Seguendo Timothy Morton, interprete della OOO, Object-Oriented Ontology, la consapevolezza sempre maggiore con cui assistiamo al riscaldamento globale e alla nostra infelice promozione al novero delle forze geologiche ci dovrebbe imporre di ridefinire la struttura stessa del pensiero, da considerarsi urgentemente e primariamente come “entità non umana” (Morton, 2021). Un processo necessario perché ci permetterebbe di combattere l’esiziale paradigma dell’agrilogistica alla base della nostra impresa mondana – progetto antropocentrico di sostentamento e riproduzione del genere umano, attualmente in corso, a cui abbiamo dato vita già in Mesopotamia –, collocandoci all’interno di un contesto in cui al primato della presenza dell’essere umano come individuo e come specie si sostituisca una sorta di consapevolezza della coesistenza con realtà ed enti non umani che sul piano ontologico e coscienziale non differiscano da noi. Nient’altro che l’ecognosi: procedimento di conoscenza delle cose oscure grazie al quale individuare e intendere le concatenazioni di cause ed effetti, per quanto strane (weird), che partono da noi ma che vanno anche ben oltre, integrando nell’orizzonte sociale a cui apparteniamo rocce, piante, animali, virus, biomi intestinali, iceberg, licheni, paludi, oceani, vulcani e così a seguire.
A questo scopo, Morton individua una serie di strategie speculative utili, tra le quali ampio spazio occupa il rifiuto della temporalità compressa caratteristica dell’agrilogistica: ovvero la tendenza per cui da migliaia di anni siamo inclini a pensare il tempo tramite unità di misura lineari, unitarie e assai ristrette, con noi mesopotamici al centro, fino alle aberrazioni più recenti che ci portano a ragionare su orizzonti asfittici quali per esempio, potremmo azzardare: i quinquenni delle legislature, gli anni accademici, i trimestri economici, le settimane sondaggistiche delle intenzioni di voto o le 24 ore delle oscillazioni in borsa.
Ampliare lo sguardo temporale a durate anche molto molto più lunghe di quelle braudeliane servirebbe così a superare l’hic et nunc di un approccio alle cose limitatamente umano e a ridefinire i rapporti di causalità che legano gli eventi e i fenomeni, rapporti che hanno luogo in contesti nei quali operano quelli che Morton chiama iperoggetti, dove il suffisso iper- si riferisce all’ampiezza di scala su cui essi vivono. Iperoggetti, ovvero entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo che esercitano “un vincolo di causalità inversa su entità che vivono meno a lungo” (Morton, 2018), e che esibiscono alcune specifiche caratteristiche, tra cui:
– la viscosità: ci attraversano e li attraversiamo, ci sono attaccati addosso e noi a essi;
– la non località: hanno o derivano da effetti a distanza, simultaneamente, anche senza che ci sia contatto;
– l’essenza fasica: vivono su scale spaziotemporali estesissime che evolvono per fasi dagli scarti impercettibili;
– la subscedenza: sono minori rispetto alla somma delle proprie parti.
Iperoggetto è, per esempio, un buco nero, che agisce sullo spaziotempo, si genera lungo periodi iperestesi e influenza il moto dei sistemi planetari (come il nostro) a distanze incommensurabili; o il plutonio, isotopo 239Pu, che in quanto scoria della lavorazione nucleare dev’essere smaltito con cura perché radioattivo, ma ha un’emivita di circa 24.000 anni e ci interroga su un futuro sociale assai distante dall’immediato domani; o, per tornare al principio del nostro discorso, il riscaldamento globale, che è per definizione non locale, che non si lascia individuare direttamente né consente di prevedere le fasi che lo caratterizzano, che ci attraversa e si fa attraversare, non essendo noi capaci di staccarcelo di dosso. L’ecognosi, allora, dandoci modo di intendere o intravedere l’esistenza e la pervasività degli iperoggetti, anche e soprattutto nel loro portato oscuro, è principalmente un processo che dovrebbe coinvolgere il pensiero: un pensiero che al contrario non è avvezzo, almeno allo stato attuale, a collocarsi su tali estesissime scale temporali. Detto in altri termini, l’ecognosi presuppone un necessario salto qualitativo e quantitativo, un esercizio di ridefinizione del quando in cui collocarci, dato che “viviamo su più scale temporali di quante ne possiamo afferrare” (Morton, 2021). Questo complicato e pur tuttavia necessario esercizio speculativo – Morton lo sostiene in maniera esplicita – può favorevolmente trovare supporto nell’arte e nella musica. Dunque, secondo quest’ordine di idee, la letteratura, per esempio nelle culture indigene e nelle cosmogonie – sull’argomento, discusso anche a partire da Morton, si legga il recente (2021) Antropocene Fantastico di Matteo Meschiari –, può dar conto dell’estensione di cui si parla: e questo è a nostro parere ciò che fa anche Antoine Volodine nel suo progetto ormai noto di letteratura post-esotica.
Al bisogno, le opere di Volodine possono agire infatti come libri di testo per un approccio efficace all’ecognosi, come fattore di supporto a un pensiero che voglia provare la vertigine del fuori, portando chi legge in un mondo di temporalità plurime ed estese, cicliche, conviventi e discordanti, che ci aiutino a riflettere, o quantomeno a provare a farlo, in termini non umani, o non più soltanto umani. Il caratteristico altrove della sua narrazione – il post-esotismo, come abbiamo imparato, è letteratura dell’altrove che procede verso l’altrove – è allora, in tal senso, anche un altroquando, che si manifesta sia in termini di mera collocazione cronologica dei fatti narrati (quando è l’altrove) che in termini di procedura narrativa (come funziona il quando nell’altrove), estendendo così a dismisura la cronaca dinamica della narrazione, come avviene in Streghe fraterne, ultimo lavoro di Volodine pubblicato in Italia, nell’usuale traduzione di Anna D’Elia per 66thand2nd. Chi, prima di Streghe fraterne, abbia avuto modo di leggere i libri di Volodine già tradotti entro i nostri confini saprà probabilmente di cosa si sta parlando. Per chi invece non ha avuto modo di farlo, si riportino rapidamente a dimostrazione tre passaggi d’esempio presi in fretta da Terminus radioso (Volodine, 2014) e Sogni di Mevlidò (Volodine, 2019), passaggi in cui si gioca esplicitamente con la narrazione, integrandovi stacchi profondi e abissali tra un prima e un dopo, e mettendo dunque in discussione la linearità continua e ristretta in cui siamo abituati a muoverci:
“Nel medesimo istante, o forse un po’ prima, diciamo pure milletrecentoquarantadue mesi lunari prima, Myriam Umarik sentì un rumore in lontananza e si svegliò”.
“Dopodiché, volenti o nolenti, un buco di sette secoli”
(Volodine, 2014).“Una volta superato l’incrocio, il viaggio dura ancora a lungo. Intere ore o anche di più. Ore o millenni. Non è dato sapere. Il tempo s’impaluda, il buio è costante. L’infinito si rapprende nel dormiveglia dei viaggiatori”
(Volodine, 2019).
Streghe fraterne, come vedremo, segue con incedere vorticoso la stessa procedura, e ci sembra poter essere definita come la più estesa delle opere di Volodine finora lette in Italia, e non per numero di pagine, va da sé. Si tratta di un intrarcane, ovvero, nel lessico del post-esotismo, di un componimento il cui “campo letterario […] si apre sull’infinito” (Volodine, 2017) che, suggerendo pratiche magiche, consta di tre parti assai eterogenee, con la prima e la terza in comunicazione tramite la seconda, che a sua volta funge da collegamento tra le altre. Nel caso specifico di Streghe fraterne la prima parte, Teatro o morte, ci racconta il vagabondaggio della Gran Nidiante, una compagnia teatrale itinerante che solca tristi montagne e dolorosi altipiani in un mondo a venire tipico del panorama post-esotico: paesaggi desolati che sopravvivono esausti al fallimento della rivoluzione e alla lunga durata di una catastrofe globale; paesaggi popolati da banditi, assassini, esseri tormentati e selvaggi, da “gente annientata a causa della guerra, gente immiserita, incupita dalla vita dura di tutti i giorni”, relitti di un’umanità ormai da tempo costretta a contemplare l’orizzonte infinito della propria rovina.
Testimone di una tradizione matrilineare di teatranti girovaghe, unica superstite della compagnia, Éliane Schubert è la voce che viene invitata (forse dall’oltretomba, forse da un altro altrove) a raccontarci le sfortunate vicende della Gran Nidiante, incalzata da una seconda voce che, come in un interrogatorio, le pone domande dirette e brevi. Nel ripercorrere i fatti occorsi alla compagnia, Éliane Schubert riporta nel suo resoconto anche degli slogan sciamanici e oscuri capaci di creare “una forma di tempo, e di spazio, insieme alla morte del tempo e dello spazio”: nient’altro che vociferazioni latrici di messaggi magici e stregoneschi, formule esoteriche tramandatele dalla madre e dalla nonna e utilizzate, con gli altri teatranti vagabondi, anche in seno alla Gran Nidiante:
“PROCEDI FINO AL SEDICESIMO SINGULTO! PROCEDI CON O SENZA MANI RUGOSE! CHE IMPORTANO LE RUGHE SULLE SPALLE, CHE IMPORTANO LE RUGHE SUI CAPELLI, PROCEDI! PROCEDI CON FRAGORE FINO AL SINGULTO NUMBER SEDICI! PROCEDI SENZA SPALLE! PROCEDI CON FRAGORE SENZA BATTITI AL CUORE”.
Questi stessi slogan, messi uno dopo l’altro in 343 punti suddivisi in 49 capitoli (ricorsività del 7 moltiplicato due volte per sé stesso), danno vita poi, nel libro, alla seconda parte dell’intrarcane (intitolata Vociferazioni, appunto), portando una volta per tutte il componimento su versanti esoterici e facendo così da ponte verso il mistero della terza e ultima parte, dal generoso titolo Dura nox, sed nox. Ed è qui che finalmente proviamo a verificare in maniera compiuta il parallelismo sopra introdotto con Morton e gli iperoggetti. Dura nox, sed nox è infatti un racconto in terza persona di oltre cento pagine che, senza mai prendere fiato, in una sola, lunghissima, frase ci narra la storia tumultuosa di un essere infinito e senza sesso, in continuo transito, senza forma né tempo, forza geologica che modella gli spazi, potere astronomico che agisce sugli equilibri delle profondità siderali, manipolatore del tempo e dello spazio, abitatore della materia oscura:
“un essere non nato e non deceduto, […] padrone dei codici genetici da mille generazioni, indebito possessore di ricordi, […] dispregiatore di regole universali, gaudente manipolatore di qualunque possibile realtà, esperto in travestimenti, ladro di pelli altrui, esperto in silenzi e in immobilità, con un dono per la dissimulazione e un dono per la criptobiosi, […] poligamo frenetico e barocco in certe ere geologiche, monogamo amorale in certe altre”.
Ed è proprio nella storia di questo personaggio-iperoggetto, oceanica per composizione, forte di continui innesti lirici e ironici, che si incontra il compendio volodiniano dell’uso ricorsivo del tempo iperesteso e plurimo. Le vicende violentemente incalzanti di tale essere multiforme, né umano né divino, né animale né minerale, si evolvono infatti secondo continui scarti di tempo da cui si determinano passaggi narrativi che, se accostati l’uno all’altro, al modo delle vociferazioni della seconda parte di Streghe fraterne, scrivono un mantra. Un mantra fatto di spezzoni tratti da un anello lungo cento pagine in cui la fine si sovrappone all’inizio. Un mantra, e poi chiudiamo, che suona così, più o meno come una ciclica cosmogonia:
“per secoli s’era crogiolato mimando l’inesistenza […] poi, dopo alcuni giorni di viavai nella polvere arcaica […] mentre scorrevano incomprimibili dodici volte dodicimila anni, lassi di tempo vani secondo i suoi personali valori e calendari […] avanzando tra campi e rovine per tre o quattro giorni […] per dei mesi […] per un’altra ora […] camminò dapprima trentasette lunghi inverni dentro le tenebre che portavano a nord-est, poi, per abbondare, percorse allo stesso modo, a tentoni, tre volte trentasette lunghe stagioni […] e dopo qualche settimana di cammino nelle tenebre si aprì una breccia inaspettata […] e quando sette o otto mesi furono trascorsi […] uscendo da un sonno senza tempo né assenza di tempo […] si mise in marcia, e il terzo giorno vide un lago d’acqua pura e vi si bagnò per un giorno e una notte […] tempi leggendari del Big-Bang […] uno o due millesimi di secondo […] eccoci ritornati a zero, come se non avessimo percorso un’immensa teoria di secoli […] e dopo un po’ […] mentre il tempo scivolava via […] danzò per un certo tempo sotto il cielo scuro e il vento scuro […] poi, una volta terminata la danza, e trascorsi i novecentonovantanovemila e novecentonovantanove battiti d’onde cominciò ad allontanarsi dalla spiaggia e a camminare sulla terra […] lungo un anello che l’avrebbe rapidamente riportata al punto di partenza […]”.
- Matteo Meschiari, Antropocene Fantastico, Armillaria, Roma, 2021.
- Timothy Morton, Iperoggetti, NERO, Roma, 2018.
- Timothy Morton, Ecologia oscura, Luiss University Press, Roma, 2021.
- Antoine Volodine, Terminus radioso, 66thand2nd, Roma, 2014.
- Antoine Volodine, Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, 66thand2nd, Roma, 2017.
- Antoine Volodine, Sogni di Mevlidò, 66thand2nd, Roma, 2019.