Sei enormi portali si aprono sulle immagini di sei elementi naturali: acqua, fulmine, fuoco, lava, oro, fumo si susseguono ininterrottamente e all’unisono. L’acqua sale e poi scorre via liquida, il fulmine lacera il cielo, il fuoco brucia fino a incendiare una croce, la lava si scalda ed emerge, l’oro cola via fuso, il fumo si dirada e anima uno scorcio tratto dalle Carceri di Giovanni Battista Piranesi. Una vasca ai piedi di ciascuno schermo ne riflette l’immagine. Nello specchio d’acqua quieta, i movimenti di ciascun elemento si ribaltano, così l’acqua sale e il fuoco scende, in modo da evidenziarne le analogie. È TUTTOPLESSI, l’ultima personale di Fabrizio Plessi, esposta al Palazzo del Broletto di Como fino al 17 novembre scorso e curata da Paolo Bolpagni e Giovanni Berera. Come afferma Plessi:
“Disegnare il carbone, la paglia, il marmo, il ferro, la terra, diventa un mezzo per avvicinarmi e capire fino in fondo la fisicità ancestrale di questi materiali, rappresentati sempre e comunque a contatto o a confronto con i mezzi in uso della tecnologia. Da questo “scontro” solo apparente di sostanze così diverse, da queste “convivenze impossibili” tra povertà del naturale e ricchezza cangiante dell’elettronico, da questi forzati assemblaggi divenuti poi quasi biologicamente vasi comunicanti, da tutti questi “diversi possibili”, sono nati nel corso degli anni molteplici, infiniti progetti, perfettamente studiati e rappresentati, moltissimi dei quali ancora non realizzati”.
Il punto è che i portali sono varchi. Il contatto tra elementi naturali e immagini elettroniche permette a Plessi di indagare l’essenzialità dei primi e la natura delle seconde. Al rapporto con l’acqua, ricorrente fin dagli esordi, si è ultimamente aggiunto l’oro: luce liquida, la stessa del video, ma anche il più alto tra i metalli nella scala di purezza alchemica. Un materiale significativo per chi, come lui, si definisce “alchimista”. L’alchimia in Plessi sta proprio in questa sua capacità di insistere sulla sovrapposizione di materiali diversi (con il video inteso come materiale al pari degli altri) fino a identificarne un linguaggio unico. In questa spinta verso la comprensione delle cose, Paolo Bolpagni associa l’opera di Plessi alle pitture di Lascaux, entrambi “strumenti gnoseologici, che ci parlano di noi e della natura, e di noi in quanto natura” (Bolpagni, 2024). È evidente che affiancare Lascaux a un’artista rimandi a innumerevoli questioni spinose, alla lettura contraddittoria di Georges Bataille (cfr. Bataille, 2007) e a quella definizione fuorviante di “Cappella Sistina della preistoria”. Lascaux non è la Cappella Sistina della preistoria: le sue grotte sono buie, strette, con disegni spesso sovrapposti, impossibili da osservare nella loro totalità e dunque nati a scopi diversi da quello contemplativo. Ma è proprio nello stesso modo che l’arte di Plessi può farsi strumento gnoseologico, una forma di espressione che indaga indistintamente contenuto e mezzo. È forse proprio da questa sua attitudine al video, mai puro e sempre in dialogo con altri oggetti, che nasce la sua avversione per definizioni e incasellamenti. Marco Maria Gazzano ricordava spesso una sua uscita eloquente in un’edizione del VideoArt Festival di Locarno di metà anni Ottanta:
“Io non sono un «video» artista più di quanto Michelangelo sia un «marmo» artista: sono un artista e basta! Anche quando uso il video”
(in Gazzano, 2020).
Con quest’affermazione Plessi voleva sottolineare la natura unitaria dell’arte, ma anche denunciare le riduzioni sistematiche imposte a chi fa “arte con i media in epoca mediatica” (ibidem). Il termine videoarte da cui Plessi fugge è in effetti tanto accattivante quanto approssimativo, ed espone al rischio di restare imbrigliati in un’etichetta che finisce per trattare come un genere ciò che dovrebbe esserne per antonomasia la negazione. L’opera artistica di Plessi, nonostante le sue giuste precisazioni, appare tuttavia legata a doppio filo al medium video, e resta difficile da comprendere se taciamo del tutto il suo supporto. Come difficile sarebbe cogliere la presenza dell’acqua in tutta la sua carriera, o dell’oro nelle sue ultime installazioni, senza tener conto che il mezzo con cui li indaga è quello altrettanto liquido del video, in una dinamica di rispecchiamento reciproco. Prendiamo come esempio la prima videoperformance di Plessi con il Centro Video Arte delle Civiche Gallerie di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, diretto da Lola Bonora, unico polo di produzione, sperimentazione e disseminazione del video sorto in un museo pubblico italiano. Una serie di disegni lì esposti tra il 1972 e il 1974 dal titolo Acquabiografico, vennero tradotti in videoperformance (Acquabiografico; 1974) grazie al prezioso aiuto di Carlo Ansaloni.
Il portale dedicato all’acqua per la mostra TUTTOPLESSI ospitata al Palazzo del Broletto di Como.
Se con i disegni Plessi “esplorava in termini concettuali le declinazioni metaforiche dell’elemento acquatico” (Vorrasi, 2022), attraverso il video poteva sviluppare alcuni concetti in un piano sequenza continuo, in totale analogia con il tema principale delle sue operazioni. Bastò poco prima che Plessi iniziasse a utilizzare i monitor sia come elemento plastico interno alle sue performance, come avevano fatto in modi diversi anche Nam June Paik e Charlotte Moorman, sia come strumenti di decostruzione linguistica. Ne sono un esempio Tempo Liquido (1978) e Two and two (1977), con Christina Kubisch, che vennero definiti “concerti-video-performance-installazioni” (ibidem) per la commistione di linguaggi che venivano a intrecciarsi nel dispositivo videografico. Ma fu all’inizio del nuovo decennio, che Plessi abbandonò definitivamente la performance in favore delle installazioni e di un utilizzo del video che potesse incidere direttamente sullo spazio circostante con la sua fluidità. Ne è un esempio Liquid gravity center (1982), in cui un monitor che trasmette acqua è incastonato al centro di una pedana circolare e uno sciame di massi vi sono posizionati attorno concentricamente, come se ruotassero, appunto, attorno al loro “centro di gravità liquido”. O ancora, tornando alla tematica del rapporto tra materia naturale e materia artificiale, Mare di marmo (1984), un campo di televisori che raffigurano un mare blu semisepolti tra lastre di marmo, o Materia prima (1989), in cui “incastona tra lastre di pietra serena un mare di monitor spenti, fossili silenziosi di un mondo tecnologizzato” (Bordini, 2000).
Una delle versione della serie Water (1976).
Le installazioni di Plessi sono davvero molte e non possiamo addentrarci in tutte. È forse la prima versione di Water (1976), la sua installazione più celebre, a essere anche la più esplicativa. In una piccola struttura a cubo grigia è incastonata una televisione. Sopra il cubo è posta una scritta al neon che recita “water” al rovescio, mentre nel monitor la stessa scritta è immersa nell’immagine elettronica dell’acqua, ma dritta, come fosse il riflesso del neon sopra di essa. In questo modo, però, il rapporto tra oggetto e riflesso è specchiato: il neon (l’oggetto) è storto e l’immagine video (il riflesso) è dritto. Sulla parete dietro alla videoscultura, un dipinto ad olio riporta la scena raddrizzando il rapporto: è dunque la scritta al neon, sopra, a essere dritta e la sua immagine riflessa, appena sotto, a essere specchiata. Nel disegno del progetto, una fase importantissima nel processo creativo di Plessi, un appunto recita:
“Il falso più vero del vero. La parola dritta si legge rovesciata [in riferimento al dipinto]. La parola rovesciata si legge dritta [in riferimento alla scultura]”
(Saba, Valentini, 2022).
Il risultato finale è uno schema chiastico in cui la scritta “water” si presenta dritta-specchiata-specchiata-dritta. In una versione successiva dell’installazione, il dipinto a olio dietro tv e neon lascia spazio ad una vasca davanti ad essi, perfettamente equiparabile a quelle installate a Como. Nello specchio d’acqua le due scritte “water” si rovesciano proprio come facevano nel dipinto, ma con alternanza specchiata-dritta-specchiata-dritta. L’utilizzo della superfice liquida come specchio rafforza ancora di più l’analogia con la fluidità dell’immagine elettronica.
Il discorso di Plessi può essere letto a più livelli, tutti in qualche modo connessi all’indagine sul mezzo. Innanzitutto, instaurare un rapporto tra acqua e video serve a indagare la natura stessa dell’immagine elettronica. Come notava anche Marshall McLuhan, l’immagine televisiva è un “mosaico” che lo spettatore riempie “con una convulsa partecipazione dei sensi che è profondamente tattile e cinetica” (McLuhan, 2015). Quest’affermazione era ancora più comprensibile all’epoca, quando i tasselli di questo mosaico lasciavano molti più spazi e l’immagine aveva definizione più bassa. La texture tattile e pastosa del video, soprattutto nei suoi primi decenni, instaura nuovi rapporti con le superfici, che quindi vanno completamente ritracciati. In questo senso, mescolare acqua e video voleva dire indagare il rapporto tra strumento e mondo. Voleva dire scoprire le nuove rifrazioni tra elettronica e reale. In secondo luogo, accostare acqua e video significa anche sottolineare la natura fluida di entrambe. Abbiamo citato più volte la fluidità del video e a questo punto occorre spiegarla. A differenza della successione di immagini statiche della pellicola, il video è
“un’incessante formazione di segnali che nascono e muoiono alla velocità della luce e che «intessono» una trama di linee e di punti in vibrazione costante”
(Lischi, 2015).
La fluidità dell’immagine elettronica è dunque insita nella sua costituzione e nel suo continuo processo di conversione in segnale elettronico e ricodifica in punti luminosi (pixel) sullo schermo. Ma questa fluidità si riversa anche nel fluire potenzialmente continuo dei canali televisivi e delle loro trasmissioni a oltranza. Secondo Gazzano:
“Questa “continuità” tecnica, percettiva e comunicativa del tempo videotelevisivo ha indotto, ad esempio, le analogie e le allegorie – spesso esplorate dai videoartisti – tra l’immagine elettronica e l’acqua”
(Gazzano, 2014).
Di queste analogie, Plessi è stato ovviamente tra i primissimi fautori. Tuttavia, non possiamo tralasciare il tratto biografico dell’autore, che riconosce un impatto emotivo fortissimo nel suo trasferimento a Venezia (studiò all’Accademia di Belle Arti) e nei riflessi dei canali che ancora oggi entrano nel suo studio. Non ci è dato sapere quale elemento sia stato più influente. Il terzo livello di lettura di Water non è solo il più complesso, ma anche quello che più esula dalla materia video, anche se poi vi torna, come vedremo. Nel momento in cui Plessi scrive “water” con la luce al neon e poi trasmette sul monitor la stessa scritta immersa in acqua, con dietro un dipinto che ritrae tutta la situazione, si sta riferendo allo stesso oggetto (l’acqua) passando da un segno simbolico (la parola) a un segno indessicale (l’immagine video) e poi a un segno iconico (il dipinto). Il riferimento è ovviamente alla semiotica di Charles Sanders Pierce ed è, in altri termini, un discorso linguistico più che estetico. Ma la cosa ancora più interessante è che lo sta facendo con due forme di luce diverse, il video e il neon, poste in chiaro rapporto duale. Una delle caratteristiche che differenziano di più il video dall’immagine analogica è in effetti la sua proprietà luminosa: i monitor dei nostri dispositivi brillano di luce propria, mentre l’immagine al cinema è luce riflessa sul telo della sala. Il video è, in altri termini, una fonte di luce misurabile in lumen, proprio come una lampada. La stessa giustapposizione tra video e neon si ripeterà tra video e acqua quando Plessi sostituirà il dipinto alla vasca, in modo da ottenere due doppi: video e neon (due fonti di luce), e video e acqua (due materie liquide). La triade di segni regge anche in questa seconda versione dell’installazione, perché la scritta al neon resta simbolo, il riflesso sull’acqua è indice, mentre l’immagine video è da intendere in questo caso come icona: l’immagine in movimento, analogica o elettronica che sia, può essere sia indessicale sia iconica per i suoi contemporanei caratteri di contiguità fisica e di similarità, che nel caso di rappresentazioni astratte o anti-mimetiche si perde ma in questo caso resta intatta.
Ritratto di Fabrizio Plessi per Trilogy (credits: Michael Dannenmann).
Attraverso questa lettura riusciamo a individuare con chiarezza uno schema quadrangolare che si esprime nell’analogia video-acqua-neon-luce, e che potrebbe anche spiegare l’utilizzo dell’oro in sostituzione al neon nelle ultime installazioni, che infatti abbiamo definito “luce liquida”. Per farne due esempi, citiamo Nero Oro (2024), a Padova, tra gli eventi collaterali della sessantesima Biennale d’Arte di Venezia, in cui il tema dell’oro è posto in antitesi al nero, e L’Età dell’Oro (2020), per il Museo Correr di Piazza San Marco a Venezia.
Non possiamo dare a Fabrizio Plessi il dispiacere di definirlo videoartista, un termine affascinante ma forse riduttivo. Dobbiamo tuttavia constatare come abbia risposto presente al dovere di ogni artista – non solo quelli video – di indagare il nuovo mezzo. Un compito essenziale in un presente in cui la tecnologia ci sovrasta e l’immagine video è ormai ovunque, persino nelle nostre tasche. Apprendere come non farsi sommergere e come utilizzarla nel modo più appropriato è importante quanto imparare a leggere. Le sue lezioni di Umanizzazione della tecnologia alla Kunsthochschule für Medien di Colonia servivano proprio a questo. Questa prospettiva videografica si è forse affievolita col tempo, pur restando sempre sottesa nella sua opera.
- Georges Bataille, Lascaux. La nascita dell’arte, a cura di Susanna Mati, Mimesis, Milano, 2007.
- Paolo Bolpagni, Uomo, natura, storia e tecnologia. Riflessioni sull’arte di Fabrizio Plessi, in TUTTOPLESSI, a cura di Giovanni Berera, Paolo Bolpagni, catalogo della mostra, Fondazione Como Arte ETS, Como 2024.
- Silvia Bordini, Arte elettronica, Giunti, Firenze, 2000.
- Marco Maria Gazzano, Kinema. Il cinema sulle tracce del cinema. Dal film alle arti elettroniche, andata e ritorno, Exòrma, Roma, 2013.
- Marco Maria Gazzano, Ultraimmagini. Verso la producibilità elettronica del cinema attraverso le metamorfosi delle arti, Exòrma, Roma, 2020.
- Sandra Lischi, Il linguaggio del video, Carocci editore, Roma, 2023.
- Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 2015.
- Autori vari, Videoarte in Italia. Il video rende felici, a cura di Cosetta Saba, Valentina Valentini, catalogo della mostra (Roma, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo delle Esposizioni, 12 aprile-4 settembre 2022), Treccani, Roma, 2022.
- Autori vari, Videoarte in Italia. Il video rende felici, a cura di Cosetta Saba, Valentina Valentini, catalogo della mostra (Roma, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo delle Esposizioni, 12 aprile-4 settembre 2022), Treccani, Roma, 2022.
- Chiara Vorrasi, Il Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti, Ferrara (1973-1994). Un polo museale di ricerca e disseminazione per le arti elettroniche in Videoarte in Italia. Il video rende felici, op. cit.