbiglia, romba, blatera, bofonchia latra, brontola, ruggisce, gracida, strepita, stride, latra, schiamazza, ulula, cigola, grugnisce, rimbomba, tuona, mugola, scricchiola, mormora, strimpella, grida, sussurra, raglia, gorgheggia, ringhia, ronza, sbraita, crocchia, pigola, sospira, tintinna, miagola, crepita, frigna, garrisce, guaisce, nitrisce, squilla, eccetera.
Altrettanto fanno i suoni, acustici ed elettronici, che la avvolgono, o da cui sgusciano, sempre sorprendenti, capaci di colpi di scena spiazzanti, frutto di montaggi che ricordano quelli cinematografici di Jean-Luc Godard: loop ipnotici, taglienti chitarre elettriche, archi arabeggianti, strumenti giocattolo, orchestrine circensi o da balera, suoni d’ambiente, lirici arpeggi e percussioni selvagge. Ghédalia Tazartès “è un’orchestra, un gruppo pop e un uomo”, come afferma una fonte sicura, André Glucksmann, nelle note di copertina del primo album di Diasporas (1979).
Precedenti la prima uscita discografica ufficiale ci sono alcune registrazioni, materiali d’archivio ripresi anni dopo e rielaborati per realizzare Granny Awards, pubblicato nel 2011 dall’italiana Alga Marghen. Iniziano qui a fare capolino i mille personaggi che lo abitano e rendono possibile quell’impossibile glossolalia che emana da Tazartès.
Sin da qui si apprezzano i collage elettroacustici che denunciano la parentela con la scuola della musique concrète francese e la mescola di suggestioni orientali ed europee; musica d’altroquando, che proviene da ogni luogo e da nessuno, che ha radici ovunque, che sembra inventata di sana pianta e che è entrambe le cose. In Granny Awards compare già la voce del bimbo Raphaël Glucksmann, che poi rispunterà qui e là nella produzione successiva, fino a Repas Froid (2008), altro recupero di materiale inedito con datazione eterogenea. Venti miniature che provano a disegnare coordinate attendibili per raggiungere quel punto indeterminato dove poliglottismo e glossolalia si incrociano nella singolarità della sua arte. Indimenticabili i canti da una kasba immaginaria (Part. 3), il mantra della Part 14, l’invocazione della Part 16. Tessere di un raffinato mosaico interiore. A tratti si riascolta la voce di un bimbo fa capolino ci saluta, accenna un motivetto, quel piccolo che non ha mai taciuto. Uno dei campionamenti privilegiati da Tazartès, forse l’eco della memoria, di quel bimbo prima del lutto, della perdita della nonna, chissà. Evento luttuoso fondante, come si è visto, che troverà proustiana soluzione nella tormentata La Grand-Mère (in Voyage à l’ombre, 1997). Quella del piccolo Glucksmann è solo una delle voci ricorrenti, al pari delle diverse donne che si affacciano nelle sue pièce sonore, si pensi al mezzosoprano di Country 4 dall’immaginifico Hystérie Off Music (2007).
Ufficialmente l’utopia sonora di Ghédalia Tazartès data 1979, come si è detto. È l’anno della pubblicazione del primo ellepì. L’album venne registrato nel 1977 e a quella data risalgono anche altre due schegge sonore: Assassins 1 e Assassins 2 e all’anno successivo altri dieci frammenti intitolati Quelque Part Quelqu’un. Materiale che vedrà la luce soltanto negli anni Duemila: i primi due affiancati da registrazioni più recenti (Assassins 3 e Assassins 4) andranno a formare il mini cd Les danseurs de la pluie incluso nel box Alga Marghen con il medesimo titolo che accoglieva i primi album. Attualmente il tutto è reperibile sulla pagina Bandcamp dell’artista.
Il mini lp Quelque Part Quelqu’un, a sua volta, apparve quando la Vinyl On Demand ristampò i medesimi quattro album, ma nel formato lp, in un box intitolato Works 77-79. Tentativi, esperimenti, prove, messa a punto dei mezzi vocali, affidate di volta in volta a figure ideali che negli anni Tazartès incarnerà: il muezzin, lo sciamano, lo chansonnier, il poeta, il rocker il posseduto. Dentro il suo appartamento inizia un viaggio senza precedenti, se non letterari; viaggio dentro una stanza, come quella di un altro celebre non-viaggiatore, Xavier De Maistre, documentato in una dozzina di dischi, alcuni dai titoli eloquenti in tal senso, da Diasporas a Tazartès Transports (1984) e Voyage à l’ombre (1997). “Ghédalia Tazartès è un nomade”, scriveva Glucksmann, e non importa che se ne è rimasto per quarant’anni nel suo appartamento, dove ogni tanto si faceva fotografare con il suo cappello alla Joseph Beuys, altrimenti appeso alla parete, una dimora che sembra ideata dal dottor Livingstone e da Max Ernst, perché come scriveva Gilles Deleuze:
“Il nomade, tuttavia, non per forza è qualcuno che si muove: esistono anche viaggi sul posto, viaggi in intensità, e persino sotto il profilo storico i nomadi non sono tanto coloro che emigrano di continuo, quanto coloro che non si muovono, che fanno opera di nomadismo restando sul posto, senza farsi inghiottire dai codici”
(Deleuze, 2002).
A ben vedere, però, più che di viaggio si tratta di transito, prendendo a prestito la definizione di Mario Perniola: “Il transito è un movimento orizzontale che va dal presente al presente” (Perniola, 1985). Esemplare la mini suite in sette parti di Voyage à l’ombre, che apre inseguendo la pista, la traccia di una canzone in tipico stile anni Trenta, prosegue scivolando in una melodia arabeggiante (dalla balera alla moschea), passa a una sorta di filastrocca sciamanica, sbanda in frammenti melodrammatici prima, tzigani poi, si infila in una electro-dance condita da un nugolo di risate e termina in una nenia/ninna nanna/incantesimo. Dal presente al presente, non un “movimento verticale nel tempo che trascende il presente verso il passato, nel ricordo, o verso il futuro” transito dove “nel passaggio dallo stesso allo stesso si compie l’altro, il senza-uguale, il differente” (ibidem).
Attraversamento che Tazartès effettua in compagnia di poeti a lui cari, Mallarmé (Merci Stéphane Mallarmé in Tazartès, 1987), Paul Verlaine (Chanson d’automne in Voyage à l’ombre), Arthur Rimbaud, ancora Verlaine in 5 Rimbaud 1 Verlaine, (2006), disco programmaticamente poetico, e nuovamente Rimbaud (e a Verlaine, che definì il suo compagno l’uomo dalle di suole di vento) in Semelles de Vent (2014) opera del compositore Bruno Letort eseguita dal Cube Quartet e dalle voci di Tazartès e della poetessa e cantante Etenesh Wassié, oltre che dall’autore (chitarra ed elettronica). È il tema del viaggio così caro a Tazartès a fare da tema portante, non a caso il sottotitolo recita: African Rimbaud’s Trips. Una lunga composizione, sorta di audio documentario che si avvale di testi provenienti dalla corrispondenza tenuta dal poeta nel corso del suo giro/vagare e che a metà del percorso regala un duo vocale tanto spiritato quanto indimenticabile.
I legami con le altre muse non si esauriscono qui. Tazartès scrive per la scena (teatro e balletto), per il cinema, cita anche René Daumal (La Mort De Berchou in Check Point Charlie, 1989), allude a Oscar Wilde (nel disperato canto d’apertura di Diasporas, Un Amour Si Grand Qu’il Nie Son Objet, e la Madame Bovary flaubertiana (Elle Eut Des Étouffement Aux Premières Chaleurs Quand Les Poiriers Fleurirent in Tazartès).
Il suo percorso in seguito, a tratti, si farà anche “più musicale”. Lo testimonia per esempio, il bonus aggiunto alla ristampa in cd dell’album (del 1984) Une éclipse totale de soleil. Il brano si intitola Il regalo della Befana, ed è stato registrato nel 1997; evidenzia difatti una maggiore strutturazione, specie se raffrontata con le due ruvidissime tracce dell’ellepì originale, si avvertono contorni più decisi che quasi prendono la forma canzone.
Non che questa Tazartès l’abbia mai esclusa dalla sua produzione discografica, anzi già in Diasporas, agli sconcertanti La Vie Et La Mort Légendaire Du Spermatozoïde Humuch Lardy (che si direbbe il richiamo rituale di un mercante alla fiera della stranezze) e La Berlue Je T’aime (oscuro canto islamico/industriale) faceva seguire un Quasimodo Tango strappalacrime, voce, pianoforte e fisarmonica, spiazzante, a sua volta, perché scritto con il compositore Michel Chion, avvezzo a ben altri suoni (concreto-elettronici), teorico del cinema, critico e compositore, che fu tra i primi a intuire il genio e coltivare l’estro di Tazartès.
Poteva essere un hit e l’inizio di altre vite, ma come ha scritto Chion, in un commosso ricordo pubblicato sul suo blog all’indomani della scomparsa di Tazartès: “Ghédalia non è diventato un crooner, e io non ho avuto successo come cantautore” (Chion, 2021). Non divenne neanche un attore, anche se sulle prime si cimentò sul grande schermo comparendo in alcuni film di Michèle Rosier a iniziare da George qui? del 1972 dedicato a George Sand, che vedeva nel cast anche Gilles Deleuze (!), e nella commedia Mon cœur est rouge, girata nel 1976. Poliedricità e teatralità mantenute negli anni a venire.
Frappé di stili, generi, tradizioni, sperimentazioni, guazzabuglio di mantra, blues, preghiere, imprecazioni, jazz, rumori, ostentazioni, che fa di Tazartès, secondo fonti eterogenee, uno Zelig invasato, un Fitzcarraldo al rovescio la discografia di Ghédalia Tazartès non è semplice da affrontare. Il neofita dovrà muovere i primi passi iniziando dal luciferino Ante–Mortem (2010), inebriarsi e quasi accecarsi di fronte al dispiegarsi di un’opera fiammeggiante, orchestrata senza risparmio d’energie lungo i ventitrè brani senza titolo, per arrivare alle due commoventi bonus track: la preghiera dell’Ave Maria, cantata in latino su tempo beat (Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus, ecc), per chiudere con l’altra Ave Maria, il lied di Franz Schubert (Ellens Gesang III, D839, Op. 52 n. 6), cantata rigorosamente in tedesco, con sottofondo di organo da chiesa, una versione sconvolgente, un classico della classica, oramai noto solo in versioni stucchevoli e/o edulcorate, che Tazartès affronta prima con grinta, rabbia, furore alcolico, poi con tono accorato fino al quasi pianto che interrompe tutto.
La Voce di Tazartès a un certo punto smise di manifestarsi. Tacque per una decina d’anni, anche se il silenzio discografico fu meno radicale. Tornò in azione soprattutto nella seconda decade dei Duemila, tutta all’insegna delle partecipazioni, degli incontri, delle collaborazioni con altri abituali frequentatori del margine e della ripresa e della moltiplicazione dei concerti, un tempo rari, episodici.
Risale al 2010 la prima collaborazione con il duo Reines d’Angleterre, oscura formazione francese composta dai fantomatici ÉL-G e Jo Tanz, attivi anche con la sigla Opéra Mort. Autori di creature sonore inesplicabili, i due dovevano per forza andare a genio al vecchio sciamano per affinità elettive evidenti: musica oscura e inquietante strutturata secondo sequenze allucinatorie, sogni selvaggi e visioni misteriche. Ideale complemento per le cerimonie del mago Tazartès. Saranno due gli album realizzati, il primo, come si è detto, viene pubblicato nel 2010 e si intitola Les Comores, il secondo, vede la luce otto anni dopo ed è ancora più destabilizzante: Globe et Dynastie.
Nel 2011 viene pubblicato Superdisque firmato assieme a Jac Berrocal (tromba e altri oggetti/strumenti) e David Fenech (chitarra elettrica e giradischi), e mantiene la promessa del titolo: è davvero un superdisco, che arrotola, ammatassa e ribalta ballate e canzoni, schegge di free jazz e lacerti blues, marce e preghiere. Siamo in uno dei paesi delle meraviglie sonore dove Tazartès è solito recarsi.
Altro trio due anni dopo. Tazartès si affianca al duo GOL, formazione di irregolari, dadaisti convinti, dediti alla coltivazione di suoni elettroacustici e di un folklore immaginario. L’album si intitola Alpes ed è il cosiddetto folkadelic secondo Ghédalia. L’avvio ci proietta subito da nessuna parte, nella cosmogonia fabbricata senza compromessi da Tazartès: carezzevoli e malinconiche le note di una fisarmonica e di uno scacciapensieri si fanno presto da parte per far largo a un flusso semi rumoristico, dal quale emerge a tratti la Voce, tra accenni di ritmo rock, invocazioni e maledizioni, in un susseguirsi di sorprese che lo stregone e la sua banda elargiscono con generosità. Nel 2014 è il turno di LA., l’ultimo disco registrato unicamente a suo nome. L’album lo riprende in concerto in compagnia di trilli d’uccelli non indentificati, uno sconsolato organetto, campanelli e altre fonti sonore imprecisate. In un brano fa capolino suo figlio Lalo.
Nel 2015 esce un album o meglio escono due lavori ciascuno con una propria copertina ma presenti sulle due facciate di un vinile, entrambe facciate A per volere dello stesso Tazartès. La prima è La Bar Mitzvah du chien funambolica performance lungo la quale Tazartés ora è un loquace rabbino che si esprime in una lingua immaginaria, ora uno sciamano piuttosto posseduto, infine un pacato arringatore che sciorina mucchi di parole vacue, mentre percussioni, archi, cori di bambini si danno il cambio a loro volta per offrire l’accompagnamento più adeguato. Nella foto di copertina, scattata da Yannick Ressigeac, è ritratto Quentin Rollet, nudo, messosi in una bizzarra posa a quattro zampe. La seconda copertina, a metà strada tra Juan Mirò e l’art brut, è opera di Lalo, che partecipa anche alla registrazione. La composizione è Don’t Cry For Me, Mamma, dichiaratamente ispirata all’infanzia. Rieccolo quel bambino, rispunta tra lacerti di rock&roll, invocazioni e strani rituali accompagnati da uno scacciapensieri e accenna una dolce melodia prima del conclusivo audioblob.
Nel 2016 vengono pubblicati due album che lo vedono nuovamente impegnato in trio. In Carp’s Head i partner sono i polacchi Paweł Romańczuk (polistrumentista) e Andrzej Załęski (percussionista) e la mescola si fa ancora più densa. Perfetti compagni di strada i due ennesimi compagni di strada si fanno complici del folk reimmaginato da Tazartès proponendo un’ampia varietà di soluzioni ritmiche per dar vita a danze, ballate, cerimonie estratte da un repertorio senza tempo in un ennesimo insolito viaggio intorno al mondo. L’altro album il cui titolo si limita a riportare luogo e data dell’incontro, Vooruit 17.05.2005, lo vede all’opera assieme al batterista Chris Corsano, improvvisatore di lunga data e a Dennis Tyfus, che nell’occasione ci mette la voce e alcune cassette da cui estrae frammenti. Padrona assoluta della scena, una volta di più, è la Voce di Tazartès, disperata, burbera, osannante e invocante.
L’anno successivo viene pubblicata la cronaca di un incontro al londinese Cafe Oto avvenuto nel 2013 con Maya Dunietz, compositrice e cantante altrettanto irregolare, solita impiegare strumenti non tradizionali e fare un uso sconveniente della voce, per così dire. L’album si intitola Schulevy Maker e cattura una fantastica performance lunga la quale la coppia cambia di continuo tono e timbro, Tazartès privilegi i bassi, Dunietz gli acuti in un gioco di richiami, di inabissamenti, di borbotti, sbuffi, lamenti, strilli, sottolineati, accompagnati talora contrastati dai suoni elettronici, dai campionamenti che spuntano qui e la, ora un’armonica che accenna a un blues, ora un duetto di arpa e flauto, oppure archi o percussioni. C’è anche molta teatralità in questi gesti sonori, un’esagerazione voluta, un gioco. La coppia tenne diversi concerti, ma soltanto quello londinese si è tramutato in un’uscita discografica.
Si torna al maggio 2019, Tazartès si esibisce alla chiesa di Saint-Meirry, la Francia è paralizzata dagli scioperi e in quei giorni particolari partecipa alle registrazioni del disco di Parrenin e Weinrich, come spiega lo stesso titolo (“giorni di sciopero”).
Il resto è presente, la pandemia, e infine una triste notizia da Babele: Ghédalia se ne è andato.
A noi lascia tracce della sua Voce.
Il potere del dono.
- Jac Berrocal, David Fenech, Ghédalia Tazartès, Superdisque, Subrosa, 2011.
- Reines d’Angleterre & Ghédalia Tazartès, Les Comores, Bo’ Weavil Recordings, 2010.
- Reines d’Angleterre & Ghédalia Tazartès, Globe et Dynastie, Bo’ Weavil Recordings, 2012.
- GOL & Ghédalia Tazartès, Alpes, Planam Golta, 2013.
- Bruno Letort, Cube Quartet, Etenesh Wassié, Ghedalia Tazartès, Semelles de Vent, Cubic Series #13, 2014.
- Ghédalia Tazartès, Diasporas, Dais, 2020.
- Ghédalia Tazartès, Tazartès, Alga Marghen, 2015.
- Ghédalia Tazartès, Une éclipse totale de soleil, Alga Marghen, 1996.
- Ghédalia Tazartès, Tazartès Transports, Alga Marghen, 1997.
- Ghédalia Tazartès, Check Point Charlie, Holidays, 2014.
- Ghédalia Tazartès, Voyage à l’ombre, Hinterzimmer 2013.
- Ghédalia Tazartès, 5 Rimbaud 1 Verlaine, Holydays, 2016.
- Ghédalia Tazartès, Les danseurs de la pluie, Alga Marghen, 2006.
- Ghédalia Tazartès, Jeanne, Vand’Oeuvre, 2007.
- Ghédalia Tazartès, Hystérie Off Music, Jardin au Fou, 2007.
- Ghédalia Tazartès, Repas Froid, Pan, 2011.
- Ghédalia Tazartès, Ante–Mortem, Hinterzimmer, 2010.
- Ghédalia Tazartès, Granny Awards, Alga Marghen 2011.
- Ghédalia Tazartès, Coda Lunga, VDN, 2012.
- Ghédalia Tazartès, LA., dBUT interambiance, 2014.
- Ghédalia Tazartès, La Bar Mitzvah du chien/ Don’t Cry For Me, Mamma, Bisou Records 2016.
- Bruno Letort, Cube Quartet, Etenesh Wassié, Ghedalia Tazartès, Semelles de Vent, Cubic Series #13, 2014.
- Ghédalia Tazartès, Chris Corsano, Dennis Tyfus, Vooruit 17.05.2015, Ultra Eczema, 2016.
- Ghedalia Tazartès, Paul Romanchuk, Andrzej Załęski, Carp’s Head, MonotypeRec, 2016.
- Ghedalia Tazartès & Maia Dunietz, Schulevy Maker, Holotype, 2017.
- Alejo Carpentier, I passi perduti, Sellerio, Palermo, 1995.
- Michel Chion, Trop tôt ou trop tard? Souvenirs sur Ghédalia Tazartès, 14 febbraio 2021.
- Gilles Deleuze, Pensiero nomade, in Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002.
- David Fenech, Intervista a Ghédalia Tazartès, sands-zine.com.
- Mario Perniola, Transiti, Cappelli, Bologna, 1985.
- Jean Rochard, Ghedalia Tazartès, l’opéra solitaire, intervista a Ghedalia Tazartès in Les Allumés du Jazz, ottobre 2007, ripubblicata l’11 febbraio 2021.